CAPITOLO XXXII

Dopo che mi fui raso ed ebbi fatto il bis della prima colazione cominciai a sentirmi un po' meno simile alla cassetta di trucioli dove la gatta aveva fatto i gattini. Andai in ufficio, apersi la porta e respirai l'aria viziata e l'odore della polvere. Apersi la finestra e mi riempii i polmoni dell'odore di fritto del caffe vicino. Mi sedetti alla scrivania e sentii il ruvido della polvere sotto le dita. Mi appoggiai allo schienale della poltroncina e mi guardai intorno.

– Salve – dissi.

Parlavo ai mobili dell'ufficio, ai tre stipi verdi d'archivio, al tappeto liso, alla poltrona per i clienti, di fronte a me, alla boccia del lampadario, sul soffitto, dove giacevano tre falene morte, da almeno sei mesi. Parlavo al vetro smerigliato, ai serramenti tetri, allo stiloforo, sulla scrivania, allo stanco, stanchissimo telefono. Parlavo alle scaglie dell'alligatore, un alligatore che si chiamava Marlowe, investigatore privato della nostra piccola comunita operosa. Non un cervellone, ma ragionevole in fatto di prezzi.

Cominciava a buon mercato e finiva piu a buon mercato ancora.

Affondai una mano nell'ultimo cassetto e posai la bottiglia di whisky Old Forrester sul piano della scrivania. Era ancora piena per un terzo. Old Forrester. Ma di un po', chi te l'ha data, buon uomo! E roba di prima qualita. Roba di classe. Troppo per te. Dev'essere stato un cliente. Ho avuto un cliente, una volta.

E cosi mi misi a pensare alla ragazzina, e forse ho i pensieri piu magnetici di quanto non creda. Il telefono squillo, e la strana vocetta precisa mi apostrofo esattamente nel tono della prima volta.

– Sono in quella cabina telefonica – disse. – Se siete solo vengo su.

– Accomodatevi.

– Immagino che sarete furioso con me.

– Non sono furioso con nessuno. Sono solo stanco.

– Oh, si che lo siete – affermo la vocina compunta. – Ma vengo su ugualmente. Non me ne importa, se siete in collera.

E attacco il ricevitore. Tolsi il tappo alla bottiglia di Old Forrester e annusai il liquore. Rabbrividii. Questo defini la questione. Quando non potevo sentir l'odore del whisky senza rabbrividire, bere era fuori questione.

Riposi la bottiglia e andai a girare la chiave della porta di comunicazione. Poi la sentii arrivare, frettolosa, lungo il corridoio. Avrei riconosciuto dovunque quei passetti brevi, contenuti. Apersi la porta e lei entro e mi lancio un'occhiata timida.

Era sparito tutto. Gli occhiali obliqui, la nuova pettinatura, il cappellino alla moda, il profumo e l'aria d'esser tirata a pomice. I gioiellini falsi, il rossetto sulle labbra, tutto. Non c'era piu nulla. Era tornata esattamente al punto di partenza. Lo stesso abito fatto marrone, la stessa borsa quadra, gli stessi occhiali senza montatura, lo stesso sorrisino manierato, gretto, provinciale.

– Sono io – disse. – Torno a casa.

Mi segui, nel mio pensatoio privato, si sedette con affettato decoro; io mi sedetti come capitava e la fissai.

– Tornate a Manhattan – dissi. – Mi meraviglio che ve l'abbiano permesso.

– Puo darsi che debba venire qui ancora.

– Potete affrontare la spesa?

Diede una risatina breve, vagamente imbarazzata.

– Non mi costera nulla. – Alzo una mano e sfioro gli occhiali senza montatura. – Questi mi sembrano estranei ora – mi confido. – Gli altri mi piacevano. Ma il dottor Zugsmith non li approverebbe, assolutamente.

– Depose la borsa sulla scrivania e traccio una riga lungo il piano di vetro con la punta d'un dito. Anche questo, era come la prima volta.

– Non riesco a ricordare se vi ho reso i vostri venti dollari o no – dissi.

– Ce li siamo passati, avanti e indietro, tante volte che ho perso il conto.

– Oh, me li avete resi. Grazie.

– Sicura?

– Non mi sbaglio mai, coi soldi. State bene? Non vi hanno picchiato?

– Alla polizia? No. E mi hanno trattato con una durezza infinitamente inferiore al normale.

Lei mostro un'innocente sorpresa. Poi le brillarono gli occhi.

– Dovete essere terribilmente coraggioso.

– E tutta questione di fortuna – affermai.

Presi una matita e ne tastai la punta. Era molto acuminata, ottima per chiunque desiderasse scrivere qualcosa. Io non desideravo scrivere niente.

Allungai il braccio, feci passare la matita nella cinghia della borsa della ragazza e la tirai verso di me.

– Non toccate la mia borsetta – scatto lei, e fece per afferrarla.

Sorrisi e misi l'oggetto fuori dalla sua portata.

– Va bene. Ma e una borsettina cosi carina. Vi somiglia tanto.

Lei si appoggio allo schienale della poltrona. C'era una luce vaga di preoccupazione, nei suoi occhi, ma le labbra sorridevano.

– Davvero mi giudicate carina… Philip? Sono un tipo cosi comune…

– Non direi.

– Davvero?

– Perdiana, no. Per me, siete una delle ragazze piu straordinarie che abbia mai conosciuto.

Afferrai la borsetta per la cinghia e l'appesi a un angolo della scrivania.

Orfamay vi incollo gli occhi sopra, immediatamente, ma si umetto le labbra e continuo a sorridermi.

– Scommetto che avete conosciuto una terribile quantita di ragazze.

Perche… – abbasso gli occhi e di nuovo traccio una riga sulla scrivania.

– Come mai non vi siete sposato?

Pensai a tutte le risposte che le potevo dare. Pensai a tutte le donne che mi erano piaciute tanto da farmi desiderare il matrimonio. No, non a tutte.

Ma ad alcune di loro.

– Credo di sapere la risposta – dichiarai. – Ma a voi parra stupida e sdolcinata. Le donne che forse sposerei volentieri… be' non ho quel che ci vuole, per loro. E le altre non e necessario sposarle. E sufficiente sedurle… sempre che non vi battano in velocita e non siano loro a sedurre voi.

Arrossi fino alle radici dei capelli color topo.

– Siete disgustoso; quando parlate cosi.

– E questo vale anche per alcune ragazze per bene – continuai. – Non quel che avete detto voi, quel che ho detto io. Nemmeno voi sareste stata una rocca inespugnabile.

– Non parlate cosi, vi prego!

– Be', sareste stata proprio cosi difficile?

Lei fisso il piano della scrivania.

– Vorrei che mi diceste che cosa e accaduto a Orrin – disse lentamente. – Sono tutta confusa.

– Vi avevo detto che probabilmente aveva perso la testa. La prima volta che siete venuta. Ricordate?

Lei accenno di si, ancora accesa in volto.

– Aveva avuto una vita familiare poco normale – continuai.

– Era un ragazzo pieno di inibizioni, e aveva un concetto esagerato della propria importanza. Saltava agli occhi, nelle fotografie che mi avete dato. Non voglio farvi una conferenza di psicologia, ma Orrin era il tipo da perdere la trebisonda completamente, se appena avesse fatto un passo fuori binario. Nella vostra famiglia, poi, tutti sono divorati da una spaventevole sete di danaro… tutti, meno una.

Mi sorrideva ora. Se pensava che intendessi parlare di lei non avevo niente in contrario.

– Vorrei farvi una sola domanda. Vostro padre era gia stato sposato in precedenza?

Accenno di si.

– Questo aiuta a capire molte cose. Leila ha avuto un'altra madre. Raccontatemi qualcosa di piu. Dopo tutto ho fatto una bella quantita di lavoro, per voi, per il modico prezzo di zero dollari netti.

– Siete stato pagato – replico aspramente. – Da Leila. E non vi aspettate che la chiami Mavis Weld. Non lo faro mai.

– Non sapevate che sarei stato pagato.

– Ebbene… – vi fu una lunga pausa durante la quale i suoi occhi andarono ancora a posarsi sulla borsetta. – Ma siete stato pagato.

– E va be', passiamoci sopra. Perche non avete voluto dirmi chi era?

– Avevo vergogna. Mamma ed io, tutt'e due ci vergognavamo.

– Orrin no. La cosa gli piaceva immensamente.

– Orrin? – Vi fu un breve silenzio educato, durante il quale lei torno a guardare la borsetta. Stava cominciando a incuriosirmi, quella borsetta. – Ma Orrin abitava qui da un certo tempo, e immagino che ci si fosse abituato.

– Lavorare nel cinema non e una cosa cosi tremenda, ve l'assicuro.

– Non si trattava solo di questo – sbotto, poi affondo un dente nel labbro inferiore e negli occhi le brillo una luce improvvisa che poi si spense, molto lentamente. Io mi limitai ad avvicinare un altro fiammifero alla pipa.

Ero troppo stanco, per mostrare le mie emozioni, se pure ne avevo.

– Lo so. O, se non altro, l'avevo piu o meno indovinato. Come ha fatto Orrin a scoprire una certa cosa sul conto di Steelgrave? Una cosa che la polizia non era riuscita a scoprire?

– Non… non saprei – fece lei, lentamente, facendosi strada fra le parole con cautela, come un gatto che cammina su uno steccato. – Non potrebbe essere stato quel dottore?

– Oh, sicuro, – dissi con un sorriso largo, affettuoso. – Lui e Orrin avevan fatto amicizia per una ragione o per l'altra. Avevano un interesse comune per gli strumenti acuminati, forse.

Lei si appoggio all'indietro, sulla poltrona. Il suo visetto era angoloso e tirato, ora. Aveva un'espressione guardinga.

– Ecco, ora siete di nuovo odioso – disse. – Ad ogni pie sospinto vi sentite in dovere di comportarvi cosi.

– Che peccato! – esclamai. – E dire che sarei una creatura adorabile, se solo fossi capace di lasciarmi stare. Bella borsetta.

Allungai la mano, presi la borsa e feci scattare la cerniera. La ragazza balzo in piedi e fece per agguantarla.

– Lasciate stare la mia borsetta!

La guardai dritto negli occhi.

– Volete tornare a casa, a Manhattan, no? Quest'oggi? Avete il biglietto e tutto quanto?

Lei mosse le labbra, lentamente, e torno a sedersi.

– D'accordo – continuai. – Io non ve l'impedisco. Sono solo curioso di sapere quanto siete riuscita a guadagnare, in questa faccenda.

Lei si mise a piangere. Apersi la borsa e cominciai a frugarvi dentro.

Niente, finche non arrivai alla tasca posteriore. Apersi la cerniera lampo e affondai le dita nello scomparto. C'era un pacchetto di banconote nuove, la dentro. Le tirai fuori e le feci scorrere tra le dita. Dieci fogli da cento. Tutti nuovi. Tutti puliti. Mille dollari netti. Una sommetta simpatica, da portare in viaggio.

Mi appoggiai all'indietro e battei la costo del pacchetto sull'orlo della scrivania. La ragazza non piangeva piu ora, e mi fissava con gli occhi umidi. Trassi un fazzoletto dalla sua borsa e glielo gettai. Lei si asciugo gli occhi. Di tanto in tanto emetteva un grazioso singhiozzo implorante.

– Me l'ha dato Leila, quel danaro – disse con voce soffocata.

– Di che dimensioni era il torchio che avete usato?

La ragazza spalanco la bocca, una lacrima le corse giu per la guancia e vi cadde dentro.

– Lasciate perdere – dissi. Gettai il pacchetto di banconote nella borsetta, feci scattare di nuovo la cerniera e spinsi la borsa verso di lei. – Immagino che voi e Orrin apparteniate a quella categoria di persone che riesce sempre a convincersi che tutto quello che fa e ben fatto. Lui ha potuto ricattare sua sorella, e quando un paio di piccoli malviventi imbroglioni han scoperto il suo gioco, e l'hanno soppiantato, non si e peritato di prenderli a tradimento e di mandarli al Creatore con uno scalpello da ghiaccio nella nuca. Probabilmente questo non gli ha nemmeno guastato il sonno. E voi siete capace delle stesse prodezze. Quei soldi non ve li ha dati Leila.

Ve li ha dati Steelgrave. Perche?

– Siete un essere lurido, immondo! – scatto la ragazza. – Siete un miserabile! Come vi permettete di dirmi certe cose?

– Chi ha soffiato alla polizia che Lagardie conosceva Clausen? I questurini han creduto che fossi stato io. Ma io non avevo aperto bocca. Quindi siete stata voi. Perche? Per scoprire il gioco di vostro fratello, che non voleva darvi la vostra parte del malloppo… perche, proprio allora, aveva perso la sua arma segreta e aveva dovuto correre a nascondersi. Mi piacerebbe leggere qualcuna delle lettere che scriveva a casa. Dovevano essere ben succose! Mi par di vederlo, sulla breccia, che spia sua sorella, e le fa la posta, aspettando che si metta in posizione favorevole per la sua Leica, mentre il buon Lagardie, nel retroscena, se ne sta placido in attesa della sua parte di bottino. Perche mi avete assunto?

– Non sapevo niente – ribatte la ragazza, con calma. Si asciugo gli occhi, ripose il fazzoletto nella borsa e si preparo per andarsene. – Orrin non aveva mai fatto nomi. Non sapevo nemmeno che avesse perso le fotografie. Pero sapevo che le aveva fatte, e che valevano molto denaro. Sono venuta qui per assicurarmi.

– Assicurarvi di che?

– Che Orrin mi trattasse equamente. A volte era terribile. Avrebbe potuto tenere tutto il danaro per se.

– Perche vi ha telefonato, l'altro ieri sera?

– Aveva paura. Il dottor Lagardie non era piu contento di lui. Aveva perso le fotografie. Qualcuno le aveva portate via. Orrin non sapeva chi.

Ma aveva molta paura.

– Le avevo io – dissi. – E le ho ancora. Sono in quella cassaforte.

Lei si volto, molto lentamente, a guardare la cassaforte. Poi si passo un dito su un labbro, con aria perplessa e si volto di nuovo.

– Non vi credo – dichiaro, e i suoi occhi mi fissavano, come quelli d'un gatto che tien d'occhio la tana d'un topo.

– Che ne dite di fare a mezzo con me, quei mille dollari? Le foto restano a voi.

Lei ci penso sopra.

– Non potrei certo darvi tanto danaro per una cosa che non vi appartiene – affermo e sorrise. – Vi prego, datemi quelle foto. Vi prego, Philip.

Leila deve riaverle.

– Per quanto "grano"?

Lei aggrotto la fronte, con aria addolorata.

– Leila e mia cliente, ora – soggiunsi. – Ma farle il doppio gioco potrebbe non essere un cattivo affare… se il prezzo e conveniente.

– Non credo che le abbiate voi.

– E va bene.

Mi alzai e andai alla cassaforte. Un istante dopo ero di ritorno con la busta. Riversai le copie e la negativa sul piano della scrivania… dalla mia parte della scrivania. Lei le guardo e allungo una mano.

Riunii le foto, le pareggiai e ne tenni una in modo che potesse vederla.

Quando torno ad allungare una mano mi ritrassi.

– Ma non ci vedo, cosi da lontano! – protesto.

– Avvicinarsi costa danaro.

– Non avrei mai pensato che foste un ladro – dichiaro lei, con dignita.

Non feci commenti e riaccesi la pipa.

– Potrei costringervi a consegnarle alla polizia.

– Potete provare.

A un tratto prese a parlare molto rapidamente.

– Non posso darvi questo danaro, davvero, non posso. Noi… ecco, mamma e io abbiamo ancora molti debiti, per via di papa, e c'e un'ipoteca sulla casa e…

– Che cosa avete venduto a Steelgrave per mille dollari?

Le cadde la mascella, e per un momento fu brutta. Poi chiuse la bocca e la strinse forte. Era una faccetta dura, chiusa e crudele, quella che mi stava davanti.

– Avevate una cosa sola da vendere – continuai. – L'indirizzo di Orrin. Per Steelgrave quest'informazione valeva mille dollari. Comodamente.

Era una questione di convalidare una certa prova. Voi non potreste capire.

Steelgrave e andato laggiu e l'ha ucciso, vostro fratello. E vi ha pagato danaro sonante per l'indirizzo.

– Glie l'ha dato Leila l'indirizzo – ribatte la ragazza, con voce lontana.

– Leila mi ha detto di averglielo dato – ammisi. – Se fosse necessario Leila lo direbbe al mondo, di averglielo dato. Esattamente come griderebbe al mondo di aver ucciso Steelgrave, se questa fosse l'unica via d'uscita.

Leila e una tipica ragazza di Hollywood, piuttosto facile e con una moralita molto dubbia. Ma quando entrano in gioco il coraggio e la generosita, non e seconda a nessuno. Non e un tipo da scalpello da ghiaccio. E nemmeno un tipo da quattrini insanguinati.

Il colore le si ritiro tutto dal viso. Rimase pallida come il ghiaccio. La bocca le tremo, e lei la strinse forte, in un piccolo nodo duro. Respinse la poltrona e si chino un poco in avanti, per alzarsi.

– Quattrini insanguinati – ripetei quietamente. – Vostro fratello. E voi avete sistemato le cose in modo che potessero accopparlo. Mille dollari tutti pieni di sangue. Spero che vi diano tanta felicita.

La ragazza si alzo, e fece un paio di passi indietro, poi, a un tratto, diede in una risatina infantile.

– E chi puo provarlo? – chiese, quasi strillando. – Chi e vivo per provarlo? Voi? Chi siete voi? Un avvocatuccio da due soldi, una nullita!

– Scoppio in una risata alta, stridula. – Ma se bastano venti dollari, per comprarvi!

Avevo ancora in mano il mazzetto di fotografie. Accesi un fiammifero, lasciai cadere la negativa nel portacenere e la guardai consumarsi, in una vampata.

Lei si fermo di botto, agghiacciata dall'orrore. Cominciai a strappare le fotografie in strisce sottili. E sorrisi alla signorina Quest.

– Un awocatuccio da due soldi – ripetei. – Be', che cosa vi aspettavate? Non ho ne fratelli ne sorelle da vendere. Cosi vendo i miei clienti.

Lei rimase immobile, rigida, a fissarmi con odio. Terminai di stracciare le foto e diedi fuoco ai frammenti, nel portacenere.

– Una cosa sola mi dispiace – dichiarai. – Non assistere al vostro incontro con la cara vecchia mamma, laggiu a Manhattan, Kansas. Non vedervi accapigliare per decidere in che proporzioni dividervi quei mille dollari. Senza dubbio sara uno spettacolo degno di nota.

Mossi i pezzetti di carta col fondo d'una matita, perche continuassero a bruciare. La ragazza si avvicino lentamente, passo passo alla scrivania, con gli occhi fissi sul mucchietto di braci fumanti.

– Potrei dirlo alla polizia – mormoro. – Potrei dire moltissime cose.

Senz'altro mi crederebbero.

– Io potrei dire chi ha ucciso Steelgrave – affermai. – Potrei, perche so chi non l'ha ucciso. Forse mi crederebbero.

La testa minuta s'alzo di scatto. La luce si riflette in un lampo sugli occhiali senza montatura. Non c'erano occhi, dietro le lenti.

– Non vi preoccupate – dissi. – Non mi costerebbe abbastanza. E costerebbe troppo a qualcun altro.

Il telefono squillo, e lei trasali violentemente. Mi voltai, portai il ricevitore all'orecchio, e dissi:

– Pronto.

– Amigo, state bene?

Vi fu come un rumore di fondo. Mi voltai e vidi la porta chiudersi. Ero solo, in ufficio.

– State bene, amigo?

– Sono stanco. Sono stato in piedi tutta notte. Senza contare che…

– La piccola vi ha telefonato?

– La sorellina? E stata qui fino a un istante fa. Ora e in viaggio per Manhattan col malloppo.

– Il malloppo?

– La mancia che le ha dato Steelgrave per avergli permesso di assassinarle il fratello.

Vi fu una pausa di silenzio, poi Dolores disse, gravemente:

– Non potete sapere una cosa simile, amigo.

– Lo so, come so che sono seduto alla scrivania, col telefono in mano.

Come so che sto ascoltando la vostra voce. E, non con la stessa certezza matematica, ma con un buon margine di certezza, come so chi ha ucciso Steelgrave.

– Siete un po' sciocco a dirmi tutto questo, amigo. Non sono perfetta.

Non dovreste fidarvi troppo di me.

– Ogni tanto commetto qualche errore, ma questa volta non e il caso.

Ho bruciato tutte le fotografie. Avevo cercato di venderle a Orfamay, ma non mi ha offerto abbastanza.

– Volete scherzare, amigo.

Lungo il filo arrivo la sua risata argentina, tintinnante.

– Vi farebbe piacere condurmi a colazione, amigo?

– Puo darsi. Siete a casa vostra?

– Si.

– Vi raggiungero tra poco.

– Sara un piacere immenso, per me. – Deposi il ricevitore.


La commedia era terminata. Ero seduto in un teatro vuoto. Il sipario era calato su di esso, un po' indistinta potevo vedere riproiettarsi l'azione scenica. Ma gia alcuni attori stavano diventando vaghi e irreali. La sorellina, soprattutto. Di li a un paio di giorni non avrei ricordato piu che faccia aveva. Perche, in un certo senso era davvero una creatura irreale. L'immaginai che se ne tornava a Manhattan, Kansas dalla cara vecchia mamma con i suoi mille bei dollarini, pingui croccanti e nuovi nella borsetta. Erano state assassinate alcune persone, perche lei potesse averli, ma ero certo che quel pensiero non l'avrebbe disturbata per molto tempo. L'immaginai la mattina, che se ne andava in ufficio allo studio del… come si chiamava, quel tizio?

Ah, si, dottor Zugsmith… e spolverava la scrivania del principale, prima che arrivasse, e riordinava le riviste in sala d'aspetto. Avrebbe portato gli occhiali senza montatura, e un abito liscissimo; sul viso non avrebbe avuto un'ombra di trucco e il suo contegno coi pazienti sarebbe stato d'una correttezza estrema.

– Il dottor Zugsmith puo ricevervi, ora, signora Chissachi.

Avrebbe tenuto la porta aperta, con un sorrisetto, la signora Chissachi le sarebbe passata davanti e il dottor Zugsmith in camice bianco sarebbe stato seduto, dietro la sua scrivania, con un'aria incredibilmente dottorale e lo stetoscopio appeso al collo. Di fronte a lui ci sarebbe stato uno schedario di cartelle anamnesiche, e il taccuino per le annotazioni e il ricettario, sarebbero stati ordinatamente disposti a portata di mano. Non c'e nulla che il dottor Zugsmith non sappia. Non lo si puo ingannare. Ha tutto sulla punta delle dita. Quando guarda un paziente conosce gia tutte le risposte alle domande che gli rivolgera, per pura questione di forma.

E quando il Signor Dottore guardava la sua ricevitrice, la signorina Orfamay Quest, vedeva una giovane beneducata e tranquilla, vestita con la proprieta consona allo studio di un medico. Niente unghie scarlatte, niente trucco violento, niente che potesse urtare i pazienti all'antica. Una ricevitrice ideale, la signorina Quest.

Quando gli capitava di pensare a lei il dottor Zugsmith ci pensava con intima soddisfazione. Era stato lui a farne quello che era. Era proprio quel che il dottore aveva ordinato.

Molto probabilmente non aveva ancora tentato di portarla a letto. Forse, nelle cittadine, queste cose non si fanno. Ah ah! Io sono cresciuto in una cittadina.

Cambiai posizione, guardai l'orologio e tirai fuori la bottiglia di Old Forrester dal cassetto. La fiutai. Aveva un buon odore. Me ne versai una dose robusta e alzai il bicchiere in controluce.

– Ebbene, dottor Zugsmith – dissi ad alta voce, proprio come se lui fosse stato seduto all'altro capo della scrivania, con un bicchiere in mano.

– Io non vi conosco molto bene, e voi non mi conoscete affatto. Di solito io non credo che serva dar consigli agli estranei, ma ho fatto un breve corso intensivo sul tema Orfamay Quest e contravvengo alla regola. Se mai quella ragazzina vuole qualcosa, una cosa qualsiasi, da voi, dategliela, e alla svelta. Non menate il can per l'aia, non vi lagnate della tassa sul reddito e delle spese generali. Sfoderate il vostro piu bel sorriso e sganciate. Non vi impegolate in una discussione intorno a chi ha diritto di possedere questo o quello. Tenete di buon umore la ragazzina: questo e l'importante.

Buona fortuna a voi, dottore, e non lasciate in giro bisturi in ufficio.

Bevvi meta del mio cicchetto e aspettai che mi riscaldasse. Quando fece effetto bevvi l'altra meta e riposi la bottiglia.

Vuotai la pipa dalla cenere ormai fredda e tornai a riempirla prendendo il tabacco da un recipiente di cuoio che mi era stato regalato per Natale da un ammiratore. Un ammiratore che, per strana coincidenza, portava il mio stesso nome e cognome.

Quando ebbi riempito la pipa, l'accesi con cura, prendendomela comoda, poi uscii e m'incamminai lungo il corridoio vispo come un inglese di ritorno da una partita di caccia alla tigre.

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