CAPITOLO XXIX

Non venni mai a sapere il suo nome. Pero era piuttosto piccolo e magro, per un poliziotto; cosa che doveva essere, sia perche si trovava la, sia perche quando si era sporto sul tavolo, per prendere una carta gli avevo visto, sotto l'ascella, una fondina a tracolla e il calcio di una trentotto d'ordinanza della polizia.

Non parlava molto, ma quando apriva bocca aveva una voce simpatica, morbida e tranquilla. E un sorriso che riscaldava tutta la stanza.

– Magnifica disposizione – osservai, guardandolo al di sopra delle carte.

Stavamo giocando un doppio "rosso e nero". O meglio lui lo stava giocando. Io ero la, e lo guardavo, guardavo le sue mani piccole, molto ben fatte, molto pulite muoversi lungo il tavolo, sfiorare una carta, sollevarla delicatamente e deporla in un altro posto. Giocando sporgeva le labbra e fischiettava, senza melodia, un fischio discreto e sommesso, come quello di una locomotiva giovanissima, non ancora del tutto sicura di se.

L'uomo sorrise e depose un nove rosso su un dieci nero.

– Che cosa fate nelle ore libere? – domandai.

– Suono molto il piano – rispose. – Ho uno Steinway a coda. Suono Mozart e Bach, principalmente. Molti li giudicano noiosi. Io no.

– Magnifica disposizione – ripetei, e spostai una carta.

– Non potete credere come siano difficili certi pezzi di Mozart – soggiunse l'uomo. – E sembra cosi semplice, quando e suonato bene.

– Chi lo suona bene?

– Schnabel.

– E Rubinstein?

Scosse il capo.

– Troppo carico. Troppo emotivo. Mozart e solo musica. Non ha bisogno di commento da parte dell'esecutore.

– Scommetto che riuscite a metter molta gente nelle disposizioni migliori per confessare – dissi. – Vi piace il vostro lavoro?

Lui sposto un'altra carta e flette leggermente le dita. Aveva le unghie lucide, ma corte. Si capiva che gli piaceva muovere le mani, fare tanti piccoli gesti insignificanti, ma morbidi, fluenti come le piume del petto d'un cigno. Erano mani che facevano pensare a cose delicate, compiute delicatamente, ma non senza forza. Mozart, appunto. Potevo capirlo.

Erano circa le cinque e mezzo e il cielo, dietro gli scuri abbassati, si stava facendo piu chiaro. La scrivania a saracinesca, nell'angolo, era chiusa.

Era la stessa stanza del pomeriggio precedente. A un capo della tavola giaceva una tozza matita di legno, che qualcuno aveva raccolto dopo che il tenente Maglashan di Bay City l'aveva scaraventata contro il muro. La scrivania dove era stato seduto Christy era cosparsa di cenere. Un vecchio mozzicone di sigaro era in bilico, sull'orlo di un portacenere di vetro. Una falena girava in circolo attorno alla lampada, che pendeva per un cordone dal soffitto, protetta da uno di quei paralumi di vetro bianco e verde che si usano ancora negli alberghi di campagna.

– Stanco? – domando l'omino.

– Sfinito.

– Non dovreste andarvi a cacciare nei pasticci cosi elaborati. Non vedo che senso ci sia.

– Non c'e senso a sparare a un uomo?

Lui sorrise, il suo sorriso caldo.

– Voi non avete sparato a nessuno.

– Che cosa ve lo fa dire?

– Il buon senso… e la vasta e ricca esperienza, che ho acquistato standomene qui, a far compagnia alla gente.

– Credo che il vostro lavoro vi piaccia veramente – osservai.

– E un lavoro notturno. Mi lascia tempo di giorno per esercitarmi col piano. Sono dodici anni che lo faccio, ormai. Ho visto un mucchio di tipi curiosi andare e venire.

Scoperse un altro asso, appena in tempo. Eravamo quasi bloccati.

– Ottenete molte confessioni?

– Io non ricevo le confessioni – obietto. – Solo favorisco un determinato stato d'animo.

– Perche mi scoprite il vostro gioco?

Si appoggio allo schienale della sedia e batte leggermente il bordo del tavolo col bordo d'una carta. E di nuovo sorrise.

– Non scopro nessun gioco. Ci siamo gia fatti un'idea, su di voi, molto tempo fa.

– E allora perche mi trattengono?

A questo non volle rispondere. Diede un'occhiata all'orologio a muro.

– Credo che potremo farci mandar su qualcosa da mangiare, ora.

Si alzo e ando alla porta. Aperse per meta il battente e parlo sottovoce con qualcuno di fuori. Poi torno, si mise a sedere e guardo come stavamo a carte.

– Inutile – osservo. – Ne alziamo altre tre e poi siamo bloccati. Ci state a cominciare una partita nuova?

– Ci sarei stato anche a non cominciare del tutto. Io non gioco a carte.

Sono per gli scacchi.

Lui mi lancio una rapida occhiata, dal sotto in su.

– Perche non l'avete detto? Anch'io avrei preferito giocare a scacchi.

– Per me, preferirei a tutto una tazza di caffe, nero e amaro come il peccato.

– Arrivera da un momento all'altro. Ma non vi posso promettere il caffe al quale siete abituato.

– Oh, ma io mangio dove mi capita… Be', se non ho sparato io, al nostro uomo, chi gli ha sparato?

– Dev'essere appunto questo che li irrita un po'.

– Dovrebbero esser contenti che e andato al creatore.

– Probabilmente lo sono – affermo il mio compagno. – Ma non apprezzano il modo con cui ce l'han mandato.

– Personalmente mi e parso un lavoretto pulito. Meglio di cosi…

Lui mi guardo, dal sotto in su, in silenzio. Aveva in mano le carte, in un mazzo solo. Le pareggio ben bene, se le fece scorrere fra le dita, a faccia in su e le divise nei due mazzi originari. Sembrava che le carte fluissero dalle sue mani in un rivolo, velocissimo, quasi indistinto.

– Se foste cosi rapido con una pistola… – cominciai.

Il flusso di carte si interruppe. Senza ch'io notassi alcun gesto, una rivoltella prese il suo posto. L'omino la teneva agilmente con disinvoltura nella mano destra, puntandola verso un angolo lontano della stanza. Poi l'arma spari e le carte ripresero a correre.

– Siete sprecato qui – affermai. – Dovreste essere nella citta bisca, a Las Vegas.

Lui prese un solo mazzo di carte, lo mischio un istante, lo taglio e mi servi una scala reale di picche.

– Sono piu al sicuro con uno Steinway – rispose.

La porta si aperse ed entro un agente in uniforme con un vassoio.

Mangiammo guazzetto di carne affumicata e bevemmo caffe, bollente ma leggero. Ormai era giorno pieno.

Alle otto e un quarto arrivo Christy French e mi si pianto vicino, col cappello quasi sulla nuca e due pennellate nere sotto gli occhi.

Lo guardai, poi guardai l'omino al di la della tavola. Ma l'omino non c'era piu. Nemmeno le carte c'erano piu. Non c'era piu nulla, se non una sedia, accostata ordinatamente al tavolo e i piatti in cui avevamo mangiato, ammonticchiati sul vassoio. Per un istante provai una sensazione fredda d'irrealta.

Poi Christy French giro attorno al tavolo, tiro indietro la sedia con violenza, si sedette e appoggio il mento su una mano. Tolse il cappello e si passo le dita fra i capelli. Poi mi fisso, con gli occhi duri, imbronciati. Ero tornato nel regno della polizia.

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