8 Il futuro mugnaio

Il sole era tramontato quando la cena arrivò in tavola.

Fuori ululava un vento impetuoso, che scuoteva la casa. Eragon gettava continue occhiate a Roran, in attesa dell’inevitabile. Alla fine il cugino disse: «Mi è stato offerto un lavoro al mulino di Therinsford... e credo che accetterò.»

Garrow finì di masticare il boccone con deliberata lentezza e posò la forchetta. Si appoggiò allo schienale della sedia, s’intrecciò le dita dietro la testa e pronunciò un’unica parola: «Perché?»

Roran glielo spiegò, mentre Eragon piluccava distrattamente il cibo.

«Capisco» fu il commento asciutto di Garrow. Rimase in silenzio a fissare il soffitto. Nessuno si mosse, in attesa del suo verdetto. «Dunque, quando hai intenzione di partire?»

«Cosa?» esclamò Roran.

Garrow si protese sul tavolo con uno scintillio negli òcchi. «Pensavi che ti avrei fermato? Ho sempre sperato che ti sposassi presto. Così la famiglia riprenderà a crescere. Katrina sarà fortunata, ad avere al suo fianco un uomo come te.» Lo stupore iniziale di Roran lasciò il posto a un gran sorriso di sollievo. «Allora, quando pensi di partire?» ripetè Garrow.

Roran ritrovò la voce. «Quando torna quel Dempton a ritirare i giunti per il mulino.»

Garrow annuì. «Ossia fra...»

«Un paio di settimane.»

«Bene. Avremo tempo per prepararci. Sarà diverso, avere la casa solo per noi. Ma se va tutto come deve andare, non sarà per molto.» Guardò Eragon dall’altro lato del tavolo e chiese: «Tu lo sapevi?»

Eragon si strinse nelle spalle con aria afflitta. «Non fino a oggi... È una pazzia.»

Garrow si passò una mano sul volto. «È il corso naturale della vita.» Si alzò. «Andrà tutto bene; il tempo aggiusta ogni cosa. Ma per il momento, datemi una mano a sparecchiare.» Eragon e Roran lo aiutarono in silenzio.

I giorni che seguirono furono tesi. Eragon aveva i nervi a fior di pelle. Tranne che per rispondere in fretta alle domande dirette, non parlava con nessuno. Ovunque si voltasse, piccoli ma eloquenti dettagli gli annunciavano rimminente partenza di Roran: Garrow che gli preparava un pacco, oggetti che mancavano alle pareti, e uno strano senso di vuoto che si dilatava dentro la casa. Dopo una settimana si accorse che lui e Roran erano separati da un distacco sempre maggiore:, quando si parlavano, le parole uscivano a fatica e conversare era difficile.

Saphira era un balsamo per la sua delusione. Con lei parlava in libertà, esprimeva le sue emozioni più intime, e lei lo comprendeva meglio di chiunque altro. Nelle settimane prima della partenza di Roran, la dragonessa attraversò un’altra fase di crescita repentina. Le sue spalle superarono quelle di Eragon, e il ragazzo scoprì che l’avvallamento vuoto fra le punte del dorso gli offriva un comodo spazio dove sedersi. Spesso la sera le saliva in groppa e le grattava il collo, spiegandole il significato delle parole. Ben presto la creatura arrivò a capire tutto quello che lui diceva, e spesso lo commentava, anche.

Per Eragon, questa parte della vita era meravigliosa. Saphira era vera e complessa come un essere umano. La sua personalità era eclettica, a volte molto remota, eppure si comprendevano a vicenda a un livello molto profondo. Le azioni e i pensieri della dragonessa rivelavano di continuo nuovi aspetti del suo carattere. Una volta catturò un’aquila e invece di mangiarla la liberò, dicendo:

Nessun predatore dei cieli dovrebbe finire i propri giorni da preda. Meglio morire in volo che inchiodati al suolo.

L’idea di Eragon di mostrare Saphira alla famiglia si scontrò con l’annuncio di Roran e le parole caute della stessa Saphira. La dragonessa era riluttante a mostrarsi e lui, in parte per egoismo, accettò. Nel momento in cui fosse stata resa nota, la sua esistenza, ne sarebbero scaturiti timori e accuse contro di lui: perciò rimandava. Si disse che avrebbe aspettato un segno, il segnale che i tempi erano maturi. La notte prima della partenza di Roran, Eragon andò a parlargli. Si fece avanti lungo il corridoio verso la porta aperta della sua stanza. Sul cassettone era accesa una lampada a olio, che irradiava sulle pareti la sua calda luce tremula. Le colonnine del letto gettavano lunghe ombre sulle mensole vuote, che arrivavano fino al soffitto. Roran, il volto in ombra, stava arrotolando delle coperte intorno alle proprie cose. Si fermò, prese un oggetto dal cuscino e se lo fece rimbalzare nella mano. Eragon riconobbe una pietra lucida che proprio lui gli aveva regalato anni prima. Roran fece per infilarla nel fagotto, poi ci ripensò e la posò su uno scaffale, Eragon sentì un nodo alla gola e se ne andò in silenzio.

«Bene. Avremo tempo per prepararci. Sarà diverso, avere la casa solo per noi. Ma se va tutto come deve andare, non sarà per molto…Guardò Eragon dall’altro lato del tavolo e chiese: «Tu lo sapevi?»

Eragon si strinse nelle spalle con aria afflitta. «Non fino a oggi... È una pazzia.

Garrow si passò una mano sul volto. «È il corso naturale della vita.» Si alzò. «Andrà tutto bene; il tempo aggiusta ogni cosa. Ma per il momento, datemi una mano a sparecchiare.» Eragon e Roran lo aiutarono in silenzio.

I giorni che seguirono furono tesi. Eragon aveva i nervi a fior di pelle. Tranne che per rispondere in fretta alle domande dirette, non parlava con nessuno. Ovunque si voltasse, piccoli ma eloquenti dettagli gli annunciavano l’imminente partenza di Roran: Garrow che gli preparava un pacco, oggetti che mancavano alle pareti, e uno strano senso di vuoto che si dilatava dentro la casa. Dopo una settimana si accorse che lui e Roran erano separati da un distacco sempre maggiore: quando si parlavano, le parole uscivano a fatica e conversare era difficile.

Saphira era un balsamo per la sua delusione. Con lei parlava in libertà, esprimeva le sue emozioni più intime, e lei lo comprendeva meglio di chiunque altro. Nelle setti-mane prima della partenza di Roran, la dragonessa attraversò un’altra fase di crescita repentina. Le sue spalle superarono quelle di Eragon, e il ragazzo scoprì che l’avvalla-mento vuoto fra le punte del dorso gli offriva un comodo spazio dove sedersi. Spesso la sera le saliva in groppa e le grattava il collo, spiegandole il significato delle parole. Ben presto la creatura arrivò a capire tutto quello che lui diceva, e spesso lo commentava, anche.

Per Eragon, questa parte della vita era meravigliosa. Saphira era vera e complessa come un essere umano. La sua personalità era eclettica, a volte molto remota, eppure si comprendevano a vicenda a un livello molto profondo. Le azioni e i pensieri della dragonessa rivelavano di continuo nuovi aspetti del suo carattere. Una volta catturò un’aquila e invece di mangiarla la liberò, dicendo:

Nessun predatore dei cieli dovrebbe finire i propri giorni da preda. Meglio morire in volo che inchiodati al suolo.

L’idea di Eragon di mostrare Saphira alla famiglia si scontrò con l’annuncio di Roran e le parole caute della stessa Saphira. La dragonessa era riluttante a mostrarsi e lui, in parte per egoismo, accettò. Nel momento in cui fosse stata resa nota la sua esistenza, ne sarebbero scaturiti timori e accuse contro di lui: perciò rimandava. Si disse che avrebbe aspettato un segno, il segnale che i tempi erano maturi.

La notte prima della partenza di Roran, Eragon andò a parlargli. Si fece avanti lungo il corridoio verso la porta aperta della sua stanza. Sul cassettone era accesa una lampada a olio, che irradiava sulle pareti la sua calda luce tremula. Le colonnine del letto gettavano lunghe ombre sulle mensole vuote, che arrivavano fino al soffitto. Roran, il volto in ombra, stava arrotolando delle coperte intorno alle proprie cose. Si fermò, prese un oggetto dal cuscino e se lo fece rimbalzare nella mano. Eragon riconobbe una pietra lucida che proprio lui gli aveva regalato anni prima. Roran fece per infilarla nel fagotto, poi ci ripensò e la posò su uno scaffale. Eragon sentì un nodo alla gola e se ne andò in silenzio.

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