34 Gli adoratori dell’Helgrind

Al risveglio, Eragon si ritrovò solo nella stanza. Scarabocchiato col carboncino sulla parete c’era scritto:

Eragon,

vado via per qualche ora. I soldi per il cibo sono sotto il materasso. Fatti un giro in città, divertiti, ma non farti notare!

Brom

P.S. Stai alla larga dal palazzo, e non andare da nessuna parte senza l’arco!

Tienilo sempre pronto.

Eragon cancellò il messaggio e recuperò le monete sotto il letto. Si mise l’arco a tracolla, pensando:

Quanto vorrei non dover andare sempre in giro armato.

Uscì dal Globo d’Oro e vagò per le strade, fermandosi a osservare qualunque cosa attirasse la sua attenzione. C’erano molte botteghe interessanti, ma nessuna quanto l’erboristeria di Angela a Teirm. A volte lanciava occhiate oblique alle case scure e inquietanti, desiderando di trovarsi fuori dalle mura della città. Quando gli venne fame, si comprò una fetta di formaggio e una pagnotta e mangiò seduto sul bordo di un marciapiede.

Più tardi, in un quartiere lontano dal cuore di Dras-Leona, udì un banditore d’aste che elencava una lista di prezzi. Incuriosito, si incamminò verso la voce e sbucò in uno spiazzo fra due edifici. C’erano dieci uomini in piedi su un palco alto tre piedi. Radunata davanti a loro c’era una folla di gente con ricchi vestiti, colorata e turbolenta. Chissà cosa vendono, si chiese Eragon.

Il banditore terminò il suo elenco e con un gesto chiamò un giovane a farsi avanti. L’uomo arrancò goffamente, i polsi e le caviglie trattenuti da pesanti catene. «Ed ecco il nostro primo articolo» proclamò il banditore. «Un giovane maschio sano proveniente dal Deserto di Hadarac, catturato il mese scorso, in eccellenti condizioni. Guardate queste braccia e queste gambe: è forte come un bue! Sarebbe perfetto come scudiero. Ma se non vi fidate, usatelo come uomo di fatica. A parer mio, signore e signori, sarebbe uno spreco, È sveglio, se riuscite a insegnargli una lingua civile!»

La folla scoppiò a ridere, ed Eragon strinse i denti, infuriato. Le sue labbra cominciarono a formulare una parola che avrebbe liberato lo schiavo, e il suo braccio, da poco privo della steccatura, si levò. Il marchio sul palmo prese a rifulgere. Stava per usare la magia, quando lo folgorò un pensiero. Non ce la farà mai! Lo schiavo sarebbe stato catturato ancor prima di raggiungere le mura della città. Eragon non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, se avesse tentato di aiutarlo. Abbassò il braccio e imprecò sottovoce. Pensa, prima di agire! È così che ti sei ficcato nei guai con gli Urgali.

Guardò impotente lo schiavo che veniva venduto a un uomo alto, col naso aquilino. Poi toccò a una bambina minuscola: non poteva avere più di sei anni e venne strappata dalle braccia della madre in lacrime. Mentre il banditore cominciava l’asta, Eragon si costrinse ad andar via, teso e infuriato. Percorse diversi isolati prima di non sentire più quel pianto disperato. Quanto vorrei che in questo momento un ladro cercasse di strapparmi la borsa, pensò amaramente, con la voglia di sfogare la sua rabbia. Frustrato, scagliò un pugno contro un muro vicino, scorticandosi le nocche.

Questo è il genere di cose che potrei impedire se combattessi contro l’Impero, si disse. Con Saphira al mio fianco, potrei liberare quegli schiavi Mi sono stati concessi poteri speciali; sarei un egoista se non li usassi a beneficio degli altri. Se non lo faccio, non merito di essere un Cavaliere.

Immerso nei suoi pensieri, si accorse di essere davanti alla cattedrale soltanto quando la vide di fronte a sé. Le sue guglie contorte erano coperte di statue e volute; dalle grondaie si affacciavano ghignanti gargoyle. Bestie fantastiche affollavano le mura, mentre re ed eroi marciavano lungo i bordi più bassi, paralizzati nel gelo del marmo. Archivolti e vetrate istoriate costeggiavano i fianchi della cattedrale, insieme a pilastri di varie misure. Una torretta solitaria sormontava l’edificio come l’albero maestro di un vascello.

Incassato nell’ombra della facciata c’era un portale di ferro intarsiato di scritte d’argento che Eragon riconobbe come l’antica lingua. Cercò di decifrarle come poteva: O tu che varchi questa soglia, rammenta la tua caducità e dimentica l’attaccamento alle cose che ami.

L’intera costruzione gli fece correre un brivido lungo la schiena. C’era qualcosa di minaccioso in essa, come se fosse un predatore acquattato nella città, in attesa della prossima vittima. Un’ampia scalinata portava all’ingresso. Eragon si avviò con passo solenne lungo i gradini, e si fermò davanti al portale. Chissà se posso entrare. Con un lieve senso di colpa, spinse il battente. La porta si aprì docile, scivolando su cardini ben oliati. Fece un passo ed entrò.

Il silenzio di una tomba dimenticata riempiva la cattedrale deserta. L’aria era fredda e asciutta. Le pareti spoglie si innalzavano fino a un soffitto a volta che fece sentire Eragon non più grande di una formica. Le vetrate che illustravano scene di rabbia, odio e rimorso squarciavano le pareti, mentre raggi di luce spettrale bagnavano i banchi di granito, lasciando il resto in ombra. Le mani di Eragon avevano un colorito azzurregnolo.

Fra le vetrate c’erano alte statue dagli occhi fissi e pallidi. Ricambiò il loro sguardo severo, poi si avviò lentamente per la navata centrale, temendo di disturbare la quiete. Il rumore ovattato dei suoi stivali di cuoio sul pavimento di pietra levigata sembrava una serie di esplosioni.

L’altare era una grande lastra di pietra priva di qualsiasi ornamento. Un solitario raggio di luce pioveva su di esso, illuminando il sottile turbinio dorato della polvere sospesa. Dietro l’altare, le canne di un organo a vento bucavano il soffitto e si esponevano agli elementi. L’aveva sentito raccontare: lo strumento suonava la sua musica solo quando una tempesta si abbatteva su Dras-

Leona.

Per rispetto, Eragon s’inginocchiò davanti all’altare e chinò il capo. Non pregò alcuna divinità, ma rese omaggio alla cattedrale. Le sue pietre trasudavano la sofferenza di cui erano state testimoni, in netto contrasto con le sgradevoli, pompose cerimonie che tra esse avvenivano. Era un luogo ostile, gelido, nudo. In quell’atmosfera fredda, però, si coglieva un barlume di eternità e forse dei poteri in essa racchiusi.

Eragon chinò di nuovo il capo e si alzò. Calmo e solenne, mormorò a se stesso parole nell’antica lingua; poi si voltò per uscire. S’impietrì. Il suo cuore fece un balzo nel petto e prese a martellare come un tamburo.

Sulla soglia della cattedrale c’erano i Ra’zac, e lo, guardavano intenti. Avevano le spade sguainate, le lame mortifere accese di una luce cremisi. Il Ra’zac più piccolo emise un sibilo roco, ma nessuno dei due si mosse.

Eragon sentì montare la collera. Aveva inseguito i Ra’zac per così tante settimane che il dolore per il loro gesto scellerato si era sopito dentro di lui. Ma la vendetta era a portata di mano. La sua ira esplose come un vulcano, alimentata dalla furia repressa per la scena degli schiavi. Dalle sue labbra uscì un ruggito che echeggiò come un rombo di tuono mentre impugnava l’arco. Con destrezza, incoccò una freccia e la scagliò, seguita subito da altre due.

I Ra’zac schivarono i dardi con rapidità disumana, poi corsero sibilando lungo il passaggio fra i banchi, i mantelli che fluttuavano come ali di corvo. Eragon fece per prendere un’altra freccia quando la prudenza gli fermò la mano. Se sapevano dove trovarmi, allora anche Brom è in pericolo! Devo avvertirlo! In quel momento, con suo sommo orrore, Eragon vide entrare nella cattedrale un folto drappello di soldati, mentre altri si affollavano all’esterno, oltre il portale. Guardò con odio i Ra’zac che correvano verso di lui, poi si volse in cerca di una via di fuga. Notò un vestibolo alla sinistra dell’altare. Sfrecciò sotto l’arco e imboccò un corridoio che portava nella sagrestia. Il rumore dei passi dei Ra’zac alle sue spalle gli fece accelerare il passo, finché non si ritrovò davanti a una porta chiusa.

La prese a pugni e calci nel tentativo di aprirla, ma il legno era troppo robusto. I Ra’zac lo avevano quasi raggiunto. In preda al panico, inspirò a fondo e urlò: «Jierda!» Con un lampo, la porta si infranse e cadde di schianto. Eragon la scavalcò con un balzo e riprese a correre.

Attraversò una serie di stanze, spaventando un gruppo di sacerdoti che gli gridarono invettive. La campana della sagrestia suonò l’allarme. Eragon piombò nella cucina, dove c’erano due monaci, e infine varcò una porticina secondaria che dava su di un giardino. Con sgomento si accorse che tutt’intorno correva un alto muro di mattoni senza alcun appiglio, e che non c’erano altre uscite. Eragon si voltò per riprendere la fuga, ma udì un sibilo sordo quando i Ra’zac spalancarono la porta con una spallata. Disperato, corse verso il muro. La magia non gli sarebbe stata di alcun aiuto: se l’avesse usata per aprire una breccia nel muro, poi sarebbe stato troppo stanco per fuggire. Saltò. Perfino con le braccia tese al massimo, soltanto le sue dita riuscirono ad arrivare al bordo del muro, mentre il resto del corpo urtò contro i duri mattoni, mozzandogli il fiato. Rimase aggrappato e ansante, sforzandosi di non cedere. Sentì i Ra’zac che setacciavano il giardino, spostandosi veloci e nervosi come segugi che fiutano la preda.

Eragon li sentì avvicinarsi e si issò sulle braccia. Le spalle gli urlarono di dolore, ma riuscì ad arrivare in cima, e si lasciò cadere dall’altra parte. Inciampò, riprese l’equilibrio e si precipitò in un vicolo nel momento in cui i Ra’zac scavalcavano il muro con un balzo. Concentrato, Eragon infuse maggiore energia nella corsa.

Corse per oltre un miglio prima di avere il coraggio di fermarsi a riprendere fiato. Non del tutto certo di aver seminato gli inseguitori, trovò un mercato affollato e si nascose sotto un carro. Come hanno fatto a trovarmi? si chiese, ansimando. Non potevano sapere dov’ero... a meno che non sia successo qualcosa a Brom! Raggiunse Saphira con la mente e le disse: I Ra’zac mi hanno trovato.

Siamo tutti in pericolo! Cerca Brom e assicurati che stia bene. Mettilo in guardia e digli che ci incontreremo alla locanda. E sta’ pronta a volare lì il più in fretta possibile. Forse ci servirà il tuo aiuto per fuggire.

La dragonessa tacque per qualche istante, poi disse: Brom verrà alla locanda. Non ti fermare: sei in grave pericolo!

«Come se non lo sapessi» borbottò Eragon, rotolando fuori da sotto il carro. Tornò di corsa al Globo d’Oro, fece in fretta i bagagli, sellò i cavalli e li condusse sulla strada.

Brom arrivò poco dopo, scuro in volto, il bastone in pugno. Salì in groppa a Fiammabianca e disse:

«Che cosa è successo?»

«Ero nella cattedrale quando i Ra’zac sono sbucati dal nulla» rispose Eragon, montando su Cadoc.

«Sono tornato più in fretta che potevo, ma potrebbero arrivare qui da un momento all’altro. Saphira ci raggiungerà non appena saremo fuori da Dras-Leona.»

«Dobbiamo uscire dalle mura della città prima che chiudano i cancelli... se non l’hanno già fatto» disse Brom. «Altrimenti sarà, impossibile fuggire. Qualunque cosa accada, stammi incollato.»

Eragon si irrigidì quando vide marciare in fondo alla strada un plotone in uniforme.

Brom lanciò un’imprecazione e sferzò Fiammabianca con le redini, spronandolo al galoppo. Eragon si chinò sul dorso di Cadoc e lo seguì a ruota. Durante la corsa selvaggia e disperata, più di una volta furono sul punto di scontrarsi, mentre piombavano fra la gente che affollava le strade e scartavano all’improvviso per evitarla, diretti verso le mura della città. Quando alla fine giunsero in vista dei cancelli, Eragon tirò le redini di Cadoc, sgomento. I cancelli erano già chiusi per metà, e una doppia fila di picchieri era schierata a sbarrar loro la strada.

«Ci faranno a pezzi!» gridò.

«Dobbiamo tentare» disse Brom in tono severo. «Io mi occuperò dei soldati, ma tu devi tenere aperti i cancelli.» Eragon annuì, strinse i denti e affondò i talloni nei fianchi di Cadoc. Galopparono verso i soldati, che abbassarono le picche contro i cavalli, puntellandole sul terreno. I cavalli nitrirono di paura, ma Brom ed Eragon riuscirono a non perdere il controllo. Eragon sentì i soldati gridare, ma concentrò la sua attenzione sui cancelli che si chiudevano a poco a poco. Mentre si avvicinava alle picche acuminate. Brom alzò una mano e parlò. Le parole colpirono con precisione: i soldati caddero ai lati dei cancelli come se avessero tagliato loro le gambe. Il varco fra i battenti si rimpiccioliva ogni istante di più. Sperando che lo sforzo non fosse troppo per lui, Eragon evocò il proprio potere e gridò: «Du grind huildr!»

I cancelli furono scossi da una sorda vibrazione metallica e si fermarono. La folla e le guardie ammutolirono, guardando la scena sbigottite. In un gran fragore di zoccoli. Brom ed Eragon galopparono oltre i cancelli. Non appena furono fuori dalle mura di Dras-Leona, Eragon lasciò andare i cancelli, che si chiusero con un fragoroso rimbombo,

Il ragazzo. vacillò per la stanchezza improvvisa, ma riuscì a reggersi in sella. Brom gli scoccò uno sguardo preoccupato. La loro fuga proseguì attraverso la campagna di Dras-Leona, mentre dall’interno della città si udivano squillare le trombe di allarme. Saphira li aspettava poco lontano, nascosta in un boschetto. I suoi occhi lampeggia-vano, la coda guizzava da un lato e dall’altro. «Va’, monta su di lei» disse Brom. «E questa volta resta in aria, qualunque cosa mi accada. Andrò a sud. Vola vicino, tanto non ha più importanza se qualcuno scorge Saphira.» Eragon si affrettò a salire in groppa alla dragonessa. Mentre il terre-no si allontanava sotto i suoi piedi, Eragon guardò Bron galoppare lungo la strada.

Stai bene? gli chiese la dragonessa.

Si, rispose Eragon. Ma solo perché abbiamo avuto la fortuna dalla nostra,

Saphira soffiò uno sbuffo di fumo dalle narici. Tutto il tempo che abbiamo impiegato per cercare i Ra’zac è stato inutile.

Lo so, disse lui, abbandonando la testa sul suo collo squamoso. Se i Ra’zac fossero stati da soli, sarei rimasto a combattere. Ma con tutti quei soldati al loro fianco, era impossibile!

Ma lo sai che adesso si farà un gran parlare di noi? Non è stata di certo una fuga sommessa. Ora sfuggire alle grinfie dell’Impero sarà più difficile che mai Eragon notò nella voce dì Saphira una strana sfumatura nervosa a cui non era abituato.

Lo so.

Volavano bassi e veloci sulla strada. Il Lago di Leona rimpicciolì alle loro spalle; il paesaggio divenne, arido e roccioso, punteggiato da arbusti spinosi e alti cactus. Il cielo si andava riempiendo di nubi. In lontananza balenavano i lampi. Quando il vento prese a ululare, Saphira planò accanto a Brom. Il vecchio fermò i cavalli e chiese; «Che cosa succede?»

«Il vento è troppo forte.»

«Non mi pare» obiettò Brom.

«Lassù sì» ribatte Eragon, indicando il cielo.

Brom imprecò a denti stretti e gli passò le redini di Cadoc. Ripresero a trottare, con Saphira che li seguiva a piedi, anche se sul terreno aveva difficoltà a tenere il passo con i cavalli.

La tempesta crebbe d’intensità, sollevando mulinelli di sabbia che vorticavano come dervisci. I due si avvolsero sciarpe attorno, alla testa per proteggersi gli occhi dalla polvere. Il mantello di Brom volava nel vento, la sua barba schioccava come una frusta animata di vita propria. La pioggia avrebbe peggiorato la situazione, ma Eragon sperò che cadesse in fretta, in modo da cancellare le loro tracce.

Ben presto il buio li costrinse a fermarsi. Con le sole stelle come guida, lasciarono la strada e si accamparono fra due grossi massi. Era troppo pericoloso accendere un falò, così consumarono una cena fredda mentre Saphira li riparava dal vento.

Dopo quel pasto frugale, Eragon chiese all’improvviso: «Come hanno fatto a trovarci?»

Brom fece per accendersi la pipa, ma ci ripensò e la mise in tasca. «Uno dei servi del palazzo mi aveva avvertito che c’erano delle spie fra loro. In qualche modo Tàbor deve aver saputo di me e delle mie domande... e da lui la notizia è arrivata ai Ra’zac.»

«Non possiamo tornare a Dras-Leona, vero?» disse Eragon.

Brom scosse la testa. «No, almeno per qualche anno.»

Eragon si tenne la testa fra le mani. «Allora dobbiamo attirare i Ra’zac fuori dalla città? Se facciamo in modo che vedano Saphira, accorreranno in gran fretta.»

«Già, con una cinquantina di soldati al seguito» disse Brom. «Senti, non è il momento di discuterne adesso. Ora come ora l’importante è restare vivi. Questa notte sarà la più pericolosa, perché i Ra’zac ci daranno la caccia nel buio, ossia quando sono più forti. Dobbiamo montare di guardia a turno fino a domattina.»

«Giusto» disse Eragon, e si alzò. Esitò e socchiuse gli occhi; gli era parso di vedere un movimento, una macchia di colore nel buio fitto che li circondava. Si allontanò di qualche passo per vedere meglio.

«Cosa c’è?» domandò Brom, srotolando le coperte.

Eragon; scrutò le tenebre, poi si voltò. «Non lo so. Mi è sembrato di vedere qualcosa. Dev’essere stato un uccello.» Un dolore lancinante lo trafisse alla nuca, mentre Saphira ruggiva. Poi cadde a terra privo di sensi.

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