XLII

Tornai giù per la linea fino a Istanbul e mi presentai per prendere servizio, dopodiché guidai una comitiva di otto persone nel giro da due settimane.

Né la Morte Nera né Teodora erano servite a distruggere la mia passione per Pulcheria Dücas. Ora speravo di liberarmi da quella pericolosa ossessione riprendendo il mio lavoro.

La comitiva comprendeva le seguenti persone:

J. Frederick Gostaman di Biloxi, Mississippi, commerciante di farmaceutici e organi per trapianti, con la moglie Louise, la figlia sedicenne Palmyra e il figlio quattordicenne Bilbo.

Conrad Sauerabend di St. Louis, Missouri, agente di cambio, che viaggiava da solo.

Hester Pistil di Brooklyn, New York, una giovane insegnante.

Leopold Haggins di St. Petersburg, Florida, industriale elettrico ritiratosi dagli affari, e sua moglie Chrystal.

Insomma, la solita infornata di sfaccendati danarosi e sottoistruiti. Sauerabend (che era grasso, provvisto di pappagorgia, e torvo) prese immediatamente in antipatia Gostaman (che era grasso, provvisto di pappagorgia, e gioviale) perché Gostaman aveva fatto un commento scherzoso sul modo in cui Sauerabend sbirciava dentro la scollatura della figlia dello stesso Gostaman, durante una delle sedute d’orientamento. Almeno, io credo che Gostaman scherzasse: ma Sauerabend diventò paonazzo e furioso, e Palmyra, che sebbene avesse sedici anni era poco sviluppata e ne dimostrava tredici, corse via piangendo. Io rimediai in qualche modo, ma Sauerabend continuò a fissare in cagnesco Gostaman. La Pistil, l’insegnante, una bionda dallo sguardo assente, con un seno maiuscolo e un’espressione nel contempo tesa e languida, fece capire chiaramente fin dal primo incontro di essere quel tipo di donna che fa questi viaggi per andare a letto con i Corrieri: anche se non avessi avuto la mente piena di Pulcheria non credo che avrei approfittato dell’occasione, ma così come stavano le cose provavo ben poco desiderio di esplorare la pelvi della signorina Pistil. Il caso era diverso per il giovane Bilbo Gostaman, un figurino che portava calzoni alla zuava con l’inguine imbottito (se hanno riesumato i corpetti alla cretese, perché non i coprigenitali?) e che durante la seconda seduta di orientamento infilò la mano sotto la gonna della Pistil. Lui credeva che nessuno se ne accorgesse, ma io lo vidi; e lo vide anche Gostaman padre, che divenne raggiante di orgoglio paterno, e anche Chrystal Haggins, che ne fu così scandalizzata da andare in catalessi. La Pistil sembrava eccitata, e si muoveva un po’ per offrire a Bilbo una migliore possibilità di brancicare. Nel frattempo Leopold Haggins che aveva ottantacinque anni ed era tutto rughe, strizzava speranzosamente l’occhio a Louise Gostaman, un tipo di donna placida e matronale, che poi avrebbe trascorso quasi tutto il viaggio a respingere le tremule arditezze del vecchio mandrillo. Avrete già capito la situazione.

Partimmo per trascorrere tutti insieme due settimane felici.


Anche questa volta fui un Corriere di second’ordine. Non riuscivo a evocare la scintilla divina. Mostrai loro tutto ciò che dovevo mostrare, ma non riuscii a compiere le altre cose (le prodezze brillanti, pirotecniche, carismatiche, metaxasiane) che mi ero ripromesso di fare a ogni viaggio.

Una delle cause era il mio nervosismo per la situazione con Pulcheria. Lei danzava dentro e fuori la mia mente mille volte al giorno. Immaginavo me stesso che scendevo al 1105 o giù di lì e mi davo da fare con lei: sicuramente avrebbe ricordato di avermi visto nella bottega di spezie, e sicuramente quello che lei mi aveva rivolto allora era stato un aperto invito.

Un’altra causa era lo smorzarsi del mio senso del meraviglioso. Facevo la rotta di Bisanzio ormai da circa sei mesi, e il fascino si era logorato. Un Corriere molto dotato, un Metaxas, era capace di trarre dalla millesima incoronazione imperiale la stessa eccitazione tratta dalla terza. E di trasmetterla ai suoi turisti. Forse io non avevo le doti naturali di un buon Corriere. Cominciavo ad annoiarmi dell’ inaugurazione di Haghia Sophia e del battesimo di Teodosio II, così come il maggiordomo di una casa di piacere si stanca di assistere alle orge.

Un’altra causa ancora era la presenza di Conrad Sauerabend. Quell’individuo grasso, sudaticcio, sciatto, smorzava il mio entusiasmo ogni volta che apriva bocca.

Non era uno stupido. Ma era grossolano, volgare, rozzo. Era tutto occhiate lubriche e insistenti. Potevo star certo che in ogni occasione avrebbe fatto un commento brutale e indelicato.

All’Augusteum zufolò e disse: — Che razza di parcheggio ci si potrebbe ricavare!

Dentro Haghia Sophia batté una mano sulla schiena a un sacerdote dalla barba bianca ed esclamò: — Devo proprio dire che hai una gran bella chiesa, pretonzolo.

Durante una visita al periodo della crisi iconoclastica di Leone Isaurico, quando le più belle opere d’arte di Bisanzio vennero distrutte perché considerate idoli, interruppe uno zelante fanatico iconoclasta e gli disse: — Non fare il pirla. Non capisci che danneggi il turismo di questa città?

Per giunta molestava le ragazzine, e ne andava fiero. — Non so resistere — spiegava. — È la mia mania personale. Lo psichiatra lo chiama «complesso di Lolita». Mi piacciono sui dodici-tredici anni. Sa: abbastanza grandi da avere le mestruazioni, e magari con un po’ di pelo sopra, ma ancora immature. Prenderle prima che gli crescano le tette, ecco il mio ideale. Non sopporto tutta quella ciccia che ballonzola, addosso a una donna. Parecchio morboso, eh?

Parecchio morboso, sì. E anche parecchio esasperante, perché avevamo con noi Palmyra Gostaman: Sauerabend non smetteva mai di fissarla. Gli alloggi, in un giro nel tempo, non sempre assicurano molta intimità ai turisti; e a furia di guardare quella povera ragazzina, Sauerabend l’aveva ridotta alla disperazione. Le sbavava continuamente dietro, costringendola a vestirsi e a svestirsi sotto una coperta come se fossimo stati nel diciannovesimo o nel ventesimo secolo; e quando suo padre non guardava, le brancicava il didietro o i piccoli seni con quelle sue grasse manacce e le bisbigliava all’orecchio proposte oscene. Alla fine dovetti dirgli che se non la piantava d’importunarla l’avrei rispedito indietro. Si calmò per qualche giorno. Il padre della ragazza, tra l’altro, giudicava molto buffa la cosa.


— Forse quella ragazzina ha proprio bisogno di una buona sbattuta — mi disse. — Per mettere in movimento il sangue, eh? — Papà Gostaman approvava anche la relazione tra suo figlio Bilbo e la Pistil: ma anche questa era una seccatura, perché perdevamo un sacco di tempo ad aspettare che quei due finissero i vari accoppiamenti. Vedete: io magari stavo lì a fornire spiegazioni su ciò che avremmo visto quella mattina, e Bilbo si metteva dietro la Pistil, e all’improvviso lei assumeva un’espressione trasfigurata e io capivo che lui l’aveva rifatto ancora: le aveva alzato le sottane e zacchete! Bilbo aveva sempre l’aria soddisfatta: immagino che fosse logico, per un ragazzo di quattordici anni che aveva una relazione con una donna di dieci anni maggiore di lui. La Pistil aveva l’aria colpevole, ma i rimorsi di coscienza non le impedivano di aprire le porte a Bilbo tre o quattro volte al giorno.

E tutto questo non m’ispirava molto nella mia attività di Corriere.

Poi c’erano fastidi minori, come l’inefficiente concupiscenza del vecchio Haggins che perseguitava implacabilmente la scialba signora Gostaman. O l’insistenza con cui Sauerabend pasticciava il suo timer. — Sa — disse parecchie volte, — scommetto che sarei capace di sbloccare questo coso in modo da poterlo regolare a modo mio.

Ero ingegnere, sa, prima di diventare agente di cambio. — lo gli ripetevo di lasciar stare il timer, ma lui continuava a manometterlo a mia insaputa.

Un altro pensiero era Capistrano, che incontrai per caso nel 1097 mentre i crociati di Boemondo entravano a Costantinopoli. Comparve mentre mi stavo concentrando sulla replica della scena di Marge Hefferin. Volevo vedere fino a che punto era permanente la mia correzione del passato.

Questa volta schierai i miei turisti sul lato opposto della strada. Sì, ero lì; e c’era Marge, impaziente e ansiosa e accesa per Boemondo; e c’era il resto della comitiva.

Mentre i crociati sfilavano verso di noi, la tensione mi diede quasi il capogiro. Avrei visto me stesso salvare Marge? O avrei visto Marge lanciarsi verso Boemondo e venire abbattuta? Oppure si sarebbe presentata una terza alternativa? Là fluidità, la mutabilità del flusso del tempo: ecco ciò che mi atterriva, adesso.

Boemondo si avvicinò. Marge si slacciò la tunica, scoprendo i grossi seni lattei. Si tese, si preparò a lanciarsi attraverso la strada. E un secondo Jud Elliott si materializzò dietro di lei. Vidi l’espressione sconvolta sulla faccia di Marge quando le dita d’acciaio del mio alter ego le abbrancarono il didietro. Vidi l’altra sua mano protendersi per afferrarle il seno. Vidi lei girarsi di scatto, dibattersi, cedere; e mentre Boemondo passava oltre vidi il mio alter ego svanire lasciando soltanto altri due me stesso, uno su ciascun lato della strada.

Mi sentii invadere dal sollievo. Eppure ero anche turbato, perché adesso sapevo che la mia correzione della scena era incorporata nel flusso del tempo cosicché chiunque poteva vederla. Compreso qualche agente della Pattuglia temporale di passaggio, magari, che avrebbe potuto notare la breve presenza di un Corriere duplicato e chiedersi cosa succedeva. In qualunque momento, nel futuro milione di millenni, la Pattuglia poteva controllare quella scena… e allora, anche se fosse stato scoperto solo nell’anno 8.000.000.000.008, io sarei stato chiamato a render conto della mia correzione non autorizzata. Potevo aspettarmi di sentire una mano sulla mia spalla, una voce che pronunciava il mio nome…

Sentii una mano sulla mia spalla. Una voce pronunciò il mio nome.


Mi voltai di scatto. — Capistrano!

— Sicuro: Capistrano. Ti aspettavi qualcun altro?

— Io… Io… mi hai colto di sorpresa, ecco tutto. — Tremavo. Mi si piegavano le ginocchia.

Era stralunato e stravolto; i lucidi capelli neri erano brizzolati e opachi; era dimagrito e dimostrava vent’anni più del Capistrano che conoscevo. Sentii la discontinuità, e la paura che provavo sempre quando mi trovavo di fronte qualcuno che proveniva dal mio futuro.

— Cosa succede? — gli domandai.

— Sto andando a pezzi. A pezzi. Guarda là la mia comitiva. — M’indicò un gruppetto di viaggiatori temporali che osservavano attenti i crociati. — Non posso più stare con loro. Mi nauseano. Mi nausea tutto. Per me è la fine, Elliot, assolutamente la fine.

— Perché? Cos’è successo?

— Non posso parlare, qui. Quando ti fermi, stasera?

— Proprio qui, nel 1097. Nella locanda vicino al Corno d’Oro.

— Ci vediamo a mezzanotte — disse Capistrano. Mi strinse il braccio per un attimo. — È la fine, Elliott. È veramente la fine. Dio abbia pietà dell’anima mia!

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