Sam era veramente nero. La sua famiglia ci si era messa d’impegno per cinque o sei generazioni, a partire dal periodo della rinascita africana. Lo scopo consisteva nel mondare le gonadi dagli odiati geni degli schiavisti, che naturalmente nel corso degli anni si erano mescolati in abbondanza nell’ascendenza di Sam. I padroni avevano avuto tutto il tempo di darsi da fare, tra i secoli XVIII e XIX. A partire dal 1960 circa, però, gli avi di Sam avevano cominciato a disfare l’opera dei diavoli bianchi, accoppiandosi solo con individui dal colorito d’ebano e dai capelli lanosi. A giudicare dai ritratti di famiglia mostratimi da Sam, il punto di partenza era stata una trisnonna color caffelatte. Però costei aveva sposato uno studente nero come l’asso di picche, arrivato in seguito a un programma di scambi culturali dallo Zambia o da un altro di quei buffi staterelli temporanei africani; e il loro primogenito si era scelto una principessa nubiana, la cui figlia aveva sposato un elegante maschione color ebano del Mississippi, il quale…
— Be’, come risultato mio nonno era di un decente color marrone — disse Sam.
Ma gli si vedeva bene addosso il marchio del bastardo. Avevamo scurito di tre sfumature il colorito di famiglia, ma non potevamo passare per puri. Poi è nato mio padre, che costituiva una regressione genetica. Nonostante tutto. Pelle chiara, naso diritto, labbra sottili… un ibrido, un mostro. La genetica aveva giocato un brutto scherzo a una famiglia di zelanti africani deportati. E così papà è andato in un istituto genetico e si è fatto eliminare i geni caucasoidi, riuscendo a concludere in quattro ore quello che i suoi antenati non avevano potuto fare in ottant’anni. Ed eccomi qui, nero e bello.
Sam era sui trentacinque anni. Io ne avevo ventiquattro. Nella primavera del ’59 dividevamo un appartamentino di due stanze a New Orleans di sotto. In realtà l’appartamento era suo, ma Sam m’invitò a dividerlo con lui quando seppe che non sapevo dove stare. A quell’epoca lavorava part-time come addetto a un fiutatolo.
Io ero sbarcato di fresco dalla navetta di Nuovissima York, dove avrei dovuto fare il terzo assistente legale del giudice Mattachine della Supremissima Corte della contea di Manhattan. L’impiego l’avevo avuto grazie a raccomandazioni politiche, naturalmente: non per meriti miei. Gli assistenti legali non devono essere intelligenti: questo turberebbe i computer. Dopo aver passato otto giorni con il giudice Mattachine avevo perso la pazienza ed ero saltato sulla prima navetta diretta a sud portando con me tutti i miei averi terreni, consistenti nello spazzolino da denti elettrico, lo schiacciacomedoni, la mia chiave di accesso all’output delle informazioni generali, il mio più recente estratto-conto della banca, due cambi d’abito, e il mio portafortuna: una moneta d’oro bizantina, un nomisma di Alessio I. Quando arrivai a New Orleans, scesi e vagai per i sottolivelli finché i piedi mi portarono al fiutatolo di Sotto-Bourbon Street, al livello 3. Confesso che ad attirarmi là dentro furono due ragazze ridacchianti che nuotavano in immersione in una vasca piena di qualcosa che sembrava (ed era) cognac. Si chiamavano Helen e Betsy, e per qualche tempo la nostra conoscenza fu piuttosto intima. Erano le attrazioni esterne del fiutatolo: nei tempi atomici si chiamavano imbonitrici. Portavano maschere a branchie e mostravano ai passanti le loro graziose nudità, promettendo frenesie orgiastiche senza concederle mai. Le guardavo mentre nuotavano in cerchio, lentamente, ognuna stringendo il seno sinistro dell’altra; e di tanto in tanto una coscia tornita si insinuava fra le cosce di Helen e di Betsy a seconda del caso, e tutt’e due mi sorridevano invitanti; così finii con l’entrare.
Mi venne incontro Sam. Era alto circa due metri, con gli zatteroni, e portava addosso un perizoma e una quantità d’olio. Il giudice Mattachine ne sarebbe andato pazzo. Sam disse: — ’Sera, bianco. Vuole comprare un sogno?
— Di che genere ne avete?
— Sado, maso, omo, lesbo, inter, esteriore, superiore, inferiore, e tutte le variazioni e deviazioni. — Indicò la lastra degli accrediti. — Scelga quello che vuole e prema il pollice lì sopra.
— Potrei provare qualche campione, prima?
Mi scrutò attentamente. — Cosa ci fa un bravo ragazzo ebreo come lei in un posto come questo?
— Strano. Stavo per farle la stessa domanda.
— Mi nascondo per sfuggire alla Gestapo — disse Sam. — Camuffato da negro.
Yishadal v’yiskadash…
— … adonai ehhainu — conclusi io. — Ma Io sono della Chiesa episcopale riveduta e corretta.
— Io sono della Prima Chiesa di Cristo vudu. Devo cantare un inno negro?
— Me lo risparmi — dissi io. — Può presentarmi alle ragazze della vasca?
— Qui non vendiamo carne, bianco: soltanto sogni.
— Io non compro carne: la prendo solo in prestito, per un po’.
— Quella con il seno tornito è Betsy. Quella col deretano è Helen. Molto spesso sono vergini, e allora il prezzo è più salato. Provi un sogno, invece. Guardi queste deliziose maschere. Sicuro di non voler fiutare?
— Sicuro, che sono sicuro.
— Dove ha preso quell’accento di Nuovissima York?
Io dissi: — Nel Vermont, durante le vacanze estive. E lei dove ha preso quella lucida pelle nera?
— Mio papà l’ha comprata in un centro genetico. Come si chiama?
— Jud Elliot. E lei?
— Sambo Sambo.
— Un po’ monotono. Le spiace se la chiamo Sam?
— Lo fanno in parecchi. Adesso abita a New Orleans di sotto?
— Sono appena sceso dalla navetta. Non ho ancora trovato un posto dove stare.
— Io smonto dal lavoro alle quattro del mattino — disse Sam. — E anche Helen e Betsy. Andiamo tutti a casa mia.