CAPITOLO XI

La casa-albergo era in Doheny Drive, ai piedi della collina, sotto lo Strip. In realta si trattava di due edifici, collegati da un patio pieno di fiori, con una fontana nel mezzo, e una stanza costruita proprio sopra l'arco. Nel vestibolo di finto marmo c'erano le cassette delle lettere coi campanelli.

Tre su sedici non portavano nome. I nomi che lessi non significavano niente, per me. Tentai la porta d'ingresso, e scopersi che non era chiusa a chiave, ma nonostante questo l'impresa richiedeva del lavoro supplementare.

Fuori in strada c'erano due Cadillac, una Lincoln Continental e una Packard Clipper. Nessuna delle Cadillac aveva il numero giusto o la tinta giusta. Dall'altro lato della via un tale in calzoni alla cavallerizza era sdraiato in una Lancia molto bassa, e spenzolava le gambe oltre lo sportello. Fumava e guardava in su, verso le stelle pallide che hanno abbastanza buon senso da tenersi lontano da Hollywood. M'incamminai lungo la ripida collina, verso il boulevard, percorsi un isolato e mi chiusi in una cabina telefonica stradale che pareva un bagno turco. Composi il numero di un tale, che tutti chiamano Peoria Smith perche balbetta… un altro piccolo mistero che non ho mai trovato il tempo di risolvere.

– Mavis Weld – gli dissi. – Voglio il numero di telefono. Parla Marlowe.

– S-s-s-icuro – rispose. – M-m-m-avis Weld, eh? Vuoi il s-s-s-uo nn-n-umero?

– Quanto?

– F-f-f-facciamo dieci d-d-d-ollari.

– Dimentica che t'ho chiamato.

– A-a-a-spetta un momento! Ho l'ordine di non darli, i n-n-n-n-umeri di quelle pupe! Per essere un vice-trovarobe corro un bel rischio!

Aspettai, e tornai a respirare il fiato che avevo buttato fuori.

– L'indirizzo e compreso nel prezzo! – piagnucolo Peoria, dimenticandosi di balbettare.

– Cinque dollari – ribattei. – L'indirizzo ce l'ho gia. E non fare lo strozzino. Se credi di essere il solo malvivente, nel tuo ramo, a vendere i numeri segreti delle dive…

– Lascia perdere – fece lui in tono stanco, e ando a prendere il suo taccuino rosso. Un balbuziente alla rovescia, Peoria. Tartagliava solo quando non era eccitato. Poco dopo torno all'apparecchio e mi diede il numero. Un numero della centrale di Crestview, naturalmente. Se non si ha un numero di Crestview, a Hollywood si e considerati pezzenti.

Apersi la porta di vetro e acciaio cromato per far passare un po' d'aria, mentre componevo un altro numero. Dopo due squilli mi rispose una voce cantilenante, piena di sex appeal. Chiusi la porta della cabina.

– Siiii – tubo la voce.

– La signorina Weld, per cortesia.

– E chi desidera la signorina Weld, prego?

– Ho qui alcune pose che Whitey vuole farle avere in serata.

– Whitey? E chi sarebbe Whitey, amigo?

– Il ritrattista capo dello studio – replicai. – Come fate a non saperlo?

Se mi dite il numero dell'appartamento vengo subito. Sono a un paio di isolati da casa vostra.

– La signorina Weld sta facendo il bagno. – La ragazza rise. Probabilmente era un tintinnio argentino, nelle sue vicinanze. Dove mi trovavo io faceva pensare a qualcuno che mettesse via delle pignatte. – Ma portate le foto, naturalmente. Son certa che la signorina muore dalla voglia di vederle. L'appartamento e il numero quattordici.

– Ci sarete anche voi?

– Ma certo. Ma naturale. Perche me lo domandate?

Appesi il ricevitore e uscii, quasi a tentoni, nell'aria fresca. Scesi la collina. Il tizio in pantaloni alla cavallerizza era ancora adagiato nella Lancia ma una delle Cadillac se ne era andata e due Buick trasformabili si erano unite alla schiera. Premetti il campanello dell'appartamento quattordici e attraversai il patio, dove un caprifoglio cinese, color porpora, era illuminato da un riflettore. Un altro riflettore splendeva sull'ampia piscina ornamentale, piena di pingui pesci rossi e di silenziose ninfee. Accanto c'erano un paio di sedili di pietra e un'altalena da giardino. La casa non aveva un'aria particolarmente costosa, a parte il fatto che tutte le case erano costose, quell'anno. L'appartamento di Mavis Weld era al secondo piano, una delle due porte che si guardavano, al di la di un ampio vestibolo.

Il campanello squillo, gentilmente, e una ragazza alta, in pantaloni da equitazione venne ad aprirmi. Dire che trasudava sex appeal e non dir nulla. I calzoni, come i suoi capelli, erano d'un nero carbone. Portava una camicetta di seta bianca, con una sciarpa scarlatta, annodata mollemente intorno al collo. Il colore della sciarpa era aggressivo, ma non come quello delle labbra. Fumava una lunga sigaretta marrone, stretta in un paio di minuscole mollette d'oro. Le dita che le reggevano erano inanellate piu che a sufficienza. I capelli corvini erano divisi nel mezzo e la scriminatura bianca correva lungo tutta la testa e andava a perdersi dietro, sulla nuca. Due grosse trecce, nere, lucidissime pendevano ai lati dell'esile collo bruno. Le aveva legate con un nastrino rosso. Eppure era passato molto tempo dai giorni della sua infanzia.

La ragazza lancio un'occhiata penetrante alle mie mani vuote. I ritratti degli studi cinematografici, in genere, sono troppo grandi, per poterli portare in tasca. Io dissi:

– La signorina Weld, prego.

– Potete dare a me le fotografie – la sua voce era fredda, strascicata, insolente, ma gli occhi avevano tutt'altra espressione. Era una ragazza difficile, come un compito di prima elementare.

– Spiacente. Devo consegnarle alla signorina Weld in persona.

– Ve l'ho detto, sta facendo il bagno.

– Aspettero.

– Siete proprio sicuro di avere quelle foto, amigo?

– Sicurissimo. Perche?

– Il vostro nome? – la sua voce svani, all'ultima parola, come una piuma che si innalza, presa da un vortice improvviso di vento. Poi tubo, indugio, si alzo e gorgheggio; l'invito silenzioso di un sorriso le rialzo delicatamente gli angoli della bocca, molto adagio, come un bimbo che cerca di raccogliere un bioccolo di neve.

– Il vostro ultimo film era meraviglioso, signorina Gonzales.

Un sorriso, rapido come un lampo, le muto completamente il viso. Il corpo si eresse, vibrante di soddisfazione.

– Ma era uno schifo – replico, con aria radiosa. – Assolutamente. Un maledetto schifo, mio caro e amabile giovanotto. E voi lo sapete benissimo, che era uno schifosissimo schifo.

– Nessun film e uno schifo, per me, quando ci lavorate voi, signorina Gonzales.

Lei si scosto dalla soglia e mi fece segno di entrare.

– Beviamo qualcosa – mi disse. – Sicuro, venite, beviamo qualcosa.

Io adoro l'adulazione, per quanto disonesta.

Entrai. Una pistola nelle reni non mi avrebbe affatto sorpreso. La ragazza si mise in modo che, per varcare la soglia, dovetti praticamente spinger da parte le sue ghiandole mammarie. Aveva un profumo che ricordava un bosco sacro indiano, al chiaro di luna. Richiuse l'uscio e si accosto a un piccolo bar portatile, quasi a passo di danza.

– Whisky scozzese. O preferite un cocktail? Io so preparare un Martini, perfettamente disgustoso.

– Il whisky va benissimo, grazie.

Preparo due beveraggi in un paio di bicchieri che avrebbero quasi potuto servire da portaombrelli. Mi sedetti su una poltrona ricoperta di chintz e mi guardai attorno. Era un locale all'antica. C'era un caminetto falso, con i ceppi che nascondevano una stufa a gas e la mensola di marmo, qualche crepa nell'intonaco, un paio di "croste" vigorosamente colorate, abbastanza repellenti per esser costate un occhio, e uno Steinway intagliato che, per una volta tanto, non era adorno di uno scialle spagnolo. Una quantita di libri, dall'aria nuova e dalle copertine vivaci, erano sparpagliati per la stanza e una doppietta, dal calcio elegantemente lavorato, era appoggiata in un angolo con un nastro di raso bianco annodato intorno alle canne. Spirito hollywoodiano.

La dama bruna in pantaloni mi porse il bicchiere e si appollaio sul bracciolo della mia poltrona.

– Vi permetto di chiamarmi Dolores, se volete – disse bevendo una generosa sorsata di liquore.

– Grazie.

– E io, come devo chiamarvi?

Sorrisi, senza rispondere.

– Naturalmente – continuo lei – so benissimo che siete un bugiardo matricolato, e che non avete nessuna foto in saccoccia. Non che io desideri ficcare il naso negli affari vostri, senza dubbio privatissimi.

– Davvero? – buttai giu quattro dita di liquore. – Che specie di bagno sta facendo, la signorina Weld? Un bagno all'antica, con l'acqua e il sapone, o un'abluzione complicata, con essenze orientali?

Lei agito quel che rimaneva della sigaretta bruna, stretta nelle molle d'oro.

– Forse vi farebbe piacere aiutarla. Il bagno e da quella parte… A destra, dopo l'arco. Molto probabilmente la porta non e chiusa a chiave.

– Se e cosi facile non ci tengo.

– Oh – la ragazza mi fece di nuovo omaggio del suo sorriso radioso.

– Vi piacciono le cose difficili, nella vita. Devo ricordarmi di essere meno abbordabile, vero? – Si alzo elegantemente dal bracciolo della mia poltrona e spense la sigaretta, chinandosi profondamente in modo da farmi notare la linea dei fianchi.

– Non vi disturbate, signorina Gonzales. Sono venuto qui solo per affari. Non ho intenzione di violentare nessuno.

– No? – Il sorriso divenne morbido, pigro, e, se non riuscite a trovare una parola migliore, provocante.

– Pero sto cominciando a pensare che non sarebbe una cattiva idea.

– Siete una canaglia molto divertente – dichiaro la ragazza scrollando le spalle, e se ne ando, attraverso l'arco, portando con se il suo mezzo litro di whisky e acqua. Sentii bussare gentilmente a un uscio, e poi la sua voce.

– Gioia, c'e qui un giovanotto che ti ha portato alcuni ritratti, dallo studio. Cosi dice. Muy simpatico. Muy guapo, tambien. Con cojones.

Una voce, che avevo gia udita, ordino aspramente.

– Sta zitta, cagnetta. Tra un secondo arrivo.

La Gonzales ricomparve, sotto l'arco, canticchiando a bocca chiusa. Aveva finito il whisky e torno al bar.

– Ma voi non bevete! – esclamo, guardando il mio bicchiere.

– Ho gia cenato. E in ogni caso il mio stomaco tiene solo due litri. So un po' di spagnolo.

Lei getto indietro la testa.

– Siete scandalizzato? – Roteo gli occhi, poi mosse le spalle, in una curiosa figura di danza.

– Non e facile scandalizzarmi.

– Ma avete capito quel che ho detto? Madre de Dios! Sono desolatissima!

– L'avrei scommesso.

Lei termino di prepararsi un altro whisky e soda.

– Si, sono desolatissima – sospiro. – Cioe, credo di esserlo. A volte non ne sono tanto sicura. A volte non me ne frega niente di niente. E cosi imbarazzante. Gli amici mi dicono che sono sboccata. Vi scandalizzo, vero?

Si era appollaiata di nuovo sulla mia poltrona.

– No. Ma se volessi scandalizzarmi saprei dove venire.

La ragazza aveva deposto il bicchiere alle sue spalle, con indolenza, e si era chinata verso di me.

– Ma io non abito qui – m'informo. – Abito al Chateau Bercy.

– Sola?

Mi diede uno schiaffetto delicato, sulla punta del naso. Un secondo dopo l'avevo in grembo che cercava di mordermi via un pezzo di lingua.

– Siete un'adorabile canaglia – mormoro.

Aveva una bocca come non ne avevo provate mai. Le labbra bruciavano, come ghiaccio secco. Premeva la lingua forte contro i miei denti. I suoi occhi mi parevano neri, enormi, e il bianco risaltava, sotto le iridi.

– Sono tanto stanca – mi alito in bocca. – Sono cosi sfinita, cosi incredibilmente affranta.

Sentii la sua mano nel taschino interno della giacca. La spinsi indietro duramente, ma mi aveva gia preso il portafogli. Si allontano a passo di danza, ridendo, col portafogli in mano, poi l'aperse di scatto e ne fece passare il contenuto fra le dita che scattavano come piccole serpi.

– Lietissima che abbiate gia fatto conoscenza – disse una voce fredda, di fianco a noi.

Mavis Weld era apparsa sotto l'arco.

Non si era presa il disturbo di truccarsi e aveva appena ravviato la capigliatura rigonfia. Portava una elegantissima vestaglia, e ben poco d'altro.

Ai piedi aveva un paio di pantofoline verdi e argento. Gli occhi erano vuoti, le labbra sdegnose. Ma era indubbiamente la stessa ragazza, occhiali neri o non occhiali neri.

La Gonzales le lar.cio un'occhiata rapida, chiuse il mio portafogli e me lo getto. L'afferrai al volo e lo rimisi in tasca. La bruna si avvicino pigramente a un tavolo, raccolse una borsa nera con una lunga cinghia, se la mise a tracolla e si incammino verso la porta.

Mavis Weld non si mosse, non la guardo. Guardo me, invece. Ma nel suo viso non c'era la minima espressione. La Gonzales aperse l'uscio, diede un'occhiata fuori e torno a richiuderlo.

– Si chiama Philip Marlowe – annunzio. – Carino, vero?

– Non sapevo che ti scomodassi a domandare come si chiamano – osservo Mavis Weld. – Ben di rado frequenti gli uomini abbastanza a lungo per poterlo fare.

– Capisco – rispose l'altra con gentilezza. Si volto e mi sorrise. – Un modo molto grazioso per dar della sgualdrina a una ragazza, non vi pare?

Mavis Weld non disse nulla. Il suo viso pareva di marmo.

– Se non altro – continuo la Gonzales mentre tornava ad aprire la porta, – io non sono andata a letto con nessun sicario, in questi ultimi tempi.

– Sei sicura di ricordartene? – chiese Mavis Weld, esattamente nello stesso tono. – Apri la porta, gioia. Oggi e il giorno che mettiamo fuori l'immondizia.

La Gonzales si volto e le rivolse uno sguardo lento, sicuro, che pareva una coltellata. Poi emise un rumorino soffocato, schioccando le labbra e spalanco l'uscio. Un istante dopo il battente si richiudeva, con un rumore assordante. Il fracasso non sposto d'un millimetro lo sguardo azzurro, duro, ostinato di Mavis Weld.

– E ora, che ne direste di fare altrettanto,… ma con piu garbo? – mi domando.

Trassi di tasca il fazzoletto e mi ripulii il viso dal rossetto. Aveva esattamente il colore del sangue, del sangue fresco.

– Puo capitare a tutti – spiegai. – Non ero io a pomiciarla. Era lei a pomiciare me.

La ragazza ando alla porta con passo deciso, e la spalanco.

– Fuori di qui, prigioniero del sogno. Cercate d'andarvene coi vostri piedi.

– Sono venuto per affari, signorina Weld.

– Gia. Me l'immaginavo. Fuori. Non vi conosco e non voglio conoscervi. E se anche ne avessi voglia questo non sarebbe il momento adatto.

– L'ora, il luogo e l'essere amato non si trovano mai insieme – citai.

– Che roba e?

Cerco di cacciarmi via con un gesto altero del mento, ma neppure lei era all'altezza di tanto.

– Browning – spiegai. – Il poeta, non l'automatica. Sono certo che voi preferireste l'automatica.

– Sentite un po', buon uomo, devo chiamare il direttore dello stabile per farvi buttar fuori a pedate?

Le andai vicino e chiusi l'uscio con una spinta. Lei tenne, fino all'ultimo.

Non arrivo a darmi un calcio in uno stinco, ma le costo uno sforzo non farlo. Cercai di indurla ad allontanarsi dalla porta, senza averne l'aria. Lei non si lascio indurre a un bel niente. Mantenne le sue posizioni, con una mano sempre pronta per la maniglia e gli occhi grevi di collera azzurra.

– Se avete intenzione di starmi cosi vicina forse vi conviene vestirvi un po' – consigliai.

Lei porto indietro una mano e mi colpi duramente. Lo schiaffo risono come la porta sbattuta dalla signorina Gonzales, ma mi fece male. E mi ricordo che avevo un punto indolenzito, sulla nuca.

– Vi ho fatto male? – mi chiese Mavis Weld a bassa voce.

Accennai di si.

– Magnifico. – Porto indietro la mano, e mi schiaffeggio di nuovo, piu forte, se possibile. – Credo che vi convenga baciarmi – alito. I suoi occhi erano chiari, limpidi, arrendevoli. Abbassai lo sguardo, distrattamente.

La sua mano destra era stretta in un pugno dall'aria molto decisa. E non era nemmeno un pugno troppo piccolo da non far effetto.

– Credetemi, c'e una sola ragione per cui non vi bacio – affermai. – E non vi bacerei, nemmeno se aveste in mano la vostra solita rivoltellina nera. O il "pugno di ferro" che certo tenete sul comodino.

Mavis Weld sorrise educatamente.

– Potrebbe persino darsi che io stessi lavorando per voi – soggiunsi.

– Inoltre non corro dietro a ogni paio di gambe che vedo. – Guardai giu, verso le sue gambe. Le potevo vedere senza nessuna difficolta. Erano splendide. Anche dove non si chiamavano piu gambe. Lei riuni le falde della vestaglia, si volto e ando verso il bar, tentennando il capo.

– Sono libera, bianca e maggiorenne – dichiaro. – Ho provato tutti i sistemi d'approccio esistenti. Credo proprio di si. Ma se non riesco a spaventarvi, a umiliarvi e a sedurvi si puo sapere con che cosa vi posso comprare?

– Ebbene…

– Non me lo dite – si interruppe di scatto e si volto, con un bicchiere in mano. Bevve, scosse i capelli sciolti e mi sorrise: un sorriso breve, fragile. – Quattrini naturalmente. Che stupida a non averci pensato.

– I quattrini potrebbero servire – concessi.

La bocca le si contrasse dal disgusto ma la sua voce divenne quasi affettuosa.

– Quanto?

– Cento dollari, potrebbero andare, come inizio.

– Siete a buon mercato. Siete un piccolo mascalzone a buon mercato, eh? Cento dollari, d'accordo. Sono danaro, nel vostro ambiente, cento dollari, tesoro?

– Fate duecento, allora. Con una somma simile mi potrei ritirare a vita privata.

– Sempre a buon mercato. Ogni settimana, naturalmente. In una bella busta pulita?

– Potete lasciar stare la busta. Non farei che sporcarla.

– E cosa otterrei io, in cambio dei quattrini, mio caro e affascinante piedipiatti? So benissimo chi siete, naturalmente.

– Otterrete una ricevuta. Chi vi ha detto che sono un piedipiatti?

Per un istante mi fisso, come se guardasse fuori dai suoi stessi occhi, poi riprese a recitare.

– Dev'esser stata la puzza.

Sorseggio la sua bibita e mi guardo da capo a piedi con una vaga aria di disprezzo.

– Comincio a credere che vi scriviate da sola le battute – dissi. – Fino a questo momento mi son chiesto come mai il dialogo era tanto barboso.

Mi scostai di scatto. Alcune gocce mi spruzzarono. Il bicchiere ando in frantumi contro il muro, alle mie spalle. I pezzi caddero, senza rumore.

– E con questo – disse Mavis Weld, perfettamente tranquilla, – ho completamente esaurito le mie riserve di fascino. Andai a prendere il cappello.

– Non ho mai pensato che foste stata voi, a ucciderlo – dichiarai. – Pero potrebbe tornarmi utile una ragione qualsiasi per non dire a nessuno che eravate la. Puo servirmi a ricevere abbastanza danaro per una caparra, tanto per avere una posizione ufficiale. Nonche una certa quantita d'informazioni, per giustificare il fatto che ho accettato la caparra.

Mavis Weld prese una sigaretta da una scatola, la getto in aria, l'afferro, con le labbra, senza sforzo e l'accese con un cerino che pareva esser sorto dal nulla.

– Oh, santa pazienza, si sospetta che io abbia assassinato qualcuno? – domando. Avevo ancora il cappello in mano, e la cosa mi fece sentire molto stupido. Chissa perche. Me lo calcai in testa e mi avviai alla porta.

– Spero che abbiate gli spiccioli del tram per tornare a casa – mormoro la sua voce sprezzante, alle mie spalle.

Non risposi, e proseguii la mia via. Quando ebbi aperto l'uscio Mavis Weld soggiunse:

– Spero, inoltre, che la signorina Gonzales vi abbia dato il suo indirizzo e il numero di telefono. Dovreste riuscire a ottenere praticamente tutto, da lei… danaro compreso, a quanto mi si dice.

Lasciai andare la maniglia di scatto e tornai rapidamente sui miei passi.

Lei rimase ferma, sulle sue posizioni. Anche il suo sorriso non si sposto d'un millimetro.

– Datemi retta – l'apostrofai. – So che farete una fatica tremenda, a credermi… Ma io sono venuto qui con la strana idea che voi foste una ragazza che aveva bisogno d'aiuto… e avrebbe avuto molte difficolta a trovare qualcuno sul quale fare affidamento. Avevo immaginato che foste andata in quella camera d'albergo per pagare il prezzo d'un ricatto o qualcosa di simile. Il fatto che ci siate andata da sola, poi, correndo il rischio di venir riconosciuta… e siete stata riconosciuta, infatti, dal poliziotto dell'albergo, un individuo che, moralmente, e dritto come un ramo di vite… tutto mi ha fatto pensare che vi trovaste in una di quelle grane stile Hollywood, che finiscono una persona, senza via di scampo. Ma voi non siete in una grana.

Voi siete nel bel mezzo del palcoscenico, sotto il riflettore, a ripetere tutte le guitterie trite e ritrite che avete usato nei film di second'ordine in cui avete recitato… se il vostro si chiama recitare.

– Tacete! – sibilo lei, stringendo i denti fino a farli stridere. – Tacete, sporco ricattatore, lurido spione…

– Non avete bisogno di me – continuai. – Non avete bisogno di nessuno. Siete cosi maledettamente abile che a forza di chiacchiere riuscireste a uscire da una cassetta di sicurezza. E va bene. Tiratevi fuori a forza di chiacchiere. Io non ve l'impedisco. Basta che non mi costringiate ad ascoltarvi. Scoppierei in lacrime, al pensiero che una povera ragazzina ingenua, alta un soldo di cacio puo essere cosi intelligente. Voi mi commuovete, dolcezza. Proprio come Margaret O' Brien.

Lei non si mosse, non fiato nemmeno quando andai alla porta, nemmeno quando l'apersi. Non so perche. La mia tirata non era efficace fino a quel punto.

Scesi le scale, attraversai il cortile, e, uscendo dal portone per poco non cozzai contro un ometto snello, dagli occhi neri, che si era fermato ad accendere una sigaretta.

– Scusatemi – dissi con calma – temo di impedirvi la via.

Feci per girargli attorno, poi mi accorsi che nella destra alzata stringeva una chiave. Allungai una zampa e senza nessuna ragione al mondo gli feci saltare la chiave di mano. Guardai il numero che vi era inciso. N° 14.

L'appartamento di Mavis Weld. La gettai via, dietro una macchia di cespugli.

– Non vi occorre – dissi. – La porta non e chiusa.

– Naturalmente – fece l'omino. C'era un curioso sorriso, sulle sue labbra. – Che sciocco sono.

– Gia – convenni. – Siamo stupidi entrambi. Tutti, sono stupidi, quelli che si occupano di quella donnaccia.

– Non direi – osservo l'altro, quietamente, mentre i suoi piccoli occhi tristi mi studiavano, senza nessuna espressione particolare.

– Non e necessario che lo diciate – continuai. – L'ho detto io, per voi. Vi prego di scusarmi. Vado a riprendervi la chiave.

Girai dietro i cespugli, ritrovai la chiave e la porsi all'omino.

– Mille grazie – mormoro lui. – E, a proposito… – Esito. Io mi fermai. – Spero di non aver interrotto un interessante litigio. Mi dispiacerebbe proprio. No? – Sorrise. – Be', dal momento che la signorina Weld e un'amica comune sara bene che mi presenti. Mi chiamo Steelgrave. Non vi ho gia visto, in qualche posto?

– No, non mi avete visto in nessun posto, signor Steelgrave. Mi chiamo Marlowe. Philip Marlowe. E estremamente improbabile che ci siamo conosciuti. E, strano a dirsi, io non vi ho mai sentito nominare, signor Steelgrave. E di voi non me ne importa un fico… e non me ne importerebbe nemmeno se vi chiamaste "Frigna" Moyer. – Non ho mai capito perche avessi detto una cosa simile. Non c'era nessuna ragione, a parte il fatto che avevo sentito quel nome poche ore prima. Il viso dell'ometto divenne stranamente immobile. I suoi occhi neri, silenziosi, si fecero singolarmente fissi. Lo sconosciuto tolse la sigaretta di bocca, ne studio la punta, scosse via un po' di cenere, sebbene non vi fosse cenere da scuoter via, e, sempre cogli occhi bassi osservo:

– "Frigna" Moyer? Che nome curioso. Non mi pare d'averlo mai sentito. E qualcuno che dovrei conoscere?

– No, a meno che non abbiate una passione particolare per gli scalpelli da ghiaccio – risposi e lo piantai in asso.

Scesi i gradini, attraversai la strada, raggiunsi la mia macchina e prima di salirvi mi voltai. L'omino era fermo allo stesso punto, e guardava giu, verso di me, con la sigaretta fra le labbra. Da quella distanza non potevo vedere se vi fosse un'espressione qualsiasi, sul suo viso. Quando mi voltai non si mosse, non fece il piu piccolo gesto. Non distolse nemmeno lo sguardo. Rimase semplicemente dov'era. Io montai in macchina e partii.

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