XIX

Mi mandarono a letto con un corso ipnopedagogico di greco bizantino; e quando mi svegliai non solo sapevo ordinare un pasto, acquistare una tunica e sedurre una vergine in dialetto bizantino, ma conoscevo alcune frasi che avrebbero fatto staccare dal muro, per la vergogna, i mosaici di Haghia Sophia. Non avevo conosciuto l’esistenza di quelle frasi neanche quand’ero studente laureato a Harvard, Yale, e Princeton. Ottima cosa, l’ipnopedagogia.

Non ero ancora pronto a uscire da solo come Corriere. Protopopolos, che quel mese era di turno come organizzatore, mi abbinò a Capistrano per la prima sortita. Se tutto filava liscio, dopo qualche settimana avrei dovuto andare da solo.

La rotta di Bisanzio, che è una delle più apprezzate tra quelle offerte dal Servizio temporale, è abbastanza standard. Ogni comitiva viene condotta ad assistere all’incoronazione di un imperatore, a una corsa di carri all’ippodromo, all’inaugurazione di Haghia Sophia, al sacco della città durante la quarta Crociata, e alla conquista da parte dei turchi. Per un giro del genere si resta su per la linea una settimana. La visita di quattordici giorni comprende tutto questo più l’arrivo della prima Crociata a Costantinopoli, i tumulti del 532, un matrimonio imperiale, e un paio di eventi di minore importanza. Il Corriere può scegliere tra le incoronazioni, gli imperatori e le corse dei carri che preferisce; l’idea fondamentale è di evitare di contribuire al paradosso cumulativo affollando un dato evento con troppi turisti. Si visitano quasi tutti i periodi principali tra Giustiniano e i turchi, anche se ci consigliano di evitare gli anni dei terremoti peggiori e ci proibiscono (pena la cancellazione a opera della Pattuglia temporale) di entrare negli anni della peste bubbonica dal 745 al 747.

L’ultima notte nel tempo attuale ero così agitato che non riuscivo a dormire. Un po’ ero teso per il timore di commettere qualche sfondone nel mio primo incarico come Corriere: è una grossa responsabilità, anche se si è in compagnia di un collega, e avevo paura di combinare qualche terribile errore. Il pensiero di dover essere salvato dalla Pattuglia temporale mi sconvolgeva. Che umiliazione!

Ma ero preoccupato soprattutto per Costantinopoli. Avrebbe corrisposto al mio sogno? O mi avrebbe deluso? Per tutta la vita avevo accarezzato un’immagine di quell’aurea e splendente città del passato: e adesso, in procinto di raggiungerla su per la linea, tremavo.

Mi alzai e mi aggirai incespicando nella stanzetta che mi avevano assegnato. Ero nervoso e teso. Ero senza droghe e non mi era permesso fumare: i Corrieri devono rinunciare gradualmente a queste cose, in anticipo, poiché ovviamente è un anacronismo illegale accendere una paglia in una strada del decimo secolo.

Capistrano mi aveva offerto il resto del suo brandy, ma non era una gran consolazione. Mi sentì sbattere contro i mobili, comunque, e venne a vedere cosa mi succedeva.

— Irrequieto? — domandò.

— Molto.


— Io lo sono sempre, prima di un balzo. Non ci si abitua mai.

Mi convinse a uscire con lui, per calmarci i nervi. Passammo sulla sponda europea e ci aggirammo a casaccio per le silenziose strade della città nuova, dal palazzo del Dolmabahce sulla spiaggia fino al vecchio Hilton, e poi giù, oltre Taksim, fino al ponte di Galata, e nell’Istanbul vera e propria. Camminammo, instancabili. Sembrava che fossimo gli unici ancora svegli in città. Passammo per il tortuoso labirinto di un mercato e uscimmo in una delle strade che portano ad Haghia Sophia, fermandoci per un po’ davanti alla vecchia chiesa maestosa. Mi impressi nel cervello tutte le caratteristiche, i minareti estranei, i contrafforti aggiunti in epoca tarda, e cercai di convincermi che la mattina dopo l’avrei vista nel suo vero aspetto, signora serena della città, non più costretta a dividere la grande piazza con l’aliena bellezza della Moschea Azzurra.

Continuammo la passeggiata, superando i resti dell’ippodromo, girando intorno al Topkapi, dirigendoci al mare e alle vecchie mura sul mare. L’alba ci trovò davanti alla fortezza di Yedikule, all’ombra del bastione bizantino in rovina. Eravamo semiaddormentati. Un ragazzo turco sui quindici anni ci abbordò educatamente e ci domandò prima in francese e poi in inglese se volevamo comprare qualcosa: monete antiche, sua sorella, hashish, denaro israeliano, gioielli d’oro, suo fratello, un tappeto.

Lo ringraziammo e dicemmo che non volevamo nulla. Imperterrito, il ragazzo chiamò sua sorella, che forse aveva quattordici anni ma ne dimostrava quattro o cinque di più. — Vergine — disse lui. — Vi piace? Bella figura, eh? Cosa siete, americani, inglesi, tedeschi? Qua, guardate! — A un aspro comando del fratello la ragazza si aprì la camicetta e mostrò due seni rotondi, sodi e attraenti. Appesa a uno spago, tra i seni, c’era una pesante moneta bizantina di bronzo, forse un follis. Mi chinai per vedere meglio. Il ragazzo, alitandomi aglio in faccia, si accorse che studiavo la moneta e non i seni, e cambiò argomento. — Vi piacciono le vecchie monete? Eh?

Noi ne abbiamo trovate molte sotto un muro, dentro una pentola. Aspettate qui, vado a prenderle, sì? — Corse via. Sua sorella si richiuse la camicetta con fare imbronciato. Capistrano e io ci allontanammo. La ragazza ci seguì, gridandoci di restare, ma si disinteressò di noi quando fummo lontani una ventina di metri. In un’ora facemmo ritorno al palazzo del Servizio temporale, con la navetta.

Dopo la colazione ci mettemmo in costume: lunga tunica serica, sandali romani, mantello leggero. Capistrano mi consegnò solennemente il timer. Ormai ero abituato a usarlo. Lo infilai, aderente alla pelle, e mi sentii invadere da un’abbagliante ondata di potere al pensiero che ero libero di trasportarmi in qualunque epoca e che non dovevo render conto a nessuno finché tenevo presente la conservazione dell’intangibilità del tempo attuale. Capistrano mi strizzò l’occhio.

— Su per la linea — disse.

— Su per la linea — dissi io.

Scendemmo dai nostri otto turisti.

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