CAPITOLO VIII

Una volta, parecchi anni prima, il Van Nuys doveva aver avuto un certo stile. Ma ora non piu. Le memorie dei vecchi sigari defunti rimanevano fedeli al vestibolo, come le dorature sudice al soffitto e le molle ciondolanti alle ampie poltrone di cuoio. Il marmo del banco era diventato giallobrunastro, col tempo. Ma il tappeto, sul pavimento, era nuovo e aveva un'aria dura, coriacea, come l'impiegato del bureau. Scartai l'impiegato, mi avvicinai pigramente al chiosco dei tabacchi, in un angolo, e deposi una moneta da un quarto di dollaro sul banco, per un pacchetto di Camel. La commessa era una bionda-paglia, col collo lungo e gli occhi stanchi. Mi porse le sigarette, aggiunse un pacchetto di cerini e lascio cadere il resto nella fessura d'una cassettina con la scritta: "Il Fondo della Comunita vi ringrazia".

– Voi volevate che lo facessi, vero? – chiese con un sorriso paziente.

– Senz'altro volevate regalare i vostri spiccioli ai poveri bambini diseredati con le gambe storte e tanti altri mali, vero?

– E se non avessi voluto? – chiesi.

– Ripescherei i sette centesimi – spiego la ragazza. – E sarebbe molto penoso. – Aveva una voce bassa e lenta, umidamente carezzevole, come un asciugamani bagnato. Infilai un quarto di dollaro, dietro ai sette centesimi. La ragazza mi gratifico del suo sorriso piu smagliante, allora, offrendomi una prospettiva ancor piu vasta delle sue tonsille.

– Siete una brava persona – disse. – Si vede subito. Una quantita di giovanotti sarebbero entrati qua dentro e avrebbero tentato di fare gli sporcaccioni. Pensate un po'. Per sette centesimi.

– Chi e il poliziotto dell'albergo? – le domandai, senza accogliere l'implicito invito.

– Ce ne sono due. – La ragazza compi un'operazione imprecisata, ma lenta ed elegante, nei paraggi della nuca, mettendo in mostra un numero che mi parve esorbitante di unghie rosso-sangue.

– Il signor Hady di notte, e il signor Flack di giorno. Adesso e giorno, quindi dev'essere di servizio il signor Flack.

– Dove potrei trovarlo?

La commessa si chino sul banco, permettendomi di odorarle i capelli, e indico il gruppo degli ascensori con un'unghia lunga un paio di centimetri.

– Ha l'ufficio in quel corridoio, laggiu, vicino alla stanza del custode. La stanza del custode dovete notarla per forza perche ha una porta a due battenti, con sopra scritto "Custode" a lettere d'oro. Solo che adesso un battente e aperto, quindi forse non la potete vedere.

– La vedro – l'assicurai. – A costo di scardinarmi il collo. Che aspetto ha Flack?

– Be'… e un ometto tozzo, coi baffi. Tipo tarchiato. Robusto, ma non molto alto. – Le sue dita si mossero languidamente sul banco e si fermarono in un punto dove avrei potuto arrivare a toccarle senza fare i salti mortali. – Non e interessante. Perche occuparsene?

– Affari – spiegai, e me la battei, prima che mi agguantasse con una presa di lotta.

Quando arrivai agli ascensori mi voltai. La commessa mi seguiva con lo sguardo, con un'espressione che, senza dubbio, lei avrebbe definito pensosa.

La stanza del custode era a meta del corridoio che dava su Spring Street.

La porta attigua era semiaperta. Sbirciai dentro poi entrai, e mi richiusi il battente alle spalle.

Un uomo era seduto davanti a una piccola scrivania che reggeva un enorme portacenere, molta polvere e quasi nient'altro. Era basso e tarchiato.

Sotto al naso aveva una specie di spazzolino, scuro e irsuto, lungo due centimetri abbondanti. Mi sedetti di fronte a lui e posai il mio biglietto da visita sul piano della scrivania.

Lui lo prese senza emozione, lo lesse, lo volto, e lesse il retro con la stessa attenzione. Non c'era assolutamente nulla da leggere, dietro. Poi prese un mezzo sigaro, dal portacenere, e si scotto il naso accendendolo.

– Qualcosa che non va? – mi chiese con un brontolio sordo.

– Va tutto bene. Siete Flack?

Non si prese il disturbo di rispondere. Mi incollo addosso uno sguardo, che avrebbe potuto nascondere i suoi pensieri o anche no, sempre che avesse avuto dei pensieri.

– Vorrei saper qualcosa d'uno dei vostri clienti – dissi.

– Nome? – chiese Flack, senza entusiasmo.

– Non so che nome abbia usato, qui. Sta nella camera trentadue al terzo piano.

– Che nome usava, prima di venir qui? – volle sapere Flack.

– Non so nemmeno quello.

– Be', che aspetto ha? – Flack era pieno di sospetti, ora. Rilesse il mio biglietto da visita, ma non apprese niente di nuovo.

– Non l'ho mai visto, ch'io sappia.

– Devo aver lavorato troppo – dichiaro il mio collega. – Non arrivo a capire.

– Mi ha telefonato – spiegai. – Ha detto che voleva vedermi.

– Ve lo impedisco, forse?

– Datemi retta, Flack. Nel nostro mestiere ci si fanno dei nemici, alle volte. Dovreste saperlo. Ora, questo tizio ha un incarico da darmi. Mi dice di venire qui, si dimentica di dirmi come si chiama e mette giu il telefono.

Cosi ho pensato di fare un piccolo controllo, prima di salire.

Flack si tolse il sigaro di bocca, e sospiro con aria paziente:

– Sono in condizioni disastrose. Non ho ancora capito. Niente ha piu senso, per me.

Mi chinai sulla scrivania, e dissi adagio, molto chiaramente:

– Tutta la faccenda potrebbe essere un sistema pratico ed efficace per attirarmi in una camera d'albergo, farmi la pelle e poi uscire tranquillamente dalla comune. Voi non vorreste che una cosa simile accadesse al vostro albergo, vero, Flack?

– Ammesso che la cosa mi interessi – fece lui. – Siete proprio convinto d'esser cosi importante?

– Fumate quel pezzo di vecchia gomena perche vi piace o perche credete che vi dia un'aria coriacea?

– Per quarantacinque dollari alla settimana, come faccio a fumare qualcosa di meglio? – domando Flack, e mi fisso intensamente.

– Niente conto spese – l'informai. – Non ho ancora fatto l'affare.

Lui emise un'esclamazione di tristezza, si alzo stancamente e usci dalla stanza. Accesi una sigaretta e aspettai. Flack torno di li a poco e lascio cadere sulla scrivania una schedina di registrazione. Sopra c'era scritto, a inchiostro, da una mano ferma e tondeggiante: Dr. G. W. Hambleton. El Centro. California. L'impiegato aveva preso nota di altre cose, ivi compreso il numero della camera e la retta giornaliera. Flack mi indico qualcosa, con un dito che aveva gran bisogno d'una manicure, o almeno di uno spazzolino per le unghie.

– E arrivato alle due e quarantasette pomeridiane – annuncio. – Proprio oggi, insomma. Non c'e ancora segnato niente sul suo conto. Ha pagato la retta di un giorno. Niente telefonate. Niente di niente. Che cosa volete?

– Che aspetto ha?

– Non l'ho visto. Credete che me ne stia fuori, vicino al banco e prenda fotografie di tutti i clienti che si presentano?

– Grazie – dissi. – Dottor G. W. Hambleton, El Centro. Molto obbligato. – E gli restituii la schedina.

– Qualsiasi informazione vi occorra, se posso… – disse Flack mentre uscivo – non dimenticatevi dove vivo. Cioe, se per voi questa e vita.

Accennai di si e me ne andai. Capitano, i giorni cosi. Tutti quelli che si incontrano sono suonati. Finisce che ci si guarda nello specchio e ci si domanda…

La camera trentadue era sul retro dell'edificio, vicino alla porta della scala di soccorso. Il corridoio che vi conduceva puzzava di tappeti vecchi, di olio da mobili e della tetra anonimita di mille vite meschine. Il secchiello di sabbia, sotto all'estintore era pieno di mozziconi di sigari e sigarette, una collezione che risaliva a parecchi giorni. Da uno sfiatatoio aperto veniva la musica assordante di una radio. Dietro un altro sfiatatoio alcune persone ridevano da farsi venire le convulsioni. In fondo, nelle vicinanze della camera trentadue tutto era tranquillo.

Bussai: due colpi lunghi e due brevi, secondo le istruzioni. Non accadde nulla. Mi sentivo vecchio e sfinito. Mi sentivo come se avessi passato tutta la vita a bussare alle porte degli alberghi di quart'ordine, dove nessuno si prendeva il disturbo di aprire. Riprovai a bussare. Poi girai la maniglia ed entrai. Una chiave, con un cartellino rosso di fibra era infilata nella toppa, dalla parte interna.

Ero in una piccola anticamera, con uno stanzino da bagno sulla destra.

Oltre l'anticamera si intravedeva la meta superiore di un letto, con un uomo che dormiva, in calzoni e maniche di camicia.

– Il dottor Hambleton? – chiesi ad alta voce.

L'uomo non rispose. Oltrepassai la porta del bagno, per andargli vicino.

Un'ondata di profumo mi investi, ed io feci per voltarmi, ma troppo tardi.

Una donna, che era stata nascosta nella stanza da bagno era apparsa improvvisamente, reggendosi un asciugamano davanti alla parte inferiore del viso. Sopra l'asciugamano un paio di occhiali neri. Poi l'ala di un cappello di paglia a larghe tese, di un color azzurro pervinca un po' smorzato. Sotto la tesa una massa di capelli biondi, rigonfi. Due orecchini a bottone azzurri scintillavano in un punto imprecisato, nell'ombra. Gli occhiali da sole avevano una montatura bianca con le stanghette piatte, molto larghe. L'abito era della stessa sfumatura del cappello. Sopra, la ragazza indossava un soprabito di seta o di rayon ricamato, aperto. Portava un paio di guanti piuttosto lunghi, e nella mano destra, stringeva un'automatica. Coll'impugnatura di osso bianco. Pareva una trentadue.

– Voltatevi e portate le mani dietro la schiena – ordino, da dietro l'asciugamano. La voce, soffocata dalla stoffa, non significava niente, per me, come gli occhiali neri. Non era la voce che mi aveva parlato al telefono. Non mi mossi.

– Non crediate che scherzi – continuo la ragazza. – Vi do esattamente tre secondi per obbedirmi.

– Non potreste fare un minuto? Mi piace guardarvi.

Lei fece un gesto minaccioso con la rivoltella.

– Voltatevi – comando. – E alla svelta.

– Anche la vostra voce mi piace.

– Benissimo – fece in tono pericoloso. – Se preferite cosi, e affar vostro.

– Non dimenticatevi che siete una signora – dissi e mi voltai, portandomi le mani alle spalle. La bocca della pistola mi premette contro la nuca.

Il fiato della ragazza mi sfiorava, per poco non mi faceva il solletico. Il suo profumo era di una marca elegante: non forte, ma deciso. La rivoltella si scosto dal mio collo e, per un istante, una fiamma candida mi arse negli occhi. Emisi un gemito soffocato, caddi carponi e portai rapidamente le mani all'indietro. Le mie dita sfiorarono una gamba inguainata di nylon, ma scivolarono via subito, e mi parve un peccato. Al tatto la si sarebbe detta una bella gamba. Una seconda botta in testa cancello ogni piacere da questa esperienza ed io emisi il gemito rauco di un uomo in condizioni disperate. Mi afflosciai sul pavimento. La porta si aperse. Una chiave tintinno. La porta si chiuse. La chiave giro. Silenzio.

Mi alzai e passai nello stanzino da bagno. Mi inumidii la nuca con un asciugamano intriso d'acqua fredda. Avevo l'impressione di esser stato colpito col tacco d'una scarpa. Certo non era stato il calcio di una rivoltella. Il taglio aveva sanguinato un poco, ma non gran che. Sciacquai l'asciugamano e rimasi impalato, a tastarmi l'escoriazione e a chiedermi come mai non avessi rincorso la ragazza urlando. Ma piu che altro stavo fissando l'armadietto farmaceutico, sopra il lavabo. La parte superiore di un barattolo di talco era stata scalzata via. – C'era talco su tutto il piano della mensola. Un tubo di dentifricio era stato sventrato. Qualcuno era andato in cerca di qualche cosa.

Tornai nella piccola anticamera e mossi la maniglia della porta. Era chiusa a chiave, dall'esterno. Mi chinai e guardai dal buco della chiave. Era una serratura doppia, di quelle con la toppa esterna e quella interna a diversi livelli. La ragazza dagli occhiali scuri non era molto esperta, in fatto di alberghi. Girai lo scrocco per la notte, che apriva la serratura esterna, spalancai la porta, diedi un'occhiata al corridoio vuoto e tornai a chiudere.

Poi mi diressi verso l'uomo sul letto. Non si era mosso, in tutto quel tempo, per una ragione piuttosto evidente.

Al di la della piccola anticamera il locale si allargava, verso due finestre, dalle quali il sole entrava obliquo, come una lama che quasi tagliava il letto, e andava a posarsi subito sotto il collo del dormiente. L'oggetto sul quale il sole indugiava era bianco e azzurro, tondo e lustro. L'uomo giaceva placidamente quasi bocconi, con le mani lungo i fianchi, e senza scarpe.

Aveva una guancia affondata nel cuscino e pareva riposare profondamente.

Portava la parrucca. Quando l'avevo visto l'ultima volta si chiamava George W. Hicks. Ora era il dottor G. W. Hambleton. Le stesse iniziali. Non che la cosa avesse importanza, ormai. Non gli avrei parlato mai piu. Non c'era sangue. Nemmeno una goccia. E uno dei pochi lati simpatici di un lavoretto di scalpello eseguito da un professionista.

Gli toccai il collo. Era ancora caldo. In quel momento lo spiraglio di sole lascio il manico dello scalpello, e si sposto nelle vicinanze dell'orecchio sinistro. Mi voltai a osservare la stanza. La scatola del telefono era stata aperta, e nessuno l'aveva piu richiusa. La Bibbia dell'albergo era finita in un angolo, la scrivania era stata perquisita. Andai all'armadio a muro e vi guardai dentro. Conteneva alcuni abiti e una valigia che avevo gia vista.

Non trovai nulla che mi paresse importante. Raccolsi un cappello floscio dal pavimento, lo deposi sulla scrivania e tornai nello stanzino da bagno.

L'unico punto interessante consisteva nello scoprire se le persone che avevano pugnalato il dottor Hambleton avessero trovato quel che cercavano; avevano avuto ben poco tempo, a disposizione.

Perquisii lo stanzino da bagno con molta cura. Tolsi il coperchio al serbatoio dell'acqua del gabinetto e vi guardai dentro. Non vidi nulla. Sbirciai giu, lungo il canale di scarico. Non c'era nessun filo con un oggetto minuscolo appeso in fondo. Perquisii il cassettone. Conteneva solo una vecchia busta. Sganciai gli scuri delle finestre e tastai per di sotto i davanzali. Raccolsi la Bibbia e la sfogliai di nuovo. Esaminai il retro dei quadri e studiai il bordo del tappeto. Era inchiodato al muro e c'erano delle coppette di polvere, nelle depressioni lasciate dai chiodi. Mi inginocchiai sul pavimento ed esaminai la parte di tappeto che passava sotto al letto. Era identica al resto. Montai in piedi su una sedia e guardai nella boccia del lampadario.

Conteneva polvere e falene morte. Esaminai il letto. Era stato rifatto da una persona del mestiere e non era piu stato toccato. Tastai il cuscino, sotto la testa del morto, poi trassi un altro cuscino dall'armadio a muro ed esaminai le cuciture. Niente.

La giacca del dottor Hambleton pendeva dallo schienale di una sedia. La perquisii, sapendo benissimo che era il posto meno probabile per trovarvi qualcosa. Qualcuno, con un coltello, si era dato da fare con la fodera e le imbottiture delle spalle. Nelle tasche c'erano fiammiferi, un paio di sigari, un paio di occhiali scuri, un fazzoletto da dozzina, pulito, un biglietto d'un cinema di Bay City, un pettinino e un pacchetto di sigarette nuovo. Lo guardai bene, alla luce. Non mostrava segni di manomissione. Lo manomisi io. Strappai l'involucro, lo feci passare tutto e non trovai che sigarette.

Cosi restava solo il dottor Hambleton in persona. Gli passai le mani sopra e gli frugai nelle tasche dei calzoni. Qualche spicciolo, fiammiferi, un mazzo di chiavi, un volantino con gli orari degli autobus. In un portafogli di cinghiale c'era un libriccino di francobolli, un secondo pettine (ecco un uomo che trattava con vero amore il suo parrucchino!), tre bustine d'una polvere bianca, sette biglietti da visita che dicevano: Dottor G. W. Hambleton. Tustin Palace, El Centro, California. Ore 9-12, 14-16, e per appuntamento. Telefono El Centro 50406. Niente patente di guida, niente assicurazione sulla vecchiaia o sulla vita, niente che lo potesse identificare veramente. Il portafogli conteneva centosessantaquattro dollari in banconote. Lo riposi dove l'avevo trovato.

Presi il cappello del dottor Hambleton dalla scrivania ed esaminai la fascia interna e il nastro. Il nodo, era stato staccato con un temperino, e aveva lasciato una riga di fili penduli. Dentro non c'era niente. Non vidi segni di scuciture e ricuciture antecedenti.

Questo era tutto. Se gli assassini sapevano quel che cercavano doveva trattarsi di una cosa che poteva essere contenuta in una scatola di telefono, in un tubo di dentifricio o nel nastro di un cappello. Tornai nello stanzino da bagno e mi esaminai di nuovo il taglio. Perdeva ancora un sottile filo di sangue. Applicai dell'altra acqua fredda, e mi asciugai con un po' di carta igienica, che dopo buttai nel gabinetto e feci sparire, tirando la catena. Poi passai in camera da letto e rimasi un lungo istante a fissare il dottor Hambleton, chiedendomi che errore poteva aver commesso. Mi era parso un individuo con la testa sul collo. Il sole si era spostato al capo estremo della stanza, ora, aveva lasciato il letto e si era rifugiato in un angolo triste e polveroso.

A un tratto sorrisi, mi chinai sul morto, di scatto, e conservando sempre il mio sorriso, per fuori luogo che fosse, gli sfilai il parrucchino e lo rovesciai. Era cosi semplice. Un foglietto di carta color arancio protetto da un quadretto di cellophane era attaccato alla fodera delia parrucca con due pezzi di carta gommata. Lo staccai, lo voltai e vidi che si trattava di uno scontrino del negozio "Tutto per la foto" di Bay City. Lo riposi nel mio portafogli e calzai di nuovo, con cura, la parrucca sulla testa pelata come un uovo.

Lasciai la porta chiusa con la sola maniglia, perche non c'era modo di chiuderla a chiave.

Fuori la radio vociava sempre dallo sfiatatoio e le risa degli ubriachi, dall'altra parte del pianerottolo, le facevano l'accompagnamento.

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