VII

Sam mi regolò i quadranti. Io mi tirai su i pantaloni. Sam si posò leggermente la mano sul lato sinistro dell’addome, e svanì. Io descrissi un arco dal fianco verso l’ombelico, con due polpastrelli. Non svanii. Svanì Samuel Hershkowitz.

Andò dove va la fiammella di una candela quando viene spenta, e nello stesso istante Sam ricomparve accanto a me: ci guardammo nell’ufficio vuoto di Hershkowitz. — Cos’è successo? — domandai. — Dov’è finito?

— Sono le undici e mezzo di sera — rispose Sam. — Vedi, lui non fa gli straordinari. L’abbiamo lasciato due settimane giù per la linea, quando ci siamo smistati. Stiamo volando sui venti del tempo, figliolo.

— Siamo tornati indietro di due settimane nel passato?

— Siamo andati due settimane su per la linea — mi corresse Sam. — Più mezza giornata, ed è per questo che adesso è notte. Andiamo a fare un giro in città.

Uscimmo dal palazzo del Servizio temporale e salimmo al terzo livello di New Orleans di sotto. Non mi sembrava che Sam avesse in mente una destinazione precisa. Ci fermammo in un bar e mangiammo una dozzina di ostriche a testa; bevemmo un paio di birre; strizzammo l’occhio ai turisti. Poi arrivammo a Sotto-Bourbon Street, e all’improvviso capii perché Sam aveva deciso di tornare a quella notte, e provai un brivido di paura nello scroto, e cominciai a sudare. Sam rise: — Jud, cocco, ai nuovi fa sempre effetto arrivare a questo punto. È qui che molti si fanno scartare.

— Sto per incontrare me stesso! — esclamai.

— Stai per vedere te stesso — mi corresse Sam. — Farai bene a stare attento a non incontrare te stesso, se no per te sarà finita. La Pattuglia temporale ti metterà nei guai, se combini uno scherzo del genere.

— E se il mio altro io mi vedesse?

— Allora sarebbe fatta. È un collaudo del tuo sistema nervoso, amico, e quindi fatti coraggio. Ecco! Riconosci quel tipo dall’aria scema che sta arrivando?

— È Judson Daniel Elliott III.

— Già, amico! Hai mai visto niente di più stupido in vita tua? Indietro nell’ombra, amico. Nell’ombra. Quel bianco lì non è furbo, ma non è cieco.

Ci rannicchiammo in una gora d’oscurità e Io rimasi a guardare, nauseato, mentre Judson Daniel Elliott III, appena sbarcato dalla navetta di Nuovissima York, avanzava bighellonando per la strada, verso il fiutatolo all’angolo, con la valigia in mano. Osservai la leggera fiacchezza del portamento e il modo sciatto di buttare in fuori i piedi camminando. Gli orecchi mi sembravano sorprendentemente grandi, e la spalla destra era un po’ più bassa della sinistra. Aveva l’aria goffa; aveva l’aspetto del gonzo. Ci passò davanti e si fermò di fronte al fiutatolo, guardando con tanto d’occhi le due ragazze nude nella vasca di cognac. Tirò fuori la punta della lingua e si umettò il labbro superiore. Si dondolò sui piedi. Si strofinò il mento. Si stava domandando quali possibilità aveva di far allargare le gambe all’una o all’altra di quelle bellezze nude prima che finisse la notte. Avrei potuto dirgli che aveva ottime probabilità.

Entrò nel fiutatolo.

— Come ti senti? — mi domandò Sam.

— Scosso.

— Almeno sei sincero. Fa sempre un grosso effetto, la prima volta che qualcuno va su per la linea e vede se stesso. Dopo un po’ ci si fa l’abitudine. Lui come ti pare?

— Un cafone.

— Anche questo è usuale. Sii generoso, con lui. Non è colpa sua se non sa tutte le cose che sai tu. Dopotutto, è più giovane di te.

Sam rise sommessamente. Io no. Ero ancora stordito dal trauma di vedermi per la strada. Mi sentivo lo spettro di me stesso. Disorientamento preliminare, aveva detto Hershkowitz. Sì.

— Non preoccuparti — disse Sam. — Te la cavi benissimo.

Con molta disinvoltura infilò la mano nei miei pantaloni, e sentii che mi regolava il timer. Poi fece altrettanto col suo. Disse: — Smistiamoci su per la linea.

Svanì. Lo seguii, su per la linea. Dopo mezzo istante di confusione ci ritrovammo a fianco a fianco, sulla stessa strada, alla stessa ora di notte.

— Ventiquattr’ore prima del tuo arrivo a New Orleans. Adesso ci sono un Jud Elliott qui e uno a Nuovissima York, pronto a prendere la navetta per il sud. Che effetto ti fa?

— Spaventoso — dissi io. — Ma comincio ad adattarmi.

— Non è finita. Adesso andiamo a casa.

Mi portò nel suo appartamento. Non c’era nessuno, perché il Sam di quella nicchia temporale era a lavorare al fiutatolo. Andammo in bagno e Sam regolò di nuovo il mio timer, mettendolo avanti di trentun ore. — Smistati — mi disse, e andammo giù per la linea insieme, uscendo ancora nel bagno di Sam, la notte dopo. Udii un suono di risa ebbre proveniente dalla stanza accanto; udii le rauche grida ansimanti della concupiscenza. In fretta, Sam chiuse la porta del bagno e premette la serratura col palmo della mano. Compresi che io ero nella stanza accanto, a far l’amore con Betsy o Helen, e la paura ritornò.

— Aspetta qui — fece brusco Sam, — e non far entrare nessuno se non batte due colpi lunghi e uno corto. Forse tornerò subito.

Uscì. Io chiusi la porta alle sue spalle. Passarono due o tre minuti. Poi udii due colpi lunghi e uno breve, e aprii. Con un gran sogghigno, Sam disse: — Puoi sbirciare senza pericolo. Nessuno è in condizioni di notarci. Vieni.

— È necessario?

— Se vuoi entrare nel Servizio temporale, sì.

Sgusciammo dal bagno e andammo ad ammirare l’orgia. Faticavo a non tossire, mentre le esalazioni assalivano le mie narici impreparate. Nel soggiorno di Sam mi trovai di fronte a chilometri quadri di carni nude e frementi. Alla mia sinistra vedevo l’enorme corpo nero di Sam che martellava sulla bianca snellezza di Helen: tutto ciò che era visibile di lei, sotto Sam, erano il volto, le braccia (strette sull’ampia schiena di lui) e una gamba (allacciata intorno al didietro di lui). Alla mia destra vedevo il mio precedente me stesso sul pavimento, allacciato alla pettoruta Betsy. Eravamo in una posizione kamasutroide: lei sul fianco destro, io sul sinistro, lei con una gamba inarcata sopra di me, io con il corpo incurvato e imperniato a un angolo obliquo rispetto al suo. In preda a una specie di terrore gelido, vidi me stesso possederla.

Sebbene avessi visto una quantità di scene d’accoppiamento (nei film in tredì, sulle spiagge, qualche volta alle feste) era la prima volta che vedevo me stesso in quell’atto, e rimasi annientato dal lato grottesco dell’insieme, dagli ansimi idioti, dai lineamenti contratti, dagli aggobbimenti sudaticci. Betsy lanciava belati di passione; le nostre membra, dibattendosi, cambiarono posizione parecchie volte; le mie dita convulse affondavano nelle sue natiche carnose; le spinte meccaniche continuavano all’infinito. E il mio terrore diminuì via via che mi abituavo alla scena, e mi accorsi che un freddo distacco clinico ne prendeva il posto e che il sudore della paura si asciugava: alla fine me ne restai lì a braccia conserte, studiando freddamente le attività in corso sul pavimento. Sam sorrise e annuì, come per dirmi che avevo superato un esame. Regolò di nuovo il mio timer, e ci smistammo insieme.

Il soggiorno era privo di fornicatori e di esalazioni. — Adesso quando siamo? — domandai.

Sam rispose: — Siamo tornati indietro di trentun ore e trenta minuti. Fra un po’ tu e io entreremo in bagno, ma noi non resteremo qui ad aspettare. Andiamo su, in cima alla città.

Salimmo in superficie, a New Orleans vecchia, sotto il cielo stellato.

Il robot che sorveglia gli andirivieni degli eccentrici amanti delle passeggiate all’aperto prese nota del nostro transito, e noi uscimmo per le strade silenziose. Lì c’era la vera Bourbon Street; lì gli edifici fatiscenti dell’autentico quartiere francese.

Occhispie montati sulle ringhiere merlettate dei balconi ci osservavano, perché in quell’epoca abbandonata gli innocenti sono alla mercé dei depravati e ì turisti vengono protetti grazie a una sorveglianza continua dai malfattori che si aggirano per la città di superficie. Ma non restammo abbastanza a lungo da metterci in qualche guaio. Sam si guardò in giro, rifletté un po’, e si piazzò contro una casa. Mentre regolava il mio timer per un altro smistamento, Io domandai: — Cosa succede se ci materializziamo in uno spazio già occupato da qualcuno o da qualcosa?

— Non è possibile — disse Sam. — Intervengono i respingenti automatici, e noi verremmo ributtati istantaneamente al punto di partenza. Ma è uno spreco d’energia, e al Servizio temporale non piace; perciò, prima di balzare, noi cerchiamo sempre un’area sgombra. Di solito va bene mettersi contro un muro, purché si possa avere la certezza che quel muro si trova nella stessa posizione al tempo in cui si è diretti.

— E adesso dove andiamo?

— Smistati e vedrai — disse lui. E balzò. Lo seguii.

La città prese vita. Per le strade camminava gente in abiti del ventesimo secolo: uomini con la cravatta, donne con le sottane fino al ginocchio, niente carne vera e propria in mostra, neanche un capezzolo. Automobili che correvano facendo baccano ed emettendo esalazioni da darmi il voltastomaco. Clacson che suonavano.

Perforatrici pneumatiche che trapanavano l’asfalto. Rumore, tanfo, bruttezza.

Benvenuto nel 1961 — disse Sam. — John Kennedy ha appena prestato giuramento come presidente. Il primo Kennedy, capisci? Quel coso lassù è un aereo a reazione.

Quello è un semaforo: ti dice quando puoi attraversare la strada. Quelli là sono lampioni. Funzionano a elettricità. Non esistono sottolivelli. È tutta qui, l’intera città di New Orleans. Ti piace?

— È un posto interessante da visitare. Non vorrei viverci.

— Ti senti stordito? Nauseato? Disgustato?

— Un pochettino.

— È consentito. Si sente sempre un piccolo trauma temporale, alla prima occhiata al passato. Chissà perché, sembra sempre più puzzolente e caotico di quanto ci si aspetta. Certi candidati crollano nel momento in cui compiono un vero smistamento un po’ lontano, su per la linea.

— Io non sto crollando.

— Bravo.

Osservai la scena; le donne con, i seni e le natiche inguauiati in rigidi esoscheletri sotto i vestiti, gli uomini con la faccia florida e strangolata, i marmocchi che strillavano. Sii obbiettivo, mi dissi. Sei uno studioso di altri tempi, di altre culture.

Qualcuno ci additò e strillò: — Ehi! Guardate i beatnik!

— Avanti — disse Sam. — Ci hanno notati. Regolò il mio timer. Balzammo.

Stessa città. Un secolo prima. Stessi edifici, delicati ed eterni nei colori pastello.

Niente semafori né martelli pneumatici né lampioni. Invece delle automobili che sfrecciavano lungo le strade del vecchio quartiere, c’erano dei calessini.

— Non possiamo restare — disse Sam. — È il 1858. I nostri vestiti sono troppo strani, e non me la sento di passare per uno schiavo. Avanti.

Ci smistammo.

La città sparì. Eravamo in una specie di palude. A sud si levavano nebbie sottili.

Gli eleganti alberi erano ricoperti di muschio. Uno stormo d’uccelli in volo oscurava il cielo.

— E l’anno 1382 — disse il guru. — Quelli lassù sono piccioni viaggiatori. Il nonno di Colombo è ancora vergine.

Balzammo indietro, sempre più indietro. 897. 441. 97. La scena cambiò pochissimo. A un certo punto passarono due indiani nudi. Sam s’inchinò cerimoniosamente. Quelli ci rivolsero un affabile cenno del capo, si grattarono i genitali, e proseguirono. I visitatori venuti dal futuro non li impressionavano molto.

Ci smistammo. — Questo è l’anno 1 — disse Sam. Ci smistammo. — Siamo tornati indietro di altri dodici mesi e adesso siamo nell’1 avanti Cristo. C’è grande possibilità di confondersi, per via della matematica. Ma se pensi che questo è l’anno 2059 A.P. e il prossimo è il 2058 A.P., non avrai fastidi.

Mi portò fino al 5800 A.P. Osservai i lievi cambiamenti nel clima; in certi punti c’era più secco che in altri, più secco e più fresco. Poi andammo avanti, balzando a tappe tranquille, cinquecento anni per volta. Sam si scusò perché l’ambiente non cambiava: è più emozionante, mi promise, quando vai su per la linea nel Vecchio Mondo. Raggiungemmo il 2058 e ci dirigemmo verso il palazzo del Servizio temporale. Entrati nell’ufficio vuoto di Hershkowitz, ci fermammo un attimo mentre Sam effettuava un ritocco finale sui nostri timer.


— È necessario farlo meticolosamente — spiegò. — Voglio che arriviamo nell’ufficio di Hershkowitz trenta secondi dopo che ce ne siamo andati. Se c’è uno scarto anche minimo, incontreremo noi stessi in partenza, e io mi troverò nei pasticci.

— Allora perché non stare sul sicuro e regolare il quadrante in modo che ci riporti cinque minuti dopo?

— Orgoglio professionale — disse Sam.

Ci smistammo giù per la linea, da un ufficio deserto a uno in cui Hershkowitz sedeva alla scrivania, sbirciando il punto dove trenta secondi prima — per lui — ci trovavamo noi.

— Ebbene? — domandò.

Sam era raggiante. — Il ragazzo ha del fegato. Direi che dobbiamo assumerlo.

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