CAPITOLO XVIII

Il poliziotto dello studio, seduto a una scrivania chiusa da un cristallo semicircolare, depose il ricevitore del telefono e scrisse qualcosa su un blocco d'appunti. Poi strappo il foglio e me lo porse attraverso la fessura, alta non piu di due centimetri. La sua voce attraverso il microfono incastrato nel vetro, aveva un timbro metallico.

– Andate dritto in fondo al corridoio – disse. – Troveree una fontanella d'acqua potabile in mezzo a un patio. George Wilson verra a prendervi.

– Grazie – risposi. – Questo vetro e a prova di proiettile?

– Sicuro, perche?

– Ero curioso di saperlo. Non ho ancora sentito che qualcuno si e fatto strada nel cinema a revolverate.

Alle mie spalle, risono una risatina soffocata. Mi voltai e vidi una ragazza in pantaloni, con un garofano rosso dietro l'orecchio. Mi sorrideva.

– Oh, fratello, se bastasse una pistola!

Mi diressi a una porta verde-oliva completamente sprovvista di maniglie. Quando le fui vicino la porta emise una specie di ronzio e mi permise di aprire il battente con una spinta. Al di la c'era un corridoio verde-oliva, coi muri nudi e un'altra porta in fondo. Una trappola da topi. Se entravate in quel corridoio e qualcosa non andava facevano ancora in tempo a fermarvi. L'uscio di fondo emise lo stesso ronzio e lo stesso scatto. Mi domandai come facesse, il poliziotto, a sapere che ero arrivato a destinazione.

Cosi alzai lo sguardo, e vidi i suoi occhi che mi fissavano da uno specchio inclinato. Come toccai il battente lo specchio si oscuro. Pensavano proprio a tutto.

Fuori, nel sole ardente di mezzogiorno i fiori spiccavano in maniera aggressiva nel piccolo patio dai vialetti di mattoni, con uno stagno e una panchina di marmo nel mezzo. La fontanella era vicino alla panca di marmo.

Un uomo anziano, superbamente abbigliato, riposava placido sul sedile di marmo e osservava tre boxers fulvi che sterravano delle begonie color te. Il suo viso aveva un'espressione di appagamento intenso, ma sereno. Non mi guardo, mentre mi avvicinavo. Uno dei boxers, il piu grosso, gli si accosto, e bagno il marmo della panchina, vicino ai suoi calzoni. L'uomo si chino in avanti e carezzo la grossa testa ispida dell'animale.

– Il signor Wilson? – domandai.

L'uomo alzo gli occhi su di me, con aria vaga. Il boxer medio arrivo trotterellando, fiuto la panchina e bagno dove aveva bagnato l'altro.

– Wilson? – L'uomo aveva una voce pigra, con un'ombra di cantilena.

– Oh, no. Non mi chiamo Wilson. Perche? Dovrei?

– Scusate.

Andai alla fontanella e mi spruzzai violentemente il viso con uno zampillo. Mentre mi stavo asciugando il boxer piu piccolo fece quel che doveva contro la panchina di marmo.

L'uomo che non si chiamava Wilson osservo, in tono adorante:

– La fan sempre nello stesso ordine. E meraviglioso.

– Che cosa? – domandai.

– Pipi – rispose l'uomo. – E una questione d'anzianita, a quanto sembra. Sono molto ordinati. Prima Maisie. E la mamma. Poi Mac. Ha un anno piu di Jock, il pupo. Sempre cosi. Anche nel mio ufficio.

– Nel vostro ufficio? – chiesi, e mai nessuno ebbe un'aria piu stupida, facendo una domanda.

L'uomo mi guardo, inarcando le sopracciglia biancastre, si tolse di bocca un sigaro scuro, ordinario, ne stacco un'estremita coi denti e la sputo nello stagno.

– Non fara molto bene ai pesci – osservai.

Il mio compagno mi guardo, dal sotto in su.

– Io allevo boxers. Al diavolo i pesci.

Pensai che era l'aria di Hollywood. Accesi una sigaretta e mi accomodai sulla panchina.

– Nel vostro ufficio… – ripetei. – Be', ogni giorno una nuova idea, no?

– Contro l'angolo della mia scrivania. La fanno continuamente. Le mie segretarie diventano matte. Rovina il tappeto, dicono. Ma che cos'hanno addosso le donne, al giorno d'oggi? A me non da nessun fastidio. In un certo senso mi piace. Quando ci si affeziona ai cani fa piacere guardarli anche quando fanno Un cane trascino una pianta di begonia in piena fioritura lungo il vialetto di mattoni, e la depose ai piedi del padrone. Lui la raccatto e la getto nello stagno.

– I giardinieri si seccheranno, immagino – osservo, mentre tornava a sedersi. – Oh, al diavolo, se non sono contenti possono sempre… – Si interruppe di colpo, e osservo una snella portaordini in calzoni gialli compiere una deliberata deviazione, allo scopo di attraversare il patio. La ragazza gli diede una rapida occhiata e si allontano, movendo i fianchi con un'armonia quasi musicale.

– Sapete qual e il malanno del cinema? – mi chiese l'uomo.

– Nessuno lo sa.

– Troppo sesso – affermo lui. – Il sesso e un'ottima cosa, a tempo e a luogo. Ma qui ce lo scaraventano addosso a vagoni. Ci nuotiamo in mezzo.

Ne abbiamo fin sopra i capelli. Finisce col diventare una specie di carta moschicida. – Si alzo. – E abbiamo troppe mosche, per soprammercato.

Be', piacere di avervi conosciuto signor…

– Marlowe – dissi. – Temo che non mi conosciate.

– Non conosco nessuno – dichiaro lui. – La memoria se ne va. Mi presentano troppa gente. Mi chiamo Oppenheimer.

– Jules Oppenheimer?

L'uomo annui.

– Precisamente. Prendete su un sigaro – e me ne porse uno. Gli mostrai la mia sigaretta. Lui getto il sigaro nello stagno, poi si acciglio. – La memoria se ne va – ripete tristemente. – Ho sprecato cinquanta centesimi. Non avrei dovuto.

– Siete il padrone dello studio.

Oppenheimer annui, con aria assente.

– Avrei dovuto risparmiare il sigaro. Risparmiate cinquanta centesimi e che cosa avete?

– Cinquanta centesimi – risposi, domandandomi di che cosa diavolo stesse parlando.

– Non nel cinema. Risparmiate cinquanta centesimi, nel cinema e tutto quel che ottenete sono cinque dollari di spese di ragioneria. – Tacque e fece un cenno ai tre boxers. I cani smisero di sradicare quel che stavano sradicando e lo guardarono. – Conviene occuparsi della parte finanziaria – riprese. – Io mi occupo solo della parte finanziaria. Non e difficile.

Andiamo, bambini. Torniamo al vecchio bordello. – Trasse un sospiro. – Millecinquecento teatri di posa – soggiunse.

Dovevo avere di nuovo una faccia da stupido. Oppenheimer agito una mano, in un gesto largo e m'informo.

– Millecinquecento teatri son tutto quel che ci vuole. E infinitamente piu facile che allevare boxers di razza pura. L'industria cinematografica e l'unica industria del mondo in cui si possono commettere tutti gli errori possibili e guadagnare ancora danaro.

– Dev'essere l'unica industria del mondo in cui si possono tenere tre cani che fan pipi contro la scrivania.

– Bisogna avere millecinquecento teatri di posa.

– Questo rende un po' difficili gli inizi – osservai.

Oppenheimer parve compiaciuto.

– Si, questa e la parte difficile. – Guardo oltre il prato verde, a un edificio a quattro piani, che delimitava un lato della piazza. – Ci son tutti gli uffici, la dentro – spiego. – Non ci vado mai. Non fanno altro che cambiare decorazioni. Mi fa venir male guardare la roba che qualcuno di quei signori si fa mettere nelle sue stanze. I piu costosi talenti del mondo. Date loro tutto quel che desiderano, tutti i quattrini che vi chiedono. Perche?

Non c'e ragione. Solo abitudine. Non me ne importa un corno di quel che fanno e non fanno. A me basta avere millecinquecento teatri.

– Volete che questa vostra dichiarazione sia citata, signor Oppenheimer?

– Siete un giornalista?

– No.

– Peccato. Solo per il gusto di vedere quel che accadrebbe, vorrei che qualcuno cercasse di far stampare sui giornali queste semplici ed elementari verita della vita. – Fece una pausa e sbuffo. – Non le pubblicherebbe nessuno. Avrebbero paura. Su, andiamo, bambini?

Il cane piu grosso, Maisie si avvicino e ando a fermarsi accanto a lui. Il cane medio si soffermo a rovinare un'altra begonia, poi trotterello accanto a Maisie. Il piccolo, Jock, si allineo secondo l'ordine, poi, colto da un'ispirazione improvvisa alzo una gamba contro il risvolto dei calzoni del padrone. Maisie lo scosto, con aria distratta.

– Visto? – esclamo Oppenheimer, radioso. – Jock ha cercato di saltare un turno. Maisie non ha potuto tollerarlo. – Si chino e carezzo la testa di Maisie. La grossa cagna lo fisso con aria adorante.

– Gli occhi del vostro cane – osservo il vecchio, meditabondo. – Gli occhi che non dimenticherete mai.

Si allontano pigramente, lungo il vialetto di mattoni, coi tre cani che gli trotterellavano quietamente alle calcagna.

– Il signor Marlowe?

Mi voltai e scopersi che un giovanotto alto, coi capelli rossastri, e un naso che pareva una prua era spuntato al mio fianco.

– Sono George Wilson. Piacere di conoscervi. Vedo che siete amico del signor Oppenheimer.

– Ho fatto quattro chiacchiere con lui. Mi ha insegnato come si fa a dirigere l'industria cinematografica. A quanto pare basta possedere millecinquecento teatri di posa.

– Lavoro qui da cinque anni. Non son mai riuscito a rivolgergli la parola.

– E che non vi fate fare pipi addosso dai cani influenti.

– Forse avete ragione. Che cosa posso fare per voi, signor Marlowe?

– Vorrei parlare con Mavis Weld.

– E sul set. Sta girando.

– Posso vederla sul set, per qualche minuto?

Wilson mi parve in dubbio.

– Che tipo di lasciapassare vi hanno dato?

– Un lasciapassare ordinario, credo. – E glielo porsi. Lui lo studio.

– Vi manda Ballou. E il suo agente. Credo che possiamo farcela. Teatro dodici. Volete che ci andiamo ora?

– Se avete tempo.

– Sono l'incaricato dei rapporti dello studio col pubblico. Il mio tempo e destinato ai visitatori, come voi.

Percorremmo il vialetto di mattoni, diretti verso due edifici gemelli. Da li partiva un viale piu largo, di cemento, che correva fra i teatri di posa e le aree per le costruzioni provvisorie.

– Lavorate nell'ufficio di Ballou?

– Sono uscito di li mezz'ora fa.

– Un'organizzazione notevole, m'han detto. Ho pensato varie volte di tentare anch'io un lavoro del genere. Qui piu che seccature non si ottengono.

Passammo davanti a due poliziotti in uniforme, poi imboccammo uno stretto vicolo, fra due teatri. Una bandierina meccanica rossa oscillava in mezzo alla via, sulla porta contrassegnata col numero dodici c'era una fanale rosso acceso, e, sopra di esso, un campanello squillava ininterrottamente. Wilson si fermo accanto alla porta. Un altro agente, seduto su una sedia inclinata contro il muro lo saluto con un cenno e mi guardo da capo a piedi, con quell'espressione grigia, morta, che si forma sui poliziotti come la melma sull'acqua di un serbatoio.

Il campanello e la bandierina smisero di funzionare e il fanale rosso si spense. Wilson spinse una grossa porta ed io passai, prima di lui. Nell'interno c'era un altro uscio. Varcammo anche quello, e dopo la luce del sole mi parve di essere piombato nell'oscurita piu completa. Poi notai una concentrazione di luci nell'angolo piu lontano. Il resto dell'enorme teatro pareva completamente vuoto.

Ci dirigemmo verso le luci dei riflettori. Man mano che ci avvicinavamo il pavimento era sempre piu ingombro di grossi cavi neri. Incontrammo una fila di sedie pieghevoli e un gruppo di camerini mobili, coi nomi sulle porte. Eravamo sul retro del set e io vedevo soltanto l'impalcatura di legno e due grandi schermi ai lati. Due macchine per la proiezione in "trasparente" ronzavano, a poca distanza.

Una voce urlo: – Si gira! – Una campana suono chiassosamente. I due schermi si animarono di onde marine in movimento. Un'altra voce, piu calma, disse:

– Badate alla vostra posizione, prego. Dovremmo finire pressappoco come si vede in questo schizzo. Avanti, azione.

Wilson si fermo di botto e mi poso una mano su un braccio. Le voci degli attori sorsero dal nulla, ne forti ne chiare, un mormorio senza importanza e senza significato.

Improvvisamente uno degli schermi del trasparente si spense. La voce tranquilla senza cambiar tono ordino:

– Alt.

La campana suono, e si udi un brusio generale. Wilson ed io riprendemmo il cammino. Il mio compagno mi sussurro in un orecchio.

– Se Ned Gammon non termina questa ripresa prima di colazione finisce col dare un pugno sul naso a Torrance.

– Oh, c'e Torrance in questo film?

Dick Torrance, a quell'epoca, era un divo di second'ordine e di ordinaria amministrazione. Il tipo piuttosto comune, ad Hollywood, dell'attore che nessuno desidera, in modo particolare, ma che alla fine, molti devono scritturare per mancanza di meglio.

– Ti spiace ripetere la scena, Dick? – chiese la voce tranquilla, mentre giravamo l'angolo del set, e vedevamo la scena… il ponte di un panfilo da diporto, vicino a poppa.

C'erano due ragazze e tre uomini, in azione. Uno era un signore di mezz'eta in abiti sportivi mollemente adagiato su una poltrona a sdraio. Uno portava una divisa bianca, aveva i capelli rossi e aveva l'aria d'essere il capitano della nave. Il terzo era il navigatore dilettante, col berretto all'ultima moda, la giacca blu dai bottoni d'oro, le scarpe e i calzoni candidi e il fascino altero. Quello era Torrance. Delle ragazze una era una bellezza bruna che aveva visto giorni migliori: Susan Crawley. L'altra era Mavis Weld.

Portava un costume da bagno bianco di rayon lucido, ed era evidentemente appena salita a bordo. Un truccatore le stava spruzzando acqua sulla faccia e sulle punte dei capelli biondi.

Torrance non aveva risposto. A un tratto si volto e fisso la macchina da presa.

– Credi che non sappia le mie battute?

Un uomo dai capelli grigi, e dall'abito grigio avanzo, dall'ombra del teatro, nel cerchio di luce dei riflettori. I suoi occhi bruciavano ma la voce era priva di calore.

– A meno che non le cambi di proposito – rispose, con gli occhi fissi in quelli di Torrance.

– Puo darsi che io non sia abituato a recitare davanti a un trasparente che ha l'abitudine di esaurire il film a meta ripresa.

– E giusto – dichiaro Ned Gammon. – Il guaio e che nella macchina ci son solo centocinquanta metri di pellicola, e la colpa e mia. Se tu potessi accelerare un po' i tempi…

– Uh! – sbuffo Torrance… – Se io potessi accelerare un po'! Forse, se si potesse convincere la signorina Weld a salire a bordo impiegando un po' meno tempo di quel che ci e voluto per costruire la maledettissima nave…

Mavis Weld gli lancio un rapido sguardo, greve di disprezzo.

– Il "tempo" dtlla Weld e esatto – dichiaro Gammon. – E anche la sua interpretazione va bene.

Susan Crawley si strinse elegantemente nelle spalle.

– Io ho l'impressione che potrebbe metterci un po' piu di vita. Va bene, ma potrebbe andar meglio.

– Se andassi meglio, carissima – le disse Mavis Weld con pericolosa dolcezza – qualcuno potrebbe dire che recito. E tu non vorresti mai che succedesse una cosa simile, in un tuo film, vero?

Torrance scoppio in una risata. Susan Crawley si volto e lo fulmino con gli occhi.

– Che cosa c'e da ridere, signor Tredici?

Il viso di Torrance si trasformo in una maschera di ghiaccio.

– Ancora quel nome? – sibilo.

– Oh, santo cielo, vuoi dire che non lo sai? – mormoro Susan Crawley, con aria sognante. – Ti chiamano signor Tredici perche ogni volta che fai una parte vuol dire che dodici attori prima di te, l'hanno rifiutata.

– Vedo – fece Torrance, freddamente, poi scoppio di nuovo a ridere, e si rivolse a Ned Gammon. – E va bene, Ned. Adesso che tutti hanno sputato fuori il loro veleno forse potremo recitare come desideri.

Il regista annui.

– Non c'e come una piccola pagliacciata per schiarire l'atmosfera. Benissimo, ricominciamo.

Torno dietro la macchina da presa. Il suo vice grido "si gira" e la scena ando liscia come l'olio.

– Alt – ordino Gammon. – Stampate questa. Intervallo per la colazione. Per tutti.

Gli attori scesero gli scalini di legno grezzo salutando Wilson con un cenno. Mavis Weld venne per ultima, perche si era fermata ad infilare un accappatoio di spugna e un paio di sandali da spiaggia. Quando mi vide si fermo di botto. Wilson fece un passo avanti.

– Salve George – disse Mavis Weld, fissando me. – Ti occorre qualcosa?

– Il signor Marlowe vorrebbe dirti due parole. Hai tempo?

– Il signor Marlowe?

Wilson mi lancio una occhiata rapida e penetrante.

– E dell'ufficio di Ballou. Credevo che lo conoscessi.

– Puo darsi che l'abbia visto. – Stava ancora fissandomi. – Che c'e?

Non apersi bocca.

Dopo un istante la ragazza disse:

– Grazie, George. Vi conviene accompagnarmi al mio camerino, signor Marlowe.

Si volto e si diresse verso l'estremita opposta del set. Contro il muro era appoggiato un camerino bianco e verde. Sulla porta era scritto: Miss Weld.

Quando vi giunse, la ragazza torno a voltarsi e si guardo attorno, attentamente. Poi mi pianto in faccia i suoi splendidi occhi azzurri.

– E adesso, signor Marlowe?

– Dunque vi ricordate di me?

– Mi pare di si.

– Riprendiamo dove eravamo rimasti… o iniziamo una partita nuova, con un mazzo pulito?

– Qualcuno vi ha permesso di entrare qui. Chi? Perche? Occorrono spiegazioni.

– Io lavoro per voi. Mi e stata pagata una caparra, e la ricevuta l'ha in tasca Ballou.

– Che pensiero gentile. E ammesso che io non desideri che voi lavoriate per me… qualunque sia il vostro lavoro?

– E va bene, fate la spiritosa. – Trassi di tasca la foto di Alle Danze e gliela porsi. Lei mi fisso, intensamente, per un lungo attimo, prima di abbassare gli occhi. Poi guardo l'istantanea che mostrava lei e Steelgrave nel separe. La guardo gravemente, senza un gesto. Poi, molto adagio, alzo una mano, e sfioro le ciocche di capelli bagnati che le ricadevano ai lati del viso. Ebbe un brivido, quasi impercettibile. La mano si abbasso, prese la foto. Mavis Weld la fisso a lungo. Poi sollevo di nuovo lo sguardo, molto, molto lentamente.

– Ebbene? – domando.

– Ho in mano la negativa e alcune altre copie. Le avreste voi, ora, se aveste avuto piu tempo e aveste saputo dove cercare. O se lui fosse vissuto abbastanza a lungo per vendervele.

– Ho un po' freschino – mormoro. – E devo mangiare un boccone. – E mi porse la foto.

– Avete un po' freschino e dovete mangiare un boccone – ripetei.

Mi parve che la gola le pulsasse. Ma la luce non era molto buona. Poi Mavis Weld abbozzo un sorriso, molto vago, distante. Il tocco dell'aristocratica annoiata.

– Il senso di tutto questo mi sfugge – sospiro.

– Passate troppo tempo sui panfili. In realta voi volete dire: dal momento che conosco Steelgrave e conosco voi, che cos'ha, questa foto, per indurre tutti a farmi ponti d'oro?

– Appunto – fece lei. – Che cos'ha?

– Non lo so – risposi. – Ma se scoprirlo servira a farvi smettere queste arie da duchessa lo scopriro. E, nel frattempo, voi avete ancora freschino e dovete ancora mangiare un boccone.

– E voi avete aspettato troppo – mormoro lei, tranquillamente. – Non avete piu niente da vendere. Eccetto la vostra vita, forse.

– Quella la vendo a buon mercato. Per amore di un paio di occhiali neri, d'un cappello color pervinca e d'una botta in testa con una scarpina a tacco alto.

La bocca le vibro, come se stesse per ridere, ma nei suoi occhi non c'era allegria.

– Per non contare tre schiaffi in piena faccia – aggiunse. – Addio signor Marlowe. Siete arrivato troppo tardi. Troppo, troppo tardi.

– Per me… o per voi?

Allungo una mano, dietro di se, e aperse la porta del camerino.

– Per entrambi, penso. – Ed entro rapidamente, lasciando l'uscio aperto.

– Venite dentro, e chiudete l'uscio – chiamo la sua voce dall'interno.

Obbedii. Non era un camerino elaborato, fatto su ordinazione, come quelli delle dive. Era rigidamente funzionale. Conteneva un piccolo divano disadorno, una poltrona, un tavolino da toeletta, con uno specchio a due lampade e una sedia a schienale rigido, e su un vassoio quel che avanzava di un caffe.

Mavis Weld si chino e infilo nella presa la spina d'un radiatore elettrico.

Poi afferro una salvietta e comincio ad asciugarsi le punte dei capelli. Io mi sedetti sul divano e aspettai.

– Datemi una sigaretta. – La ragazza getto da parte l'asciugamano. I suoi occhi erano vicini ai miei, mentre le accendevo la sigaretta. – Vi e piaciuta la scena a soggetto che abbiamo improvvisato sullo yacht?

– Schifosa.

– Siamo tutti degli schifosi. Alcuni sorridono piu degli altri, ecco tutto.

E l'ambiente artistico. Ha qualcosa di meschino. L'ha sempre avuto. C'e stato un tempo in cui gli attori passavano per la porta di servizio. La maggior parte di loro dovrebbe passarci ancora. Grandi tensioni, grandi ansie, grandi odi. E vengono fuori cosi, in piccole scenate odiose. Non significano niente.

– Chiacchiere da ballatoio.

Mavis Weld alzo una mano e mi passo un dito lungo la guancia. Bruciava, come un ferro rovente.

– Quanto guadagnate, Marlowe?

– Quaranta dollari al giorno, piu le spese. Questo e quel che chiedo. Ma ne accetto venticinque. Ne ho presi anche meno. – E pensai ai venti dollari lisi di Orfamay.

Lei fece di nuovo quel gesto, col dito, e io arrivai a non abbracciarla. Poi si scosto da me e si sedette sulla poltrona, stringendosi addosso l'accappatoio. Il radiatore elettrico stava' riscaldando forte la stanza.

– Venticinque dollari al giorno – mormoro con aria pensosa.

– Piccoli dollari solitari.

– Sono molto solitari?

– Come un faro in alto mare.

Accavallo le gambe, e il vago splendore della sua pelle parve riempire la stanza.

– Su, cominciate l'interrogatorio – disse, senza far nemmeno il gesto di coprirsi le cosce.

– Chi e Steelgrave?

– Un uomo che conosco da anni. E che mi piace da anni. Possiede varie cose. Un albergo o due… Ma da dove venga… non lo so.

– Pero lo conoscete molto bene.

– Perche non mi domandate se vado a letto con lui?

– Io non faccio certe domande.

Rise, e scosse via la cenere della sigaretta.

– La signorina Gonzales sarebbe ben lieta di dirvelo.

– Al diavolo la signorina Gonzales.

– E bruna, bella e ardente. E molto, molto gentile.

– Ed esclusiva come un marciapiedi – completai. – Che vada all'inferno. Tornando a Steelgrave, ha mai avuto grane?

– Chi non ne ha avute?

– Con la polizia.

Spalanco gli occhi, con un'aria un tantino troppo innocente. La sua risata era un tantino troppo squillante.

– Non siate ridicolo. Quell'uomo possiede piu di due milioni di dollari…

– Come li ha guadagnati?

– Come faccio a saperlo?

– E va bene. Era prevedibile che non lo sapeste. Quella sigaretta finira col bruciarvi le dita. – Mi chinai in avanti e le portai via il mozzicone. La sua mano giaceva, aperta, sulla gamba nuda. Le toccai il palmo, con la punta d'un dito. Lei si ritrasse da me, chiudendo il pugno.

– Non fate cosi – comando, aspramente.

– Perche? Lo facevo alle ragazzine, quando andavo a scuola.

– Lo so. – Le si era accelerato un po' il respiro. – E io mi sento giovane, e innocente, e come se stessi facendo qualcosa che non devo. E ormai ne e passato, del tempo, da quando ero giovane e innocente.

– Allora voi non sapete proprio niente, di Steelgrave?

– Vorrei che vi metteste un po' d'ordine in testa e decideste se mi state facendo la corte o un interrogatorio di terzo grado.

– La mia testa non ha niente a che vedere, in tutto questo.

Ci fu una pausa di silenzio. Poi lei disse:

– Devo mangiare qualcosa, sul serio, Marlowe. Lavoro, nel pomeriggio. Non vorreste che io svenissi sul set vero?

– Solo le dive lo fanno. – Mi alzai. – E va bene, me ne vado. Non vi dimenticate che lavoro per voi. Non avrei accettato l'incarico, se fossi stato convinto che avevate ucciso qualcuno. Pero eravate la, e avete corso un grosso rischio. C'era qualcosa che volevate assolutamente.

Lei prese la foto, e di nuovo la fisso, mordendosi un labbro. Poi alzo gli occhi, senza sollevare il capo.

– Ben difficilmente poteva essere questa…

– Era l'unica cosa tanto ben nascosta che nessuno e riuscito a trovare.

Ma che senso ha? Ci siete voi e un certo Steelgrave, seduti in un separe di Alle Danze. Non c'e nulla di male.

– Assolutamente nulla – convenne lei.

– Quindi deve trattarsi di qualcosa che riguarda Steelgrave… oppure la data.

Abbasso gli occhi di scatto, e torno a studiare la foto.

– Non c'e niente, qui, che indichi la data – disse rapidamente. – Sempre che significhi qualcosa. A meno che il pezzo tagliato…

– Ecco qua. – Le porsi il ritaglio. – Ma vi occorrera una lente. Mostratela a Steelgrave. Chiedetelo a lui se significa qualcosa. O chiedetelo a Ballou.

Mi incamminai verso la porta.

– Non vi fate illusioni, la data si puo stabilire molto facilmente – dissi, senza voltarmi. E Steelgrave lo sa benissimo.

– State costruendo un castello di sabbia, Marlowe.

– Davvero? – mi voltai a guardarla, senza sorridere. – Credete proprio? No, non e possibile. Voi siete andata ed eravate armata la. L'uomo era morto, assassinato. Ed era un noto malvivente. E io ho trovato una cosa che la polizia sarebbe felice di sapere che le ho nascosto. Perche dev'essere piena di moventi come l'oceano e pieno di sale. Finche la polizia non la scopre io conservo la mia licenza. E finche non la scopre qualcun altro io non mi trovo uno scalpello da ghiaccio infilato nel collo. Vi pare che la mia professione sia esageratamente redditizia?

Lei rimase seduta, a guardarmi, stringendosi una mano su un ginocchio.

L'altra mano si moveva, ininterrottamente sul bracciolo della poltrona, un dito dopo l'altro.

Tutto quel che mi restava da fare era girare la maniglia e uscire. Non so perche dovesse essere tanto faticoso.

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