Sulla roccaforte, Eragon trovò un nano ad attenderlo. Dopo essersi inchinato e aver borbottato «Argetlam» il nano aggiunse, con un pesante accento: «Bene. Sveglio. Knurla Orik ti aspetta.» S’inchinò di nuovo e corse via. Saphira balzò giù dalla sua caverna e atterrò accanto a lui. Teneva Zar’roc fra gli artigli.
A che cosa serve? domandò lui, accigliato.
Saphira inclinò la testa. Prendila. Sei un Cavaliere e dovresti portare la spada di un Cavaliere.
Zar’roc ha un passato di sangue, ma questo non deve modificare le tue azioni. Plasma un nuovo futuro per lei, e portala con orgoglio.
Sei sicura? Ricorda il consiglio di Ajihad.
Saphira sbuffò, e un ricciolo di fumo le risalì dalle narici. Portala, Eragon. Se desideri mantenerti al di sopra delle forze in gioco, non farti influenzare dai pensieri altrui.
Come vuoi, disse Eragon esitante, allacciandosi la spada alla vita. Si arrampicò in groppa alla dragonessa, e Saphira spiccò il volo dalla cima di Tronjheim. C’era abbastanza luce nel Farthen Dùr ora che la massa nebulosa delle pareti del cratere, cinque miglia in ogni direzione, era visibile. Mentre scendevano a spirale verso la base della città-montagna, Eragon raccontò a Saphira del suo incontro con Angela.
Non appena furono atterrati vicino a uno dei cancelli di Tronjheim. Orik corse loro incontro. «Il mio sovrano, re Rothgar, desidera vedervi entrambi. Fate in fretta.»
Eragon smontò da Saphira e seguì il nano dentro Tronjheim. Saphira li seguì senza difficoltà. Ignorando gli sguardi dei curiosi lungo il corridoio. Eragon chiese: «Dove incontreremo Rothgar?»
Senza rallentare. Orik rispose: «Nella sala del trono, sotto la città. Sarà un’udiènza privata come atto di otho, di fede. Non occorre che ti rivolga a lui in nessun modo speciale, ma parlagli con rispetto. Rothgar si adira facilmente, ma è saggio e un esperto conoscitore della mente degli uomini, perciò rifletti prima di parlare.»
Una volta entrati nella sala centrale di Tronjheim. Orik imboccò una delle due scale discendenti che fiancheggiavano il corridoio di fronte. Era quella di destra, che curvava dolcemente verso l’interno fino a riprendere la direzione da cui erano venuti. L’altra si univa a questa per formare un’ampia scalinata fiocamente illuminata, che terminava, dopo cento piedi, davanti a una porta di granito a due battenti. Su entrambi era incisa una corona a sette punte.
Sette nani erano a guardia di ciascun lato della porta. Impugnavano picconi di metallo brunito e indossavano elmi tempestati di gemme. Mentre Eragon. Orik e Saphira si avvicinavano, i nani picchiarono per terra col manico dei loro picconi. Un cupo rimbombo echeggiò per le scale. I due battenti si aprirono verso l’interno.
Davanti a loro c’era una sala scura, lunga un buon tiro di freccia. La sala del trono era una caverna naturale; le pareti erano costellate di stalagtiti e stalagmiti, ciascuna più grossa di un uomo. Il pavimento scuro era liscio e levigato. In fondo alla sala c’era un trono nero che ospitava una figura immobile. Orik s’inchinò. «Il re vi aspetta.» Eragon posò una mano sul fianco di Saphira, e i due avanzarono insieme. Le porte si chiusero alle loro spalle, lasciandoli soli nella penombra della sala con il re.
Ogni loro passo echeggiava nella sala mentre avanzavano verso il trono. Nei recessi fra le stalattiti e le stalagmiti erano incassate grandi statue. Ogni scultura raffigurava un re dei nani con la corona, seduto sul trono; i loro occhi vuoti fissavano in lontananza, i. volti rugosi fermati in espressioni feroci. Un nome era cesellato con le rune sotto ogni paio di piedi.
Eragon e Saphira avanzarono solennemente tra le due file di monarchi defunti. Superarono oltre quaranta statue; poi c’erano oscure nicchie vuote, in attesa dei re futuri. Si fermarono al cospetto di Rothgar, in fondo alla sala.
Anche il re dei nani sedeva come una statua su un trono ricavato da un unico blocco di marmo nero, tozzo, disadorno e tagliato con estrema precisione. Il sovrano emanava una grande forza, una forza che risaliva ai tempi antichi in cui i nani avevano governato in Alagasëia, senza interferenze di elfi o umani. In testa, al posto della corona, portava un elmo rotondo, d’oro tempestato di diamanti e rubini. Il suo volto era arcigno, segnato dal tempo e solcato da rughe di esperienza. Sotto la fronte sporgente e le sopracciglia cespugliose brillavano occhi scuri e penetranti. Sul torace massiccio indossava una cotta di maglia. Portava la lunga barba bianca infilata nella cintura, e in grembo teneva un potente martello da guerra con il simbolo del clan dì Orik inciso sulla testa.
Eragon si piegò goffamente su un ginocchio. Saphira rimase eretta. Il re si mosse, come svegliandosi da un lungo sonno, e borbottò: «Alzati. Cavaliere, non occorre che mi tributi alcun omaggio.»
Rialzandosi, Eragon incontrò gli occhi impescrutabili di Rothgar. Il re lo squadrò severo, poi disse con voce gutturale: «Àz knurl deimi lanok. Attenzione, la roccia cambia. Un vecchio detto che usa da noi. E oggi la roccia cambia molto in fretta, davvero.» Accarezzò l’impugnatura del martello.
«Non ti ho potuto ricevere prima, come ha fatto Ajihad, perché sono stato costretto a occuparmi dei miei nemici all’interno dei clan. Pretendevano che ti negassi asilo e ti cacciassi dal Farthen Dùr. Mi ci è voluto molto per convincerli del contrario.»
«Ti ringrazio» disse Eragon. «Non sapevo che il mio arrivo avrebbe causato tanti problemi.»
Il re accettò i ringraziamenti, poi levò una mano nodosa e indicò le statue lontane. «Guarda. Cavaliere Eragon, dove i miei predecessori siedono sui loro troni scolpiti. Sono quarantuno, e io sono il quarantaduesimo. Quando da questo mondo passerò nelle mani degli dei, la mia hìrna verrà aggiunta a quella schiera. La prima statua è quella del nostro antenato Korgan, che forgiò questa mazza. Volund. Per otto millenni, fin dall’alba della nostra razza, i nani hanno governato sotto il Farthen Dùr. Siamo le ossa della terra, più antichi sia dei leggiadri elfi che dei selvaggi draghi.»
Saphira si mosse appena.
Rothgar si protese dal trono, la voce profonda e rauca. «Sono vecchio, umano, anche secondo il nostro modo di contare gli anni. Vecchio abbastanza da aver visto i Cavalieri nella loro fuggevole gloria, vecchio abbastanza da aver parlato con il loro ultimo comandante. Vrael, che mi venne a rendere omaggio fra queste stesse mura. Sono pochi i vivi che possono dire altrettanto. Ricordo i Cavalieri e come si immischiavano nei nostri affari. Ma ricordo anche la pace che mantenevano e che rendeva possibile viaggiare illesi da Tronjheim a Narda.
«E.ora tu sei di fronte a me… una tradizione perduta che si rinnova. Dimmi, e parla sinceramente, perché sei venuto nel Farthen Dùr? Sono a conoscenza degli eventi che ti hanno spinto a fuggire dall’Impero, ma quali sono le tue intenzioni, adesso?»
«Per adesso, Saphira e io vogliamo soltanto recuperare le forze a Tronjheim» rispose Eragon. «Non siamo qui per creare problemi, solo per trovare asilo dai pericoli che abbiamo affrontato per tanti mesi. Ajihad vorrebbe mandarci dagli elfi, ma finché non lo fa, per noi va benissimo restare qui.»
«Dunque è soltanto il desiderio di sicurezza che vi ha condotti qui?» chiese Rothgar. «Vuoi vivere a Tronjheim e dimenticare le tue questioni con l’Impero?»
Eragon scosse il capo, respingendo con orgoglio quell’affermazione. «Se Ajihad ti ha parlato del mio passato, dovresti sapere che l’Impero mi ha causato tanto dolore che non sarò soddisfatto finché non lo vedrò ridotto in cenere. Ma oltre a questo, voglio aiutare coloro che non possono opporsi a Galbatorix, compreso mio cugino. Possiedo la forza per aiutarli, quindi devo.»
Il re parve soddisfatto dalla risposta. Si rivolse a Saphira e chiese: «Drago, tu che cosa pensi in proposito? Per quale ragione siete venuti?»
Saphira arricciò il labbro di sopra per emettere un cupo ringhio. Digli che ho sete del sangue dei nostri nemici e attendo con desiderio il giorno in cui cavalcheremo in battaglia contro Galbatorix.
Non provo indulgenza né pietà per i traditori e i distruttori di uova, come quel falso re. Mi ha tenuta prigioniera per oltre un secolo e anche adesso possiede due dei miei fratelli, che farò di tutto per liberare, E digli anche che ti giudico pronto per questo compito.
Eragon fece una smorfia a quelle parole, ma le riferì puntualmente a Rothgar. Il re arricciò un angolo della bocca in una smorfia di cupo divertimento; le sue rughe si fecero ancora più profonde.
«Vedo che i draghi non sono cambiati nel corso dei secoli.» Picchiò le nocche sul granito del trono.
«Sai perché questo sedile è stato scolpito in modo così squadrato? Perché nessuno ci si possa sedere comodo. Io non ci sto comodo e me ne separerò senza rimpianti quando verrà il momento. Che cosa ti rammenta i tuoi doveri, Eragon? Se l’Impero dovesse cadere, prenderai il posto di Galbatorix e rivendicherai il suo regno?»
«Non cerco la corona né il comando» disse Eragon, corrucciato. «Essere un Cavaliere comporta già enormi responsabilità. No, non voglio il trono di Urù’baen... a meno che non ci sia nessuno disposto a farlo, o abbastanza competente.»
Rofhgar lo ammonì con aria grave: «Certo saresti un re migliore di Galbatorix, ma nessuna razza dovrebbe avere un capo che non invecchia e non lascia il trono. Il tempo dei Cavalieri è passato, Eragon. Non risorgeranno più... nemmeno se le altre uova di Galbatorix dovessero schiudersi.»
Un’ombra gli attraversò il viso quando il suo sguardo si posò sul fianco di Eragon. «Vedo che porti la spada di un nemico; mi era stato detto, e mi è stato detto anche che hai viaggiato col figlio di un Rinnegato. Non mi piace vedere quell’arma.» Tese una mano. «Ma vorrei esaminarla.»
Eragon estrasse Zar’roc dal fodero e la porse al re, dal lato dell’impugnatura. Rothgar la prese e fece scorrere lo sguardo esperto sulla rossa lama che rifletteva la luce delle lanterne. Ne saggiò la punta con il palmo e disse: «Una lama forgiata da maestri. Gli elfi di rado scelgono di fabbricare spade... preferiscono archi e picche... ma quando lo fanno, i risultati sono impareggiabili. Questa è una lama segnata dalla cattiva sorte; non sono contento di vederla nel mio regno. Ma portala pure, se vuoi: forse la sua sorte è cambiata.» Restituì Zar’roc a Eragon, che la rinfoderò. «Mio nipote ti è stato utile durante questi primi giorni di permanenza?»
«Chi?»
Rothgar inarcò un sopracciglio cespuglioso. «Orik, il figlio di mia sorella minore. Ha servito sotto Ajihad a dimostrazione del mio sostegno ai Varden, ma a quanto pare è stato esonerato per tornare al mio comando. Mi ha fatto piacere sapere che hai preso le sue difese.»
Eragon capì che quello era un altro segno di otho, di fede, da parte di Rothgar. «Non avrei potuto chiedere una guida migliore.»
«Bene» disse il re, chiaramente soddisfatto. «Purtroppo non posso trattenermi oltre con te. I miei consiglieri mi aspettano per discutere di alcune questioni. Ma c’è un’ultima cosa che devi sapere: se desideri avere il sostegno dei nani all’interno del mio regno, devi prima dimostrare quanto vali. Abbiamo la memoria lunga e non prendiamo decisioni affrettate. Le parole non servono a niente senza i fatti.»
«Lo terrò a mente» disse Eragon con un inchino.
Rothgar annuì con aria regale. «Potete andare, adesso.»
Eragon si volse insieme a Saphira, e ripercorsero la sala del re della montagna. Orik li aspettava dall’altro lato dei portali di pietra, con un’espressione ansiosa. Mentre risalivano verso la sala centrale di Tronjheim, domandò: «È andato tutto bene? Siete stati accolti con benevolenza?»
«Mi è parso di sì. Il tuo re è molto cauto» commentò Eragon.
«Ecco come ha fatto a sopravvivere così a lungo.»
Non mi piacerebbe proprio trovarmi di fronte a un Rothgar infuriato, osservò Saphira.
Eragon le scoccò un’occhiata. Già, nemmeno a me. Non sono sicuro di quello che pensa di te... Ho la netta impressione che non ami i draghi, anche se non l’ha detto apertamente.
Saphira sembrò divertita. In questo si è dimostrato molto saggio, soprattutto perché mi arriva a stento al ginocchio.
Al centro di Tronjheim, sotto lo sfavillante Isidar Mithrim. Orik disse: «La tua benedizione di ieri ha messo in subbuglio i Varden. È stato come infastidire un alveare. La bambina che Saphira ha toccato viene acclamata come una futura eroina. Lei e la sua tutrice sono state alloggiate in un appartamento lussuosissimo. Tutti parlano del tuo miracolo, e tutte le madri umane ti cercano per farti fare lo stesso ai loro piccoli.»
Eragon si guardò intorno, allarmato. «Che cosa dovremmo fare?»
«A parte pensare prima di agire?» disse Orik, seccato. «Farti vedere il meno possibile. Nessuno avrà accesso alla roccaforte, perciò lassù non sarai disturbato.»
Eragon non aveva ancora voglia di tornare alla rocca. Era mattina, e voleva esplorare Tronjheim con Saphira. Ora che erano lontani dall’Impero, non c’era ragione perché restassero separati; ma era impossibile non attirare l’attenzione con lei al suo fianco. Saphira, che cosa vuoi fare?
Lei gli sfiorò un braccio col muso squamoso. Io torno sulla rocca. C’è qualcuno che voglio incontrare. Tu fai un giro, guardati intorno, come ti pare.
D’accordo, disse lui, ma chi devi incontrare? Saphira si limitò a strizzare uno degli enormi occhi azzurri prima di imboccare uno dei quattro tunnel principali di Tronjheim.
Eragon spiegò a Orik dove era diretta, poi aggiunse: «Vorrei fare colazione. E più tardi mi piacerebbe visitare meglio Tronjheim... è un posto straordinario. Non desidero ancora cominciare l’addestramento. Magari domani.»
Orik annuì, la folta barba che rimbalzava sul torace rotondo. «In questo caso, ti piacerebbe visitare la biblioteca di Tronjheim? È molto antica e conserva alcune pergamene di inestimabile valore. Potresti trovare interessante leggere una storia di Alagasëia che non sia stata corrotta dalle mani di Galbatorix.»
Con una fitta di nostalgia, Eragon ricordò di quando Brom gli aveva insegnato a leggere. Si chiese se ne era ancora capace; era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva visto qualcosa di scritto. «Sì, andiamo.»
«Perfetto.»
Dopo che ebbero mangiato. Orik condusse Eragon attraverso una miriade di corridoi, fino alla loro destinazione. Quando furono sotto l’arco intagliato che portava alla biblioteca, Eragon lo varcò con deferenza.
L’ampia sala assomigliava a una foresta. File di eleganti colonne svettavano verso l’oscuro soffitto nervato, cinque piani più in alto. Fra i pilastri erano incuneati scaffali di marmo nero, spalla a spalla. Mensole gremite di pergamene coprivano le pareti, intervallate da tre angusti passaggi raggiungibili grazie ad altrettante scale a chiocciola. A intervalli regolari tutto intorno c’erano coppie di panche di pietra l’una di fronte all’altra, e in mezzo tavoli le cui basi sembravano sorgere dal pavimento stesso.
Nella biblioteca erano conservati innumerevoli libri e pergamene. «Questa è la vera eredità della nostra razza» disse Orik. «Qui si conservano gli scritti dei nostri più grandi re e studiosi, dall’antichità fino ai nostri giorni. Qui sono archiviate le canzoni e le storie composte dai nostri artisti. Questa biblioteca potrebbe essere il nostro tesoro più prezioso. Tuttavia non vi sono conservate soltanto opere dei nani: ci sono anche opere umane. La vostra è una razza dalla vita breve ma prolifica. Abbiamo pochissime informazioni sugli elfi. Custodiscono gelosamente i loro segreti.»
«Quanto posso restare?» chiese Eragon, avviandosi verso i primi scaffali.
«Quanto desideri. Vieni da me se hai qualche domanda.»
Eragon scorse i volumi con sommo piacere, sfilando dalle mensole quelli con le copertine o i titoli più interessanti. Scoprì con piacere che i nani usavano le stesse rune degli umani per scrivere, ma rimase deluso quando si accorse quanto gli era difficile leggere, dopo mesi privi di esercizio. Passò di libro in libro, addentrandosi sempre di più nella vasta biblioteca. Alla fine si immerse in una traduzione delle poesie di Dóndar, il decimo re dei nani.
Mentre scorreva le righe eleganti, sentì un suono di passi avvicinarsi dall’altro lato dello scaffale. Il rumore lo fece sussultare, ma si rimproverò per la sciocca reazione: non poteva certo essere l’unico frequentatore della biblioteca. Malgrado ciò, ripose in silenzio il libro e si allontanò, i sensi in guardia. Era stato vittima di agguati troppe volte per ignorare quella strana sensazione. Udì ancora i passi: questa volta appartenevano a due persone. Teso, si infilò in un varco, cercando di ricordare dove aveva lasciato Orik. Voltò un angolo e rimase di stucco nel trovarsi faccia a faccia con i Gemelli.
I Gemelli erano immobili, spalla a spalla, un’espressione impassibile sui volti pallidi. I loro occhi da serpente lo scrutarono truci. Le loro mani, nascoste fra le pieghe dei manti purpurei, si torsero appena. Si inchinarono entrambi, ma il loro gesto fu insolente e beffardo.
«Ti stavamo cercando» disse uno. La sua voce era sgradevole come quella dei Ra’zac.
Eragon represse un brivido. «Per quale ragione?» Dilatò la mente e raggiunse Saphira. La dragonessa reagì subito, unendo i propri pensieri ai suoi.
«Da quando ti sei incontrato con Ajihad, volevamo... chiederti scusa per le nostre azioni.» Le parole suonavano false, ma in un modo che Eragon non poteva smascherare. «Siamo venuti a renderti omaggio.» Eragon avvampò di còllera mentre i due si inchinavano ancora.
Attento! lo ammonì Saphira.
Il giovane tenne a freno il proprio istinto. Non poteva permettersi di perdere le staffe davanti a quei due. Gli venne un’idea, e con un sorriso affettato rispose: «Oh, no, sono io che vi devo rendere omaggio. Senza la vostra approvazione, non avrei mai potuto entrare nel Farthen Dùr.» Fece un inchino per ciascuno, mettendoci quanto più veleno possibile.
Gli occhi dei Gemelli lampeggiarono d’irritazione, ma i due ricambiarono il sorriso e dissero:
«Siamo onorati che uno così.... importante... come te abbia tanta stima di noi. Ti siamo debitori per le tue parole gentili.»
Questa volta toccò a Eragon sentirsi irritato. «Me ne ricorderò se ne avrò bisogno.»
Saphira s’intromise nei suoi pensieri. Stai esagerando. Non dire niente di cui potresti pentirti. Quei due ricorderanno ogni parola da poter usare contro dì te.
Già è diffìcile senza che ti ci metta anche tu! ribatte Eragon. Saphira si ritirò con un breve ringhio esasperato.
I Gemelli si avvicinarono, con un lieve fruscio dei manti sul pavimento. Le loro voci suonarono più cordiali. «Ti cercavamo anche per un’altra ragione. Cavaliere. I pochi maghi che vivono a Tronjheim hanno formato un gruppo. Ci chiamiamo Du Vrangr Gata, ossia il...»
«Il Tortuoso Cammino, lo so» li interruppe Eragon, ricordando quello che aveva detto Angela in proposito.
«La tua conoscenza dell’antica lingua è sorprendente» disse un Gemello in tono lusinghiero. «Come dicevamo. Du Vrangr Gata ha sentito parlare delle tue gesta potenti, e siamo venuti a portarti l’invito di entrare a far parte del gruppo. Saremmo molto onorati di avere uno della tua levatura come membro. E credo che potremmo essere in grado di assisterti.»
«In che modo?»
L’altro Gemello rispose: «Noi due abbiamo acquisito molta esperienza nelle cose magiche. Potremmo guidarti….mostrarti gli incantesimi che abbiamo scoperto e insegnarti parole di potere. Nulla ci renderebbe più felici che poterti assistere, in piccola parte, nel tuo cammino verso la gloria. In cambio non ci devi niente, ma nel caso che lo ritenessi opportuno, potresti condividere con noi qualche frammento delle tue conoscenze.»
Il volto di Eragon si oscurò quando capì che cosa gli stavano chiedendo. «Credete che io sia uno sciocco?» esclamò infuriato. «Non accetterò mai di diventare vostro allievo perché possiate imparare le parole che Brom mi ha insegnato! Ah, chissà che rabbia avete provato, quando non siete riusciti a rubarmele dalla mente.»
I Gemelli gettarono all’improvviso la maschera di cordialità. «Non si scherza con noi, ragazzo! Noi siamo quelli che esamineranno le tue capacità magiche. E potrebbe essere molto spiacevole. Ricorda, basta un semplice incantesimo mal formulato per uccidere qualcuno. Sarai anche un Cavaliere, ma noi siamo più forti di te.»
Eragon rimase imperturbabile, anche se il suo stomaco si torceva dolorosamente. «Prenderò in considerazione la vostra off erta, ma,..»,
«Aspettiamo la tua risposta per domani. E fa’ in modo che sia quella giusta.» Si congedarono con un sorriso gelido e si allontanarono.
Eragon restò dov’era, torvo. Non accetterò mai di unirmi al Du Vrangr Gaia, non m’importa quello che faranno.
Dovresti parlare con Angela, disse Saphira. Lei ha già avuto a che fare con i Gemelli. Forse potrà assistere mentre ti esaminano. In questo modo potrebbe impedire che ti facciano del male.
Buona idea. Eragon vagò tra gli scaffali finché non trovò Orik seduto su una panca, intento a lucidare la sua ascia di guerra. «Vorrei tornare alla rocca» gli disse.
Il nano infilò il manico dell’ascia in un passante di pelle che aveva alla cintura, poi scortò Eragon al cancello, dove lo attendeva Saphira. Intorno a lei si era già radunato un folto gruppo di curiosi. Eragon li ignorò, si arrampicò sul dorso della dragonessa, e insieme volarono verso la rocca.
Bisogna risolvere il problema alla svelta. Non puoi permettere che i Gemelli ti minaccino, disse Saphira mentre atterrava su Isidar Mithrim.
Lo so. Ma vorrei evitare di farli arrabbiare. Potrebbero essere nemici molto pericolosi. Smontò in fretta, tenendo la mano su Zar’roc.
Li vuoi forse come alleati?
Eragon scosse il capo. Non proprio... domani dirò loro che non mi unirò al Du Vrangr Gaia.
Eragon lasciò Saphira nella sua caverna e decise di fare un giro. Voleva vedere Angela, ma non ricordava la strada per raggiungere il suo nascondiglio, e non c’era Solembum. a guidarlo. Vagò per i corridoi deserti, sperando di incontrare Angela per caso.
Quando cominciava a essere stanco di vedere stanze vuote e grigie pareti tutte uguali, ritornò verso la rocca. Mentre si avvicinava alla caverna, sentì qualcuno che parlava, là dentro. Si fermò per origliare, ma la voce tacque. Saphira? Chi c’è con te?
Una donna...Ha un tono dì comando. La distraggo mentre tu entri. Eragon sganciò l’anello di sicurezza di Zar’roc. Orik ha detto che non ci sarebbero stati intrusi sulla rocca: perciò chi può essere? cercò di controllarsi, poi entrò, la mano alla spada.
Una giovane donna era in piedi al centro della sala e guardava con curiosità Saphira, che aveva fatto capolino dalla grotta. Lo zaffiro stellato emanava una luce rosata che metteva ancora più in risalto la sua carnagione, scura come quella di Ajihad. Indossava un lungo abito di velluto violaceo, dal taglio elegante. Alla cintura portava un pugnale tempestato di gemme in un fodero di cuoio lavorato.
Eragon incrociò le braccia, aspettando che la donna lo notasse. Lei continuò a guardare Saphira, poi fece una graziosa riverenza e chiese. «Di grazia, potresti dirmi dove posso trovare il Cavaliere Eragon?» Gli occhi di Saphira brillarono di malizia.
Con un sorriso, Eragon disse: «Sono qui.»
La donna si voltò di scatto, portando la mano al pugnale. Il suo volto era bellissimo, con gli occhi a mandorla, le labbra carnose e gli zigomi rotondi. Si tranquillizzò e fece un nuovo inchino. «Sono Nasuada» disse.
Eragon accennò un inchino. «È chiaro che sai chi sono, ma che cosa vuoi da me?»
Nasuada sorrise in modo incantevole. «Mio padre. Ajihad, ti manda un messaggio. Vuoi ascoltarlo?»
Il capo dei Varden non aveva dato a Eragon l’impressione di essere tagliato per il matrimonio e la paternità. Si domandò chi fosse la madre di Nasuada: doveva essere una donna fuori dal comune per aver attirato l’attenzione di Ajihad. «Naturalmente.»
Nasuada alzò il mento e recitò: «Ajihad è lieto che tutto stia andando bene, ma ti suggerisce di astenerti da azioni clamorose come la benedizione di ieri, poiché creano più problemi di quanti ne risolvano. Inoltre ti prega di sottoporti quanto prima all’esame... gli occorre sapere quali sono le tue capacità prima di mandare messaggi agli elfi.»
«E sei salita fin quassù solo per dirmi questo?» chiese Eragon, pensando alla lunghezza di Voi Turin.
Nasuada scosse il capo. «Ho usato il montacarichi che serve a trasportare le merci ai livelli più alti. Avremmo potuto mandarti il messaggio in un altro modo, ma ho pensato che sarebbe stato meglio consegnartelo di persona, anche per avere modo di conoscerti.»
«Vuoi restare?» chiese Eragon, indicando la grotta di Saphira.
Nasuada diede in una risatina leggera. «No, sono attesa da un’altra parte. Mio padre ti manda a dire anche che puoi far visita a Murtagh, se lo desideri.» Un’espressione pensosa alterò i suoi lineamenti sereni. «Ho conosciuto Murtagh... È ansioso di parlarti. Sembra così solo: dovresti proprio andare a trovarlo.» E spiegò a Eragon come raggiungere la cella di Murtagh.
Eragon la ringraziò per le informazioni, poi chiese: «Notizie di Arya?.Sta meglio? Posso vederla? Orik non ha saputo dirmi molto.»
La giovane sorrise maliziosa. «Arya si sta riprendendo in fretta, come tutti gli elfi. Nessuno può vederla, tranne mio padre. Rothgar e i guaritori. Hanno trascorso molto tempo con lei per sapere che cosa è successo durante la sua prigionia.» I suoi occhi corsero a Saphira. «Ora devo andare. C’è qualcosa che devo riferire a mio padre da parte tua?»
«No, tranne il mio desiderio di vedere Arya. E ringrazialo di tutto cuore per l’ospitalità che ci ha mostrato.»
«Lo farò senz’altro. Addio. Cavaliere Eragon. Spero di rivederti presto.» Si congedò con un inchino e uscì dalla rocca a testa alta.
Se davvero è salita fin quassù solo per incontrarmi... montacarichi o non montacarichi... questo incontro nascondeva di più che qualche chiacchiera, osservò Eragon.
Già, disse Saphira, e ritrasse la testa nella caverna. Eragon si arrampicò da lei e rimase sorpreso nel vedere Solembum acciambellato nell’incavo del collo della dragonessa. Il gatto marinaro faceva le fusa, agitando come un piumino la coda dalla punta nera. I due lo guardarono con insolenza, come per dire: “E allora?”
Eragon scosse il capo e scoppiò a ridere. Saphira, era Solembum che volevi vedere?
Entrambi ammiccarono e risposero: Sì.
Tanto per sapere, disse lui, ancora in preda all’ilarità. Aveva la sensazione che i due sarebbero diventati amici: le loro personalità erano molto simili, ed erano entrambe creature magiche. Sospirò, liberandosi di parte della tensione della giornata mentre slacciava Zar’roc. Solembum, sai dov’è Angela? Non sono riuscito a trovarla, e ho bisogno di un consiglio.
Solembum si stiracchiò affondando le zampe nel dorso squamoso di Saphira. È da qualche parte a Tronfheim.
Quanto torna?
Presto.
Quanto presto? domandò impaziente. Devo parlarle oggi stesso.
Non così presto.
Il gatto marinaro si rifiutò di dare altre spiegazioni, malgrado le insistenze di Eragon. Il giovane si arrese e si accovacciò con le spalle appoggiate al fianco di Saphira. Le fusa di Solembum erano un sottofondo regolare, che gli pulsava nella testa.
Domani devo, andare da Murtagh, pensò, rigirandosi l’anello di Brom intorno al dito.