CAPITOLO XXI

Un enorme gorilla nero, mi aveva piantato in faccia una enorme zampa nera e spingeva, cercando di prendermi la nuca. Io spinsi in direzione opposta. Sostenere il lato piu debole di una questione e sempre stata la mia specialita. Poi mi accorsi che il gorilla stava cercando di impedirmi di aprire gli occhi.

Decisi di aprirli ugualmente. Altri l'avevano fatto. Perche non io? Raccolsi tutte le mie forze e con estrema lentezza, irrigidendo la spina dorsale, flettendo le ginocchia, usando le braccia come gomene sollevai il peso mortale delle mie palpebre.

Guardavo il soffitto, mentre giacevo supino sul pavimento, una posizione in cui mi ero trovato altre volte, per motivi professionali. Voltai il capo.

Mi sentivo i polmoni rigidi, la bocca secca. La stanza era solo lo studio del dottor Lagardie. La stessa poltrona, la stessa scrivania, le stesse pareti, le stesse finestre. Lo stesso silenzio claustrale gravava nell'aria.

Mi rizzai su un fianco, mi tenni saldo al pavimento e scossi il capo. Il pavimento parti in vite piatta. Precipito cosi, per tremila metri, poi riuscii a bloccarlo e a rimetterlo in carreggiata. Sbattei le palpebre. Stesso pavimento, stessa scrivania, stesse pareti. Ma niente dottor Lagardie.

Mi umettai le labbra ed emisi una specie di suono, molto vago, al quale nessuno bado. Poi mi tirai in piedi. Ero stordito come un derviscio, debole come una lavandaia stanca, depresso come il fondo d'una marcita, timido come un scricciolo e destinato a riuscire come un danzatore classico con una gamba di legno.

Mi trascinai, quasi a tastoni, dietro la scrivania del dottor Lagardie e cominciai a pasticciare nervosamente nel suo armamentario, alla ricerca di una bottiglia di fertilizzante liquido. Niente da fare. Mi alzai di nuovo. Il peso del mio corpo era tremendo da sollevare, come un elefante morto. Mi aggirai per la stanza, barcollando, guardando dentro agli armadietti lustri di smalto bianco che contenevano tutte le cose di cui altri avevano bisogno urgente. Finalmente, dopo quelli che mi parvero quattro anni di lavori forzati, la mia mano si chiuse intorno a un mezzo litro di alcool etilico. Tolsi il tappo alla bottiglia e fiutai. Alcool di grano. Proprio come diceva l'etichetta. Tutto quel che mi occorreva, ora, era un bicchiere e un po' d'acqua.

Un uomo in gamba avrebbe dovuto farcela. Puntai verso la porta, diretto all'ambulatorio. L'aria aveva ancora l'aroma delle pesche troppo mature.

Urtai contro i due stipiti della porta, mentre l'attraversavo, e mi fermai, per prendere di nuovo la mira.

In quel momento mi accorsi che dei passi si avvicinavano, lungo il corridoio. Mi appoggiai esausto al muro e rimasi in ascolto.

Passi lenti, strascicati, con una lunga pausa, tra l'uno e l'altro. Sulle prime mi parvero furtivi. Poi mi parvero solo molto, molto stanchi. Un vecchio che cerca di arrivare, per l'ultima volta, alla sua poltrona. Cosi eravamo in due. E in quel momento, senza nessuna ragione al mondo, pensai al padre di Orfamay Quest, sotto il portico della sua casa, a Manhattan, Kansas, che si dirigeva quietamente alla sedia a dondolo, con la pipa fredda in mano, per guardar fuori, sul prato, e farsi una bella fumatina economica, senza tabacco ne fiammiferi e senza sporcare il tappeto del salotto buono.

Gli sistemai la sedia. All'ombra, in fondo al portico, dove le belle-di-notte erano piu folte. Poi l'aiutai a sedersi. Lui guardo su, e mi ringrazio, con la parte non paralizzata del viso. Le sue unghie graffiarono i braccioli della sedia, mentre si appoggiava allo schienale.

Le unghie graffiavano, ma non i braccioli d'una sedia. Era un suono reale. Era vicino, sull'uscio chiuso che portava dall'ambulatorio al corridoio.

Era un graffiare mite, sommesso, come d'un gattino, molto piccolo, che volesse entrare. Ma si, Marlowe, tu hai sempre voluto bene, agli animali.

Va' alla porta e lascia entrare il micio. Mi avviai. Ce la feci, coll'aiuto del lettino da visite, il grazioso lettino con tanto di anellini a un capo, e i bei lenzuoletti puliti. Il fruscio era cessato. Povero micino piccino chiuso fuori e che vuol entrare. Una lacrima mi si formo negli occhi, e corse giu, lungo le guance segnate. Mi staccai dal lettino e feci quattro metri buoni senza inciampi, fino alla porta. Il cuore mi batteva a martello. E i polmoni avevano ancora l'aria d'esser rimasti in magazzino per un paio d'anni. Trassi un profondo sospiro, afferrai la maniglia e la girai. Proprio all'ultimo minuto mi venne in mente di tirar fuori la pistola. Mi venne in mente, ma non andai piu in la. Io sono un tipo che ci tiene a portare le idee sotto la luce e esaminarle ben bene, prima di accettarle. Mi parve un'impresa troppo complicata. Preferii girare la maniglia e spalancare il battente.

Il ragazzo era aggrappato allo stipite con quattro dita, ad artiglio. Quattro dita di cera bianca. Aveva gli occhi incredibilmente fondi e sbarrati, d'un grigio azzurro pallido. Gli occhi mi guardarono, e non mi videro. I nostri visi erano a pochi centimetri di distanza. I nostri fiati si incontrarono, a mezz'aria. Il mio era affrettato, aspro, il suo era un mormorio lontano, che non ha ancora cominciato a perder colpi. Dalla bocca gli usciva sangue, a bollicine, e correva giu lungo il mento. Qualcosa mi fece abbassare lo sguardo. Il sangue gli colava lentamente, lungo una gamba dei calzoni, sopra una scarpa, e dalla scarpa fluiva sul pavimento, senza fretta. Ce n'era gia una piccola pozza.

Non riuscivo a vedere dov'erano entrati i proiettili. Il ragazzo batteva i denti, come se stesse per parlare, o cercasse di parlare. Ma fu l'unico suono che venne da lui. Aveva smesso di respirare. La mascella gli si allento. Poi comincio il rantolo. E non e affatto un rantolo, naturalmente. Non somiglia neppure lontanamente a un rantolo.

I suoi tacchi di gomma stridettero sul linoleum, fra il tappeto e la soglia.

Le dita bianche scivolarono via dallo stipite. Il corpo comincio a ripiegarsi sulle gambe. Le gambe rifiutarono di sostenerlo. Si apersero a forbice. Il torso giro, a mezz'aria, come quello d'un nuotatore in un'onda. Poi il ragazzo mi si balzo addosso.

Nello stesso istante l'altro braccio, quello che non era mai stato in vista, si alzo sopra la testa e piombo avanti, in una contrazione galvanica, dietro la quale pareva non esservi alcuna carica vitale. Un'ape mi punse, fra le scapole. Qualcosa, oltre la bottiglia d'alcool che avevo tenuto in mano fino a quel momento cadde al suolo e rotolo con un rumore secco contro la parete.

Strinsi i denti, mi piantai a gambe larghe e afferrai il ragazzo sotto le ascelle. Pesava come cinque uomini. Feci un passo indietro e cercai di reggerlo. Era come tentar di sollevare l'estremita di un albero abbattuto. Caddi col mio carico. La testa del ragazzo rimbalzo sul pavimento. Non potei farci nulla. Non era presente abbastanza parte di me, per impedirlo. Lo adagiai meglio, e mi scostai da lui. Poi mi inginocchiai ad ascoltare. Il rantolo cesso. Vi fu un lungo silenzio. Poi un sospiro soffocato, molto quieto, indolente, senza premura. Un altro silenzio. Poi un altro sospiro, ancora piu lento, languido e sereno, come il vento d'estate che passa tra gli inchini delle rose.

Qualcosa accadde, al suo viso e dietro il suo viso, la cosa indefinibile che invariabilmente accade nell'attimo, sempre meraviglioso e inscrutabile, in cui tutto si appiana, e l'uomo recede, negli anni, fino all'eta dell'innocenza. Sul viso c'era ora un'ombra segreta di divertimento, gli angoli della bocca erano piegati all'insu, un'espressione quasi da monello. E tutto questo era molto stupido, perche io sapevo anche troppo bene che Orrin P.

Quest non era mai stato un ragazzo cosi.

In lontananza ululo una sirena. Rimasi in ginocchio, ad ascoltare. La sirena ululo ancora, e se ne ando. Mi alzai e mi accostai alla finestra laterale, a guardar fuori. Davanti alla "Casa della Pace" si stava formando un altro funerale. La strada era di nuovo affollata di macchine. Varie persone risalivano lentamente il viale, tra i cespi di rose. Avanzavano adagio; gli uomini col cappello in mano molto prima di arrivare al minuscolo portico in stile coloniale.

Lasciai ricadere la tendina, andai a raccogliere la bottiglia di alcool etilico, la ripulii col fazzoletto e la misi da parte. L'alcool non mi interessava piu ora. Mi chinai di nuovo, e la puntura d'ape, tra le scapole mi ricordo che c'era qualcos'altro da raccogliere. Un oggetto con un'impugnatura cilindrica di legno bianco giaceva contro il bordo della parete. Uno scalpello da ghiaccio con la lama accorciata, lunga non piu di sei centimetri. Lo tenni in controluce e osservai la punta, acuminata come un ago. Forse c'era una macchiolina del mio sangue, su quella punta. Vi passai sopra un dito, gentilmente. Niente sangue. La punta era, molto pungente.

Lavorai ancora un po' di fazzoletto, poi mi chinai e deposi lo scalpello sul palmo della mano destra del ragazzo, bianca e cerea contro la lana scura e opaca del tappeto. Ma aveva un'aria voluta, fittizia. Scossi il braccio quanto bastava per far rotolare lo scalpello giu dalla mano, sul pavimento.

Pensai di perquisire le tasche, ma qualcuno che aveva meno scrupoli di me doveva averlo gia fatto.

Preso da un panico improvviso perquisii le mie tasche, invece. Non mancava nulla. Anche la Luger, sotto il braccio, mi era stata lasciata. La trassi dalla fondina e la fiutai. Non aveva sparato. Una cosa che avrei dovuto sapere senza guardare. Non si va molto in giro, quando si e stati colpiti da una Luger.

Scavalcai la pozzanghera rosso-cupa sulla soglia e guardai nel vestibolo.

La casa era ancora muta, in attesa. Le tracce di sangue mi condussero, dall'altro capo del corridoio, a una specie di salottino maschile. C'erano un divano, una scrivania, vari libri e giornali di medicina, un portacenere con alcuni grossi mozziconi ovali. Un luccichio metallico, accanto a una gamba del divano, si rivelo per un bossolo d'automatica, calibro trentadue. Ne trovai un altro sotto la scrivania. Li raccolsi e me li ficcai in tasca.

Salii al primo piano. C'erano due camere da letto, entrambe in uso: da una eran stati portati via tutti gli indumenti, con molta cura. In un portacenere trovai altri mozziconi ovali del dottor Lagardie. La seconda camera conteneva il magro guardaroba di Orrin Quest: il completo di ricambio e un soprabito appesi ordinatamente nell'armadio a muro; le camicie, i calzini e l'altra biancheria riposti, con altrettanto ordine, nei tiretti di un cassettone. Sotto le camicie, trovai una Leica, con un obiettivo F. 2.

Lasciai tutto come stava e tornai a pianterreno, nella stanza dove giaceva il morto, indifferente a queste quisquilie. Ripulii qualche altra maniglia, per puro scrupolo, esitai, davanti al telefono della sala d'aspetto e finii col non toccarlo. Il fatto ch'io fossi ancora in circolazione indicava, con notevole chiarezza, che il dottor Lagardie non aveva ucciso nessuno.

Alcune persone stavano ancora dirigendosi verso il portico assurdamente piccolo della cappella funeraria, all'altro lato della strada. Nell'interno un organo gemeva.

Girai intorno all'angolo della casa, montai in macchina e partii. Guidai lentamente, respirando con tutta la capacita dei miei polmoni, ma, a quanto pareva, non riuscivo a immagazzinare abbastanza ossigeno.

Bay City termina a circa sei chilometri dall'oceano. Mi fermai all'ultimo bar. Era giunta l'ora di fare un'altra delle mie telefonatine anonime. Venite a prendervi il cadavere, ragazzi. Chi sono? Sono un giovanotto fortunato, che continua a trovar morti al posto vostro. E sono modesto, anche. Non voglio nemmeno che si faccia il mio nome.

Guardai nell'interno del bar-farmacia, attraverso la vetrina. Una ragazza con gli occhiali obliqui all'orientale, stava leggendo una rivista. Somigliava un po' a Orfamay Quest. Sentii qualcosa stringermi la gola.

Innestai la marcia e proseguii. La ragazza aveva il diritto di saperlo per prima, legge o non legge. Tanto, ormai avevo passato da un pezzo i limiti della legge.

Загрузка...