XLV

Come sempre, Metaxas fu lieto di rendersi utile.

— Ci vorrà qualche giorno — disse. — Qui le comunicazioni sono lente. I messaggeri devono andare e tornare.

— Devo attendere qui?

— Perché? — fece Metaxas. — Tu hai il timer. Fa’ un balzo in avanti di tre giorni, e forse allora sarà già tutto combinato.

Feci un balzo di tre giorni. Metaxas disse: — È già tutto combinato.

Era riuscito a farmi invitare a una serata nel palazzo dei Dücas. Sarebbero stati presenti più o meno tutti i personaggi importanti, dall’imperatore Alessio Comneno in giù. Per nascondere la mia vera identità dovevo spacciarmi per il cugino di Metaxas arrivato dalla provincia, dall’Epiro. Parla con accento zotico — mi istruì Metaxas. — Fatti sgocciolare il vino sul mento e mastica rumorosamente. Ti chiamerai… ehh… Niceta Hyrtacenus.

Scossi il capo. — Troppo eccentrico. Non sono io.

— Va bene: allora Gheorghios Hyrtacenus?

— Gheorghios Markezinis.

— Fa troppo ventesimo secolo.


— Per loro farà molto provinciale — replicai. E come Gheorghios Markezinis andai alla serata dei Dücas.

Davanti alle splendenti mura marmoree del palazzo vidi due dozzine di guardie variaghe. La presenza di quei barbari norvegesi dalla barba gialla, che costituivano il nerbo della guardia del corpo imperiale, mi disse che Alessio era già arrivato.

Entrammo. Metaxas aveva condotto con sé la sua bella e spudorata antenata Eudocia.

Nel palazzo mi si offrì una scena abbagliante. Musici. Schiavi. Tavole imbandite.

Vino. Uomini e donne magnificamente vestiti. Superbi pavimenti di mosaico; tappezzerie intessute d’oro. Il tintinnio di risa raffinate; lo scintillio di carni femminee sotto le sete semitrasparenti.

Vidi subito Pulcheria.

Pulcheria vide me.

I nostri occhi s’incontrarono, come nella bottega di spezie, e lei mi riconobbe e sorrise enigmaticamente, e di nuovo passò tra noi una corrente elettrica. In un’epoca più tarda avrebbe agitato il ventaglio verso di me. Lì, si sfilò i guanti ingemmati e se li batté leggermente sul polso sinistro. Un segno d’incoraggiamento? Portava un cerchio d’oro sulla fronte alta e liscia. Le labbra erano dipinte di rosso.

— Alla sua sinistra sta il marito — sussurrò Metaxas. — Vieni. Ti presento.

Fissai Leone Dücas, il mio bis-bis-bis-multi-bisnonno, e l’orgoglio di avere un antenato tanto illustre si colorò d’invidia per quell’uomo, che ogni notte accarezzava i seni di Pulcheria.

Sapevo, grazie ai miei studi genealogici, che aveva trentacinque anni, il doppio della moglie. Era alto, con le tempie brizzolate, occhi azzurri poco bizantini, una barbetta tagliata corta, il naso diritto e affilato, le labbra sottili e contratte: sembrava austero, remoto, indicibilmente dignitoso. Sospettavo che fosse noiosamente magnanimo. Era molto imponente, e non c’era nulla di austero nella sua tunica di taglio splendido o nei suoi gioielli: anelli e pendenti e spille.

Presiedeva la festa con serenità, come si conveniva a uno dei primi nobili del regno, capo del suo ramo della grande casata dei Dücas. Naturalmente non aveva discendenti, e forse questo spiegava la vaga ombra di disperazione che immaginavo di scorgere sul suo bel volto. Quando io e Metaxas ci avvicinammo, udii due dame di corte, alla mia sinistra, scambiarsi alcune frasi.

— … niente figli, ed è un vero peccato: tutti i fratelli di Leone ne hanno tanti. E lui è il maggiore!

— Però Pulcheria è ancora giovane. Ha l’aria di essere una buona fattrice.

— Purché cominci. Oh, ormai ha quasi diciotto anni!

Avrei voluto rassicurare Leone, dirgli che il suo seme sarebbe disceso fino al ventunesimo secolo, fargli sapere che da lì a un anno Pulcheria gli avrebbe dato un figlio, Niceta, e poi Simeone, Giovanni, Alessandro e altri, e che Niceta avrebbe avuto sei figli, tra cui il principesco Niceforo che io avevo visto sessant’anni più giù per la linea; e che il figlio di Niceforo avrebbe seguito in Albania un sovrano in esilio; e che… e che… e che…

Metaxas disse: — Mio signore, questo è il terzo figlio della sorella di mia madre, Gheorghios Markezinis, dell’Epiro, attualmente ospite nella mia villa per il raccolto.

— Sei venuto da lontano — disse Leone Dücas. — Eri mai stato, a Costantinopoli?


— Mai — risposi. — Che città meravigliosa! Le chiese! I palazzi! I bagni! Il cibo, il vino, le stoffe! E che donne, che donne bellissime!

Pulcheria splendeva. Mi rivolse di nuovo quel suo sorriso sbieco, muovendo le labbra solo sul lato opposto al marito. Capii che era mia. La sua dolce fragranza mi giunse alle narici. Cominciai a pulsare dolorosamente.

Leone mi domandò: — Conosci l’imperatore, vero?

Con un grande gesto del braccio indicò Alessio, che teneva corte in fondo alla sala.

L’avevo già visto: un uomo basso e robusto dal portamento veramente regale. Era circondato da una cerchia di nobili e dame. Appariva benigno, raffinato, disinvolto, vero erede dei Cesari, difensore della civiltà in quei tempi bui. Leone insistette per presentarmi a lui. Mi accolse con calore, esclamando che il cugino dì Metaxas gli era caro come Metaxas stesso. Parlammo per un po’, l’imperatore e io: ero molto nervoso, ma mi comportai bene. Alla fine, Leone commentò: — Giovanotto, tu parli con gli imperatori come se ne avessi conosciuti a decine.

Sorrisi. Non dissi che avevo visto diverse volte Giustiniano, che avevo assistito al battesimo di Teodosio II, di Costantino V, del non ancora nato Manuele Comneno, e di molti altri, che mi ero inginocchiato in Haghia Sophia non lontano da Costantino XI, l’ultima notte di Bisanzio, che avevo visto Leone Isaurico guidare gli iconoclasti.

Non dissi che ero stato uno dei molti tappi della famelica voragine dell’imperatrice Teodora, cinque secoli prima. Mi finsi intimidito e replicai: — Ti sono riconoscente, mio signore.

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