CAPITOLO XXII

Mi fermai sulla porta dell'ufficio con la chiave in mano. Poi avanzai lentamente, verso l'altra porta, quella che non e mai chiusa a chiave e rimasi immobile, in ascolto. Forse lei era gia la, ad aspettarmi, con gli occhi lustri dietro le lenti oblique, e la piccola bocca umida che voleva essere baciata.

Avrei dovuto dirle delle cose dure, piu dure di quanto avesse mai sognato, e poi, dopo un certo tempo lei se ne sarebbe andata e non l'avrei piu rivista.

Non udii nulla. Tornai sui miei passi, aprii, raccolsi la posta e la portai alla scrivania. Non c'era nulla che mi facesse sentire piu grande e piu bello.

La piantai dov'era, e andai a girare la chiave nella serratura dell'altro uscio.

Dopo un lungo istante aprii e guardai fuori. Vuoto e silenzio. Ai miei piedi giaceva un pezzo di carta ripiegato. L'avevano fatto passare sotto la porta.

Lo raccolsi e lo spiegai.

Vi prego di telefonarmi immediatamente in albergo. E urgentissimo.

Devo vedervi.

Era firmato D. Chiamai il numero del Chateau Bercy e chiesi della signorina Gonzales. Chi la desidera, prego? Un momento, per cortesia, signor Marlowe. Buzz, buzz. Buzz, buzz.

– Pronto?

– L'accento esotico e piu forte del solito, quest'oggi.

– Ah, siete voi, amigo. Vi ho aspettato tanto, nel vostro curioso ufficetto. Potete venire qui, a parlare con me?

– Impossibile, aspetto una visita.

– Bene, posso venire io da voi?

– Di che si tratta?

– Niente che si possa discutere per telefono, amigo.

– Venite pure.

Rimasi seduto al mio posto, aspettando che il telefono suonasse. Ma non suono. Guardai fuori dalla finestra. La folla ribolliva, sul boulevard, la cucina del caffe vicino effondeva l'odore del "Piatto azzurro speciale" attraverso le bocchette del ventilatore. Il tempo passava, ed io rimanevo seduto, curvo sulla scrivania, a fissare l'intonaco giallo-senape della parete di fronte, e vedendovi sopra la figura indistinta di un ragazzo morente, con uno scalpello da ghiaccio in mano e sentendo la punta della sua arma bruciarmi tra le scapole. E magnifico, quello che Hollywood sa fare d'una nullita. Fa una radiosa immagine di bellezza femminile di una donnetta trasandata che dovrebbe starsene a stirare le camicie di un camionista; fa un campione di virilita, dagli occhi splendenti e dal sorriso luminoso, traboccante di sex appeal, di un ragazzotto troppo cresciuto che era destinato ad andarsene al lavoro col calderino della colazione. Di una chellerina del Texas, dotata della profondita culturale d'una protagonista di fumetti umoristici fa una cortigiana internazionale, sposata sei volte con sei milionari e tanto decadente e blase che la sua idea di un brivido consiste nel sedurre il facchino che le trasporta i mobili con la cannottiera intrisa di sudore.

E, per via mediata, Hollywood puo persino prendere un santificetur di provincia, come Orrin Quest e farne, in pochi mesi, un asso dello scalpello da ghiaccio, elevando la sua meschina malvagita al sadismo classico del pluriomicida.

Le ci vollero poco piu di dieci minuti per arrivare da me. Sentii la porta aprirsi e chiudersi, andai nella sala d'aspetto e la Gardenia d'America era la. Fu come ricevere un pugno in mezzo agli occhi. Quanto ai suoi occhi, erano profondi, neri e senza sorriso.

Era tutta in nero, come la sera prima, ma in abito a giacca, questa volta, con un ampio cappello di paglia nera inclinato audacemente su un occhio.

Dal colletto di una blusa di seta bianca rovesciato sopra il bavero della giacca, spuntava il collo agile e bruno. La bocca era rossa come una macchina dei pompieri nuova.

– Vi ho aspettato per molto tempo – si lagno. – Non ho ancora fatto colazione.

– Io ho terminato ora – replicai. – Cianuro. Delizioso. Ho appena smesso di esser blu.

– Non sono in vena di divertimento questa mattina, amigo.

– Non e necessario che mi divertiate. Io mi diverto da me. Recito da solo una scena a due che mi manda in visibilio, in platea. Su, andiamo di la.

Passammo nel mio pensatoio privato e ci sedemmo.

– Vi vestite sempre di nero? – domandai.

– Ma si… E piu eccitante, quando mi spoglio.

– Dovete proprio parlare come una sgualdrina?

– Voi sapete ben poco delle sgualdrine, amigo. Sono sempre estremamente rispettabili. Eccetto quelle di poco prezzo, naturalmente.

– Gia – borbottai – grazie per l'informazione. Quale sarebbe l'affare urgente di cui dobbiamo parlare? Venire a letto con voi non e urgente.

Posso farlo quando mi pare.

– Siete di un umore perfido.

– D'accordo, sono di un umore perfido.

Trasse dalla borsetta una delle sue lunghe sigarette brune e l'inseri con cura nelle mollette d'oro. Aspetto che gliel'accendessi. Io non mi mossi e lei fini per arrangiarsi da sola, con un accendisigari d'oro. Poi reggendo il suo aggeggio nella mano guantata mi fisso con gli occhi neri, senza fondo, che non ridevano piu.

– Vi piacerebbe venire a letto con me?

– Piacerebbe a tutti, o quasi. Ma lasciamo stare il sesso, per ora.

– Io non tiro una linea molto definita tra il sesso e gli affari – dichiaro tranquillamente. – E voi non potete umiliarmi. Il sesso e una rete che mi serve per catturare gli sciocchi. Alcuni sono utili e generosi. Di tanto in tanto ce n'e uno pericoloso.

E fece una pausa, con aria pensosa. Io dissi:

– Se aspettate che mi lasci sfuggire una frase rivelatrice dalla quale possiate capire se so chi e una certa persona… d'accordo, so chi e.

– E lo potete provare?

– Probabilmente no. I poliziotti non ci sono riusciti.

– I poliziotti non sempre dicono tutto quello che sanno – fece lei, in tono sprezzante. – Non sempre provano tutto quello che potrebbero provare. Immagino sappiate che e stato in prigione dieci giorni, nel febbraio scorso.

– Si.

– Non vi e parso strano che non si sia fatto rilasciare dietro cauzione?

– Non so di che cosa l'avessero accusato. Se era trattenuto come testimone indispensabile…

– Non credete che avrebbe potuto far commutare l'accusa in un'altra, che permettesse la cauzione… se proprio avesse voluto?

– Non ci ho pensato molto – mentii. – Non lo conosco.

– Non gli avete mai parlato? – mi domando pigramente, troppo pigramente.

Non risposi.

Scoppio in una breve risata.

– Ieri sera, amigo, davanti alla casa di Mavis Weld. Io ero seduta in macchina dall'altra parte della strada.

– Devo essermi imbattuto in lui senza rendermene conto. Era quello, il nostro uomo?

– Non me la date a bere.

– E va bene. La signorina Weld mi ha trattato piuttosto rudemente. Me ne sono andato fuori dai gangheri. Sulla soglia incontro un estraneo con la sua chiave di casa. Gliela strappo di mano e la butto dietro un cespuglio.

Dopo di che mi scuso e gliela vado a riprendere. Mi e parso un ometto simpatico.

– Molto simpatico – cantileno lei. – Una volta era il mio amico.

Feci un versaccio.

– Per strano che vi possa sembrare la vostra vita amorosa non mi interessa, signorina Gonzales. Ritengo che copra un campo vastissimo… da Stein a Steelgrave.

– Stein? – chiese a mezza voce. – Chi e Stein?

– Un gangster ricercato di Cleveland, che si e fatto imbottire di piombo di fronte alla vostra casa-albergo nel febbraio scorso. Abitava li, in un appartamentino. Pensavo che poteste averlo incontrato.

Lei diede una breve risata argentina.

– Esistono anche degli uomini che non conosco, amigo. Persino al Chateau Bercy.

– La stampa dice che Stein e stato ucciso a due isolati di distanza – proseguii. – Io preferisco pensare che il fatto sia accaduto proprio davanti a casa vostra. E voi eravate alla finestra e avete visto tutto. Avete visto l'assassino scappare… e proprio sotto un lampione ecco che si volta, la luce gli batte in faccia, e guarda un po', proprio il vecchio Steelgrave. Voi l'avete riconosciuto per via del naso di gomma e perche portava il suo inseparabile cappello a cilindro coi colombi sopra.

Lei non rise.

– Se preferite cosi… – mormoro, come se facesse le fusa.

– Potremmo far piu quattrini, in questo caso.

– Ma Steelgrave era in prigione – sorrise la signorina Gonzales. – E se anche non fosse stato in prigione… se anche, ad esempio, io fossi per caso in amichevoli rapporti con un certo dottor Chalmers, che in quell'epoca era medico del carcere della contea e se questo dottore m'avesse raccontato, in un momento d'intimita, di aver dato a Steelgrave un lasciapassare per andare dal dentista… il giorno stesso dell'uccisione di Stein… con un guardiano, naturalmente, ma il guardiano era una persona ragionevole… anche se, putacaso, tutto questo fosse vero, non sarebbe molto puerile servirsi dell'informazione per ricattare Steelgrave?

– Detesto fare il grande – affermai. – Ma io non ho paura ne di Steelgrave ne di dodici come lui.

– Ma io si, amigo. Un testimone oculare a un assassinio tra gangsters non si trova in una posizione molto sicura in questo paese. No, non ricatteremo Steelgrave. E non diremo niente a proposito del signor Stein, che forse ho conosciuto e forse no. E sufficiente il fatto che Mavis Weld sia amica intima di un noto gangster, e sia stata vista in pubblico in sua compagnia.

– Dovremmo provare che si tratta di un noto gangster.

– Non possiamo farlo?

– E come?

Fece una piccola smorfia di disappunto.

– Ma io ero sicura che negli ultimi giorni aveste cercato di chiarire questo punto.

– Perche?

– Per ragioni mie personali.

– Per me non hanno alcun senso finche rimangono personali.

La ragazza getto il mozzicone bruno della sua sigaretta nel mio portacenere. Mi chinai in avanti e lo stritolai col fondo di una matita. Lei mi sfioro delicatamente la mano col dito guantato. Il suo sorriso era il contrario di un anestetico. Si appoggio all'indietro e accavallo le gambe. Negli occhi cominciarono a danzarle due fiammelle. Era passato troppo tempo dall'ultimo tentativo di seduzione… per lei.

– "Amore"… e una parola cosi insulsa – mormoro, in tono meditabondo. – Mi meraviglia pensare che la lingua inglese, tanto ricca di poesia dell'amore, possa accettare un vocabolo cosi annacquato, per definirlo.

Non ha vita, non ha risonanza. Mi fa pensare alle adolescenti vestite da estate cogli abitini increspati e i sorrisetti rosa, e le vocine timide, e, con tutta probabilita, con una biancheria intima desolante.

Non feci commenti. Senza il minimo sforzo lei cambio argomento, e torno a occuparsi d'affari.

– D'ora in avanti Mavis guadagnera settantacinquemila dollari per film.. e finira col guadagnarne centocinquantamila. Ha cominciato a salire e niente la puo fermare. Eccetto, forse, un brutto scandalo.

– Allora qualcuno dovrebbe dirle chi e Steelgrave – dichiarai. – Perche non l'avvertite voi? E, incidentalmente, posto che noi avessimo tutte le prove necessarie che cosa fara Steelgrave, mentre torchieremo la Weld?

– E indispensabile che lo sappia? Non credo che lei gliene parlerebbe.

Anzi, penso che troncherebbe tutti i rapporti con lui. Ma la cosa per noi non avrebbe nessuna importanza… se avessimo la nostra brava prova. E se lei sapesse che l'abbiamo.

La mano guantata di nero si mosse verso la borsetta nera, poi si fermo, prese a tamburellare lievemente sul bordo della scrivania e tamburellando torno in un punto da dove pote ricadere in grembo. La signorina Gonzales non aveva guardato la borsa. Nemmeno io l'avevo guardata.

– Puo darsi che io abbia qualche obbligo verso la signorina Weld – dissi, alzandomi. – Non ci avete mai pensato?

Lei si limito a sorridere.

– E in tal caso – continuai – non vi pare che sarebbe ora di levarvi dai piedi?

La ragazza sempre sorridendo poso le mani sui braccioli della poltrona per alzarsi. Io spazzai via la borsetta, prima che lei potesse fare un gesto.

Gli occhi le si riempirono di astio. Fece un verso strano, come se soffiasse.

Apersi la borsetta, vi frugai dentro e trovai una busta bianca che mi parve vagamente familiare. La scossi, e venne fuori la foto di Alle Danze. I due pezzi erano stati riuniti, e incollati su un altro cartoncino.

Chiusi la borsa e la gettai alla ragazza.

Era in piedi, ora, con le labbra contratte, che lasciavano scoperti i denti.

Era silenziosa, come una statua.

– Interessante – osservai, puntando un dito contro la superficie lucida dell'istantanea. – Sempre che non sia un falso, un fotomontaggio. E Steelgrave, questo?

La risatina argentina squillo di nuovo.

– Siete infinitamente ridicolo, amigo. Sul serio. Non sapevo che ne fabbricassero ancora, di tipi come voi.

– Riserva anteguerra – risposi. – Diventiamo piu rari ogni giorno che passa. Dove avete preso questa roba?

– Dalla borsetta di Mavis Weld, nel camerino di Mavis Weld, mentre era sul set.

– E lei lo sa.

– Non sa niente.

– Chissa da chi l'ha avuta?

– Da voi.

– Ma fate il piacere! – esclamai inarcando esageratamente le sopracciglia. – E dove l'avrei presa, io?

La visitatrice mi tese la mano guantata, al di sopra della scrivania.

– Rendetemela, prego. – La sua voce era fredda.

– La rendero alla signorina Weld. E mi si spezza il cuore a dirvelo, signorina Gonzales, ma io non faro mai carriera, come ricattatore. Sono sprovvisto di magnetismo personale.

– Rendetemela – comando in tono aspro. – Altrimenti…

Si interruppe di colpo. Io aspettai che finisse. I suoi lineamenti delicati si composero in una maschera sprezzante.

– Benissimo – riprese. – L'errore e stato mio. Credevo che foste un tipo in gamba, ma ora vedo che siete uno dei soliti piedipiatti senza cervello. Questo ufficio piccolo e miserabile – fece un gesto circolare, con la mano guantata di nero, – la piccola, miserabile vita che si vive qua dentro… avrebbero dovuto dirmelo, che specie di idiota siete.

– Ve lo dicono.

Lei si volto, lentamente, e si incammino verso la porta. Girai attorno alla scrivania. La signorina Gonzales mi permise di tenerle aperto il battente.

Usci, molto lentamente. E il modo in cui lo fece non l'aveva imparato alle scuole commerciali.

Percorse il corridoio esterno senza voltarsi mai. Aveva un magnifico passo.

La porta rimbalzo, contro la molla di chiusura automatica, poi, molto sommessamente la serratura scatto. Mi parve che ci mettesse degli anni.

Rimasi immobile, a guardarla come se non l'avessi mai vista prima far cosi. Poi mi voltai, per tornare alla scrivania, e in quella suono il telefono.

Alzai il ricevitore e risposi. Era Christy French.

– Marlowe? Vorremmo che faceste un salto qui alla centrale.

– Immediatamente?

– Anche prima – ribatte lui, e interruppe la comunicazione.

Trassi la foto di sotto la cartella e andai a riporla nella cassaforte, insieme alle altre. Poi mi misi il cappello e chiusi le finestra. Non c'era nulla da aspettare. Guardai la punta verde della lancetta dei secondi, sul mio orologio. Mancava ancora molto, alle cinque. La lancetta percorreva il quadrante, senza sosta, come un commesso viaggiatore che va di casa in casa. Le sfere delle ore segnavano le quattro e dieci. Avrebbe gia dovuto chiamare, la ragazzina. Levai la giacca, mi sfilai la fondina a tracolla e la chiusi a chiave nel cassetto della scrivania, insieme alla Luger. I poliziotti non ci tengono che giriate armato nelle loro acque territoriali. Anche se avete il diritto di farlo. A loro piace che vi presentiate, tutto umile, come si conviene, col cappello in mano, la voce educata e sommessa e gli occhi pieni di nulla.

Guardai di nuovo l'orologio. Rimasi in ascolto. Il palazzo pareva molto tranquillo quel pomeriggio. Di li a poco sarebbe stato silenzioso del tutto e allora la madonna dallo strofinaccio grigio sarebbe arrivata lungo il corridoio, strascicando i piedi e tentando le maniglie.

Tornai a infilarmi la giacca, chiusi a chiave la porta di comunicazione, staccai il campanello e uscii nell'atrio. E proprio allora il telefono suono.

Per poco non strappai l'uscio dai cardini, per correre a rispondere. Era proprio la ragazzina, ma la sua voce aveva un tono che non avevo mai sentito prima. Un tono freddo, equilibrato, ma non opaco, ne vuoto, ne assente e nemmeno infantile. Era la voce di una ragazza che non conoscevo, e che pure conoscevo. Il significato di quella voce, lo seppi prima che avesse pronunciato tre parole.

– Vi ho chiamato perche m'avevate detto di farlo – esordi. – Ma non dovete dirmi nulla. Sono stata la.

Reggevo il ricevitore con tutt'e due le mani.

– Siete stata la – ripetei. – Si. Ho sentito. E poi?

– Mi… mi son fatta prestare una macchina. E mi sono fermata dall'altra parte della via. C'erano tante automobili che non avreste mai potuto notarmi. C'e un'impresa di pompe funebri, li accanto. Non vi stavo pedinando.

Ho cercato di seguirvi, quando siete uscito, ma non conosco le strade, da quelle parti, e vi ho perduto. Cosi sono tornata la.

– Perche?

– A dire il vero non lo so. Ma mi e parso che aveste un'aria strana, quando siete uscito da quella casa. O forse ho avuto un presentimento. In fondo si trattava di mio fratello. Cosi sono tornata la e ho suonato il campanello. E nessuno e venuto ad aprirmi. Anche questo mi e parso strano.

Forse sono telepatica, o qualcosa di simile. E a un tratto mi e parso di dover entrare in quella casa a tutti i costi. E non sapevo come farlo, ma dovevo, assolutamente.

– E successo anche a me – dissi, ed era la mia voce, ma qualcuno aveva usato la mia lingua come carta vetrata.

– Allora ho telefonato alla polizia e ho detto che avevo sentito degli spari – continuo lei. – E la polizia e arrivata e un agente e entrato in casa per una finestra. E poi ha fatto entrare l'altro per la porta. Dopo un po' hanno chiamato dentro anche me. E dopo non volevano piu lasciarmi andare.

Ho dovuto dire tutto, chi era lui, e che avevo mentito, a proposito degli spari, ma avevo avuto paura che fosse accaduto qualcosa di male a Orrin.

E ho dovuto parlare di voi, anche.

– Niente di male – la rassicurai. – Avevo gia intenzione di dir tutto alla polizia, non appena avessi avuto modo di comunicare con voi.

– E una situazione piuttosto imbarazzante per voi, vero?

– Si.

– Vi arresteranno o qualcosa di simile?

– Puo darsi.

– L'avete lasciato la, per terra. Morto. Ci siete stato costretto, immagino.

– Avevo le mie ragioni – affermai. – Forse non vi parranno molto buone, ma ne avevo. E per lui, la cosa non aveva importanza.

– Oh, certo. Avevate le vostre ragioni – disse. – Siete molto abile.

Voi avete sempre una ragione per tutto. Bene, immagino che le dovrete dire alla polizia, le vostre ragioni.

– Non necessariamente.

– Oh, si, dovrete – insiste la voce, con una nota di piacere che non seppi spiegarmi. – Certo che dovrete. Vi costringeranno.

– Inutile discutere – ribattei. – Nel mio mestiere si fa quel che si puo, per proteggere il cliente. A volte si va un tantino troppo in la. Come ho fatto io. Sono andato a mettermi in una posizione vulnerabile. Ma non l'ho fatto unicamente per voi.

– L'avete lasciato la, per terra, morto – ripete la ragazza. – E non me ne importa, di quel che vi faranno. Se vi metteranno in prigione credo che saro contenta. Scommetto che vi mostrerete superbamente coraggioso.

– Sicuro – affermai. – Sempre un allegro sorriso, nelle avversita.

Avete visto che cosa aveva in mano vostro fratello?

– Non aveva in mano niente.

– Be', vicino alla mano.

– Non c'era niente. Niente di niente. Che cosa doveva esserci?

– Magnifico – esclamai. – Mi fa molto piacere. Be', addio. Vado alla centrale, ora. Vogliono parlarmi. Buona fortuna, se non vi vedro piu.

– Vi conviene tenervela, la vostra buona fortuna – ribatte lei. – Puo darsi che ne abbiate bisogno. E in ogni caso io non la voglio.

– Ho fatto del mio meglio, per voi. Forse, se mi aveste detto qualcosa di piu in principio…

Lei interruppe la comunicazione mentre stavo parlando.

Deposi il ricevitore sulla forcella, gentilmente come se fosse stato un bambino in fasce. Trassi di tasca un fazzoletto e mi asciugai le palme delle mani. Poi andai al lavabo a lavarmi. Mi spruzzai il viso d'acqua fredda, l'asciugai strofinandolo duramente con la salvietta e mi guardai nello specchio.

– Ti sei proprio buttato a mare – dissi alla faccia che mi fissava.

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