XXXII

Quella notte, mentre i miei stanchi turisti dormivano, sgattaiolai fuori per svolgere qualche ricerca personale.

A stretto rigore, era contrario ai regolamenti. Un Corriere deve restare con i suoi clienti, sempre, nell’eventualità di un caso d’emergenza. I clienti, dopotutto, non sanno azionare il timer, e quindi solo il Corriere può aiutarli a sottrarsi rapidamente ai guai.

Nonostante questo balzai sei secoli giù per la linea, mentre i miei turisti dormivano, e visitai l’epoca del mio prospero antenato Niceforo Dücas.

Ci voleva parecchio chutzpah, naturalmente, considerando che quella era la mia prima missione da solo. Ma in effetti non correvo gravi rischi.

Il metodo sicuro per compiere quelle deviazioni, come mi aveva spiegato Metaxas, consiste nel regolare meticolosamente il timer, facendo in modo che l’assenza netta, per quanto riguarda i propri turisti, sia di un minuto o anche meno, lo stavo partendo dal 27 dicembre 537 alle ore 23 e 45. Da lì potevo andare su e giù per la linea e trascorrere altrove ore, giorni, settimane o mesi. Quando avessi finito di sbrigare gli affari miei, bastava che regolassi il mio timer in modo che mi riportasse al 27 dicembre 537 alle ore 23 e 46. Dal punto di vista dei miei turisti addormentati, sarei rimasto assente solo sessanta secondi.

Naturalmente non era il caso di tornare alle ore 23 e 44, vale a dire un minuto prima della mia partenza. Vi sarebbero stati due me stesso nel medesimo locale, il che produce il paradosso della duplicazione, una sottospecie del paradosso cumulativo: è questo produce una reprimenda o peggio, se la Pattuglia temporale lo viene a sapere.

No: è necessaria una coordinazione precisa.

Un altro problema sta nella difficoltà di compiere uno smistamento esatto da punto a punto. Quasi sicuramente la locanda dov’era alloggiata la mia comitiva nel 537 non sarebbe più esistita nel 1175, l’anno della mia destinazione immediata. Non potevo balzare in avanti alla cieca dallo stanzone, perché avrei potuto trovarmi materializzato in qualche luogo imbarazzante o scomodo costruito in seguito sul posto… per esempio una segreta.

L’unico sistema sicuro consisteva nell’uscire in strada e balzare da lì, sia all’andata che al ritorno. Ma questo ti tiene lontano dai tuoi turisti per più di sessanta secondi, calcolando il tempo necessario per scendere, trovare un posto sicuro e tranquillo per smistarti, e così via. E se un agente della Pattuglia temporale passa per un controllo normale e ti riconosce per strada e ti domanda perché diavolo non sei con i clienti, sei nei pasticci.

Tuttavia mi smistai giù per la linea, e mi andò bene.

Non c’ero mai stato, nel 1175. Probabilmente fu l’ultimo anno felice di Bisanzio.

A me pareva che su Costantinopoli gravasse un’atmosfera di disastro incombente.

Perfino le nubi mi sembravano minacciose. L’aria aveva odore di calamità.

Scemenze soggettive. Potersi muovere liberamente lungo la linea altera la prospettiva e colora le interpretazioni. Io sapevo ciò che attendeva quella gente, ma loro non lo sapevano. La Bisanzio del 1175 era baldanzosa e ottimista: tutti i presagi me li immaginavo io.

Sul trono c’era Manuele I Comneno, un brav’uomo verso la fine di una lunga e brillante carriera. Su di lui incombeva il disastro. Gli imperatori della dinastia Comnena avevano impiegato il secolo dodicesimo riconquistando l’Asia Minore, che i turchi avevano invaso nel secolo precedente. Sapevo che un anno più giù per la linea, nel 1176, Manuele avrebbe perso l’intero impero asiatico in un sol giorno, alla battaglia di Miriocefalo. Poi, per Bisanzio sarebbe cominciato il declino. Ma questo, Manuele non lo sapeva ancora. Non lo sapeva nessuno, lì, tranne me.

Mi diressi verso il Corno d’Oro. In quel periodo, la parte alta della città era la più importante. Il centro di gravità non era più la zona Haghia Sophia — Ippodromo — Augusteum ma il quartiere di Blachernae, all’estremità settentrionale della città, dove le mura s’incontravano. L’imperatore Alessio I aveva trasferito lì la corte, alla fine dell’undicesimo secolo, abbandonando il caotico Grande Palazzo. Ora suo nipote Manuele regnava lì, tra gli splendori, e le grandi famiglie feudali avevano eretto nuovi palazzi nei dintorni, lungo il Corno d’Oro.

Uno dei più splendidi di quegli edifici di marmo apparteneva a Niceforo Dücas, il mio multi-multi-bisnonno.

Trascorsi metà della mattinata aggirandomi intorno al palazzo e inebriandomi della sua magnificenza. Verso mezzogiorno le porte si aprirono e io vidi Niceforo uscire con il carro per la solita passeggiata: una figura maestosa, dalla lunga barba nera intrecciata e dalle vesti ornate d’oro. Sul petto portava una croce d’oro costellata di enormi gemme: le sue dita brillavano d’anelli. Una folla s’era raccolta per vedere il nobile Niceforo che usciva dal suo palazzo.

Mentre avanzava, Niceforo gettò benignamente monete alla moltitudine. Ne afferrai una al volo: un sottile e logoro bisante d’oro di Alessio I, ammaccato e limato al bordo. La famiglia dei Comneni aveva svalutato la moneta, ricorrendo a leghe di valore inferiore. Tuttavia non è cosa da poco poter gettare a una folla eterogenea monete d’oro sia pure svalutate.


Ho conservato quel bisante consunto e untuoso: lo considero l’eredità del mio multibisnonno bizantino.

Il carro di Niceforo svanì in direzione del palazzo imperiale. Il vecchio lurido che mi stava accanto sospirò, si segnò molte volte e mormorò: — Il Salvatore benedica Niceforo! Che uomo meraviglioso!

Il vecchio aveva il naso mozzato alla base. Era privo anche della mano sinistra. I buoni bizantini dell’epoca avevano stabilito la mutilazione come pena per molti reati minori. Era già un passo avanti: il codice giustinianeo, in casi simili, comminava la morte. Meglio perdere un occhio o la lingua o il naso, piuttosto che la vita.

— Ho passato vent’anni al servizio di Niceforo Dücas! — proseguì il vecchio. — E sono stati gli anni più belli della mia vita.

— Perché te ne sei andato? domandai.

L’uomo alzò il braccio monco. — Mi hanno sorpreso a rubare libri. Ero uno scriba, e desideravo moltissimo tenere alcuni dei libri che copiavo. Niceforo ne aveva tanti!

Non si sarebbe accorto della sparizione di cinque o sei! Ma mi hanno colto sul fatto, dieci anni fa, e ci ho rimesso la mano e il posto.

— E il naso?

— Quel terribile inverno di sei anni fa ho rubato un barile di pesce. Sono un pessimo ladro, mi faccio sempre sorprendere.

— E come vivi?

Il vecchio sorrise. — Della carità pubblica. E mendicando. Puoi regalare un nomisma d’argento a un povero infelice?

Esaminai le monete che avevo portato con me. Purtroppo tutte quelle d’argento erano antiche, del quinto e del sesto secolo, e da molto tempo non erano più in circolazione: se il vecchio avesse cercato di spendere una di quelle, l’avrebbero accusato di aver derubato la collezione di qualche aristocratico e probabilmente ci avrebbe rimesso anche l’altra mano. Perciò gli deposi sul palmo uno splendido bisante d’oro dell’inizio del secolo undicesimo. Lui lo fissò sbalordito. — Sono tuo, nobile signore! esclamò. — Sono completamente tuo!

— Allora vieni con me alla taverna più vicina e rispondi a qualche mia domanda gli dissi.

— Con piacere! Con piacere!

Ordinai del vino e lo interrogai sulla genealogia dei Dücas. Non me la sentivo di guardare quel volto mutilato, e quindi, mentre parlavamo, fissavo gli occhi sulla sua spalla: ma lui ci sembrava abituato. Conosceva tutte le informazioni che m’interessavano, perché una delle sue mansioni, quando era al servizio dei Dücas, era stata di ricopiare gli annali della famiglia.

Niceforo, mi disse, aveva allora quarantacinque anni, poiché era nato nel 1130. Sua moglie era Zoe Catacalon, e avevano sette figli: Simeone, Giovanni, Leone, Basilio, Elena, Teodosia e Zoe. Niceforo era il primogenito di Niceta Dücas, nato nel 1106; la moglie di Niceta era stata Irene Cerulario: si erano sposati nel 1129. Niceta e Irene avevano avuto altri cinque figli: Michele, Isacco, Giovanni, Romano e Anna. Il padre di Niceta era stato Leone Dücas, nato nel 1070; Leone aveva sposato nel 1100; Pulcheria Botaniates, e oltre a Niceta avevano altri figli: Simeone, Giovanni, Alessandro…


La recitazione continuò e continuò, riportando indietro i Dücas attraverso le generazioni di Bisanzio fino al decimo secolo, al nono, all’ottavo, e i nomi cominciarono a diventare nebulosi, con varie lacune nei documenti: il vecchio aggrottava la fronte, brancolava, si scusava per la scarsità dei dati. Un paio di volte cercai di fermarlo; ma lui non si arrestò fino a quando terminò con un Tiberio Dücas del settimo secolo, la cui esistenza, spiegò, era forse apocrifa.

— Questa, capisci, è solo la stirpe di Niceforo Dücas — disse. — La famiglia imperiale è un altro ramo, che posso enumerarti attraverso i Comneni fino all’imperatore Costantino X e ai suoi antenati, i quali…

Quei Dücas non m’interessavano, sebbene fossero imparentati alla lontana con me.

Se avessi voluto conoscere l’albero genealogico dei Dücas imperiali avrei potuto trovarlo nell’opera di Gibbon. A me interessava esclusivamente il mio ramo più umile, il ramo collaterale della dinastia imperiale. Grazie a quell’orrido scriba reietto potei apprendere la storia di quei Dücas attraverso tre secoli, fino a Niceforo. E conoscevo già il resto della discendenza: dal figlio di Niceforo, Simeone, che si era trasferito in Albania, fino al suo multipronipote, Manuele Dücas di Argirocastro, la cui figlia maggiore aveva sposato Nicola Markezinis, e poi giù giù, attraverso la famiglia, fino a quando una Markezinis aveva sposato un Passilidis e aveva prodotto il mio stimabile nonno Konstantinos, la cui figlia Diana aveva sposato Judson Elliott II e aveva messo al mondo il sottoscritto.

— Per il tuo disturbo — dissi, e diedi al lurido scriba un altro pezzo d’oro; poi fuggii dalla taverna mentre quello balbettava ancora frasi di gratitudine.

Sapevo che Metaxas sarebbe stato fiero di me. Forse anche un po’ geloso… perché in pochissimo tempo avevo messo insieme un albero genealogico più lungo del suo.

Il suo risaliva fino al decimo secolo; il mio (con qualche incertezza) fino al settimo.

Naturalmente lui aveva un elenco annotato di centinaia di antenati e io conoscevo i dettagli solo di poche decine, ma lui aveva cominciato molti anni prima di me.

Regolai accuratamente il mio timer e mi smistai di nuovo al 27 dicembre 537. La strada era buia e silenziosa. Mi affrettai a rientrare nella locanda. Erano passati meno di tre minuti dalla mia partenza, sebbene avessi trascorso otto ore giù per la linea, nel 1175. I miei turisti dormivano saporitamente. Tutto andava per il meglio.

Ero contento di me. Alla luce di una candela, schizzai i dettagli dell’albero genealogico dei Dücas su un pezzo di vecchia pergamena. Non mi ripromettevo di fare qualcosa con quella genealogia. Non cercavo antenati da uccidere, come Capistrano, o antenate da sedurre, come Metaxas. Volevo solo pavoneggiarmi un po’ per il fatto che i miei antenati erano i Dücas. Certa gente non ha antenati di nessun genere.

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