XVIII

Arrivai a Istanbul in un buio pomeriggio d’estate e presi una navetta espresso per attraversare il Bosforo e recarmi al quartier generale del Servizio sulla costa asiatica.

La città non era molto cambiata, dopo la mia ultima visita di un anno prima. Non era una sorpresa. Istanbul non è cambiata molto dopo i tempi di Kemal Ataturk, centocinquant’anni fa. Gli stessi palazzoni grigi, lo stesso groviglio arcaico di strade senza nome, lo stesso strato di polvere e di sudiciume. E le stesse moschee celestiali che si librano sopra quella desolazione.

Io ammiro immensamente le moschee. Dimostrano che i turchi qualcosa sapevano fare. Ma per me Istanbul è un brutto scherzo che qualcuno ha dipinto sopra il troncone dilaniato della mia diletta Costantinopoli. I pezzetti della città bizantina che ancora rimangono avevano per me maggior fascino della moschea del sultano Ahmed, della Suleimaniye e della moschea di Beyazit messe insieme.

Il pensiero che presto avrei visto Costantinopoli come una città viva, senza tutte le escrescenze turche, quasi mi fece bagnare i pantaloni per la gioia.

Il Servizio temporale aveva messo bottega in un palazzo tozzo e pauroso del tardo ventesimo secolo, sul Bosforo, praticamente di fronte alla fortezza turca di Rumeli Hisari da cui il conquistatore Maometto partì nel 1453 per strangolare Bisanzio. Mi aspettavano: però dovetti trascorrere quindici minuti in un’anticamera, circondato da turisti indignati che protestavano per non so quale errore di programma. Un uomo, paonazzo in volto, continuava a gridare: — Dov’è il terminale del computer? Voglio che venga messo a verbale dal computer! — E una segretaria esausta, dall’aria angelica, continuava a ripetergli stancamente che tutto quello che diceva veniva registrato a verbale, fino all’ultimo barrito. Due baldanzosi giganti in divisa della Pattuglia temporale attraversarono con calma la calca, con la faccia torva e la mente rivolta senza dubbio a una missione da compiere. Quasi mi pareva di sentirli pensare «Ahà! Ahà!». Una donna magra, dal volto appuntito, si precipitò loro incontro agitando un fascio di moduli verso le rispettive mandibole quadrate, e strillò: — Sette mesi fa ho confermato queste prenotazioni! È stato subito dopo Natale! E adesso mi dicono… — Gli agenti della Pattuglia temporale non si fermarono. Un robodistributore automatico entrò in sala d’aspetto e cominciò a vendere biglietti della lotteria. Poi arrivò un turco sparuto e con la barba lunga, dall’abito nero gualcito, che vendeva pasticcini al miele su un vassoio bisunto.

Ammirai la qualità di quella confusione. Dimostrava un autentico genio.


Tuttavia non mi dispiacque di essere tratto in salvo. Un tipo di levantino che avrebbe potuto essere il cugino del mio caro istruttore Najeeb Dajani comparve all’improvviso, si presentò come Spiros Protopopolos, e si affrettò a farmi passare attraverso una porta a diaframma che non avevo notato. Dovevi entrare dall’ingresso laterale — mi disse. — Chiedo scusa per il ritardo. Non ci eravamo accorti che fossi qui.

Era sulla trentina, grassottello, lucido, con gli occhiali da sole e una quantità di denti candidi. Mentre salivamo verso il circolo Corrieri, lui disse: — Non hai mai lavorato prima d’ora come Corriere, sì?

— Sì — risposi. Mai. È la prima volta.

— Ti piacerà! Soprattutto la rotta di Bisanzio. Bisanzio è così… come posso esprimermi? — Giunse le mani grassocce in un gesto estatico. — Sicuramente devi percepirlo un po’ anche tu. Ma solo un greco come me può reagire pienamente.

Bisanzio! Ah, Bisanzio!

— Anch’io sono greco — dissi.

Protopopolos arrestò la nostra salita nel pozzo ascensionale e si rialzò gli occhiali sulla fronte. — Non sei Judson Daniel Elliott III?

— Sì.

— E sarebbe greco?

— Il cognome di mia madre, da ragazza, era Passilidis. Era nata ad Atene. Mio nonno materno era sindaco di Sparta. Per parte di madre discendeva dalla famiglia Markezinis.

— Tu sei mio fratello! — esclamò Spiros Protopopolos.

Venni a sapere che sei degli altri nove Corrieri temporali assegnati alla rotta di Bisanzio erano greci per nazionalità o discendenza; c’erano due tedeschi, Herschel e Melamed, mentre il nono era uno spagnolo snello, dai capelli scuri, che si chiamava Capistrano e che in seguito, debitamente sbronzo, mi confidò che la sua bisnonna era turca. Forse l’aveva inventato perché lo disprezzassi: Capistrano aveva una netta tendenza al masochismo.

Cinque dei miei colleghi erano in quel momento su per la linea, e quattro erano lì, nell’Istanbul del tempo attuale, grazie all’errore di programmazione che stava causando tutto quello scompiglio in anticamera. Protopopolos fece le presentazioni:

— Melamed, Capistrano, Pappas, questo è Elliott. — Melamed era biondo e si nascondeva dietro una fitta barba color sabbia; Pappas aveva guance incavate, occhi mesti e baffi penzolanti. Erano entrambi sulla quarantina. Capistrano sembrava un po’ più giovane.

Un quadro illuminato seguiva i movimenti degli altri membri della squadra: Herschel, Kolettis, Plastiras, Metaxas e Gompers. — Gompers? — feci io.

Protopopolos rispose: — Sua nonna era di pura razza ellenica. — I cinque erano sparsi lungo dieci secoli, secondo il quadro, con Kolettis nel 1651 A.P. e Metaxas nel 606 A.P., cioè rispettivamente 408 e 1453 d.C, e gli altri in mezzo. Mentre fissavo il quadro, Kolettis si spostò di oltre un secolo giù per la linea. — Sono andati a vedere i tumulti — disse sottovoce Melamed, e Capistrano annuì sospirando.

Pappas mi preparò un caffè forte. Capistrano sturò una bottiglia di brandy turco, che trovai un po’ difficile da ingerire. Lui m’incoraggiò dicendo: — Bevi, bevi, è il migliore che gusterai negli ultimi quindici secoli! — Ricordai che Sam mi aveva consigliato d’imparare a bere, e ingollai a forza quella roba: ma sognavo uno spinello, un aleggiatore, un’esalazione, qualcosa di decente.

Mentre prendevo un po’ di confidenza con i miei nuovi compagni, entrò un uomo della Pattuglia temporale. Non usò l’analizzatore per chiedere permesso, e neppure bussò: si limitò a irrompere dentro. — Proprio non riesci mai a essere educato, eh? — ringhiò Pappas.

— Alla vostra — disse l’agente della Pattuglia temporale. Si lasciò cadere su un’amaca e si sbottonò la camicia della divisa. Era un tipo grassoccio, dall’aspetto ariano e dal petto villoso; una massa di fili metallici dorati e arricciolati gli saliva verso le clavicole. — È nuovo? — domandò, indicandomi con un cenno del capo.

— Jud Elliott feci Io. Corriere.

— Dave Van Dam — disse lui. — Della Pattuglia. — Avvolse la sua enorme mano intorno alla mia. — Fa’ in modo che non ti becchi a fottere su per la linea. Niente di personale, ma sono un duro. È molto facile, odiarci: noi siamo incorruttibili. Prova e vedrai.

— Questo è il circolo dei Corrieri — disse Capistrano, con voce tesa.

— Non c’è bisogno che me lo dica tu — fece Van Dam. — Credetelo o no, so leggere.

— E allora adesso sei un Corriere?

— Vi dispiace se mi rilasso un po’ insieme all’opposizione? — L’agente sogghignò, si grattò il petto e si portò alle labbra la bottiglia di brandy. Bevve copiosamente e ruttò rumorosamente. — Cristo, che giornataccia massacrante! Sapete dove sono stato, oggi?

Nessuno aveva l’aria di curarsene.

Van Dam continuò ugualmente. — Ho passato l’intera giornata nel 1962!

Novecento porco mondo sessantadue! A perquisire tutti i piani dello stramaledetto Hilton di Istanbul in cerca di due presunti cronocriminali accusati di traffico di manufatti. Avevamo sentito che portavano monete d’oro e vetrerie romane dal 1400 A.P. e le vendevano ai turisti americani ospiti dell’Hilton, e poi investivano in Borsa i guadagni e nascondevano il ricavato in una banca svizzera per prelevarlo nel tempo attuale. Cristo! Sapete, si possono fare i miliardi in questo modo! Basta comprare in un anno in cui la Borsa è in ribasso e lasciar lì le azioni per un secolo: e alla fine si diventa padroni del mondo. Be’, forse era vero: ma non abbiamo trovato niente in tutto lo stramaledetto Hilton, solo una quantità di libera iniziativa legittima imperniata sul tempo di allora. Al diavolo! — Tracannò un altro sorso dalla bottiglia di brandy. — Che se lo facciano loro, un altro controllo. Che se li trovino da soli, i loro stramaledetti cronocriminali.

— Questo è il circolo dei Corrieri — disse il nuovo Capistrano.

L’agente della Pattuglia non gli badò. Quando alla fine se ne andò, cinque minuti dopo, io domandai: — Sono tutti così?

Protopopolos rispose: — Questo era uno dei raffinati. Gli altri sono quasi tutti peggio.

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