CAPITOLO III

Si puo conoscere Bay City da molto tempo senza conoscere Idaho Street. E si puo conoscere molto bene Idaho Street senza conoscere il numero 449. L'asfalto della via, davanti al portone, era tutto corroso e mostrava la terra. La staccionata sbilenca di un magazzino di legname costeggiava il marciapiedi pieno di crepe, all'altro lato della strada. Piu avanti, circa a meta dell'isolato, le rotaie rugginose di un binario di servizio svoltavano verso un alto cancello di legno, bloccato da una catena, che aveva l'aria di non essere stato aperto da vent'anni. I ragazzini avevano riempito di scritte e di disegni i battenti del cancello e tutta la staccionata.

Il numero 449 aveva un portico poco profondo, di legno grezzo, sotto il quale quattro o cinque sedie a dondolo di vimini e legno oziavano con aria dissoluta, tenute insieme dallo spago e dall'umido dell'aria marina. Gli avvolgibili verdi delle finestre a pianterreno erano abbassati per tre quarti, e pieni di spiragli. Accanto alla porta d'ingresso c'era un grande avviso, a stampatello: Tutto esaurito. Anche quello era la da molto tempo. Era sbiadito e pieno di macchie di mosche. La porta si apriva su un lungo vestibolo, in fondo al quale partiva una rampa di scale. Sulla destra c'era uno stretto scaffale con vicino una matita copiativa appesa al muro per una catenella. C'era il pulsante di un campanello e, sopra di esso, un cartellino giallo e nero che diceva: Direttore era attaccato con tre puntine da disegno scompagnate. Sul muro di fronte c'era un telefono a gettone.

Premetti il pulsante. Il campanello suono, in un punto imprecisato, ma non accadde nulla. Suonai di nuovo. Di nuovo non accadde nulla. Avanzai lentamente verso una porta con un cartellino di metallo bianco e nero… Direttore. Bussai. Poi la presi a calci. Parve che nessuno se ne avesse a male, per le mie pedate.

Tornai ad uscire e mi avviai verso il fianco della casa, dove un sentierino di cemento conduceva a un ingresso di servizio. Mi parve che fosse nel punto giusto, per esser quello dell'appartamento del direttore. Il resto dell'edificio doveva esser composto esclusivamente di stanze d'affitto. Sotto il piccolo portico c'erano una pattumiera sudicia e una cassetta di legno piena di bottiglie di liquore. La porta posteriore oltre la grata era aperta. Dentro era buio e tetro. Appoggiai la faccia alla grata e spiai nell'interno. Attraverso l'uscio, oltre il portico di servizio scorgevo una sedia da cucina con una giacca da uomo appesa alla spalliera. E sul sedile c'era un uomo in maniche di camicia, col cappello in testa. Un tipo piuttosto piccolo e smilzo. Non riuscivo a vedere quel che stava facendo ma mi parve che fosse seduto a un tavolo a muro, nell'"angolo della prima colazione".

Bussai sulla grata. L'uomo non se ne diede per inteso. Bussai di nuovo, piu forte. Questa volta lo sconosciuto inclino la sedia all'indietro e mi lascio vedere un viso pallido, con una sigaretta piantata in bocca.

– Cosa volete? – latro.

– Il direttore.

– Non c'e, bel giovane.

– Voi chi siete?

– Che ve ne importa?

– Voglio una stanza.

– Tutto esaurito. Non sapete leggere?

– Io avrei informazioni diverse – dichiarai.

– Davvero? – L'uomo fece schizzar via la cenere dalla sigaretta con l'unghia, senza nemmeno togliere il mozzicone dalla piccola bocca triste.

– E allora prendetevi le vostre informazioni e andate al Limbo.

Raddrizzo la sedia e torno a fare quel che stava facendo.

Io feci parecchio rumore scendendo dal portico e nessun rumore risalendovi. Tastai la grata, con attenzione. Era chiusa con un gancio. Con la lama d'un temperino sollevai l'uncino e lo sfilai dall'occhiello. Tintinno un poco, ma dalla cucina venivano altri tintinnii, piu forti.

Entrai, attraversai il portico di servizio e varcai la soglia della cucina.

L'ometto era troppo indaffarato per accorgersi di me. Il locale conteneva un fornello a gas a tre fuochi, qualche scaffale carico di piatti unti, una ghiacciaia di legno e l'angolo della prima colazione. Il tavolo a muro era coperto di danaro. Eran quasi tutti biglietti di banca, ma c'erano anche monete di tutte le dimensioni, fino a un dollaro. L'ometto contava i soldi, li riuniva in mucchietti e prendeva note in un quadernetto. Bagnava la punta alla matita senza disturbare la sigaretta che gli abitava in bocca.

Dovevano esserci parecchie centinaia di dollari, su quel tavolo.

– Giorno d'affitti? – domandai con aria brillante.

L'omino si volto di scatto. Per un istante sorrise, senza dire ba. Aveva il sorriso di un uomo i cui pensieri non sorridono. Si tolse di bocca il mozzicone di sigaretta, lo lascio cadere al suolo e lo pesto col piede. Trasse una sigaretta nuova dalla camicia, l'introdusse nello stesso buco, in mezzo alla faccia, e comincio a frugarsi addosso in cerca d'un cerino.

– Siete entrato gentilmente – osservo in tono cordiale.

Poiche non riusciva a trovare il cerino si volto distrattamente senza alzarsi e infilo una mano in una tasca della giacca. Qualcosa di pesante batte contro il legno della sedia. Riuscii ad afferrargli il polso prima che l'oggetto pesante uscisse di tasca. L'ometto si getto all'in dietro con tutto il suo peso e la tasca della giacca comincio a sollevarsi, verso di me. Gli feci partire la sedia di sotto. Lui cadde a sedere secco sul pavimento e batte la testa contro lo spigolo del tavolo. Questo non gli impedi di tentare di assestarmi un calcio al basso ventre. Mi tirai indietro, con la sua giacca in mano, e levai dalla tasca la "trentotto" con la quale aveva giocherellato.

– Non restate seduto per terra solo per mostrarvi ospitale – dissi.

Lui si alzo lentamente, fingendosi piu stordito di quanto non fosse. Pasticcio un istante col colletto, vicino alla nuca, e la luce ammicco sul metallo, mentre il suo braccio si alzava, rapidissimo, verso di me. Era un ometto molto vivace.

Gli accarezzai una mascella con la sua stessa pistola e lui torno a sedersi sull'impiantito. Posai un piede, con tutto il mio peso, sulla mano che stringeva il coltello. L'omino contrasse il viso per il dolore, ma non aperse bocca. Cosi io spedii il coltello in un angolo, con una pedata. Era un coltello lungo e sottile, e pareva molto appuntito.

– Dovreste vergognarvi a puntare rivoltelle e pugnali contro la gente che va in cerca di un buco per vivere – protestai. – Anche di questi tempi e un'esagerazione fuori luogo.

Lui s'infilo la mano ferita tra le ginocchia, la strinse e comincio a fischiettare tra i denti. A quanto pareva la botta alla mascella non gli aveva fatto ne caldo ne freddo.

– D'accordo – brontolo – d'accordo. Mica sono perfetto. Prendete il grano e filate. Ma non crediate di averla fatta franca.

Diedi un'occhiata alle banconote di piccolo e medio taglio e alle monete d'argento, sulla tavola.

– Dovete incontrare una quantita di cattivi pagatori, a giudicare dall'arsenale che vi portate dietro – osservai.

Mi diressi verso la porta che dava all'interno della casa e tentai la maniglia. Non era chiusa a chiave. Mi voltai.

– Vi lascero la pistola nella cassetta delle lettere – promisi. – E la prossima volta chiedete di vedere il tesserino.

Lui stava ancora fischiettando gentilmente fra i denti, e stringendosi la mano. Mi lancio un'occhiata acuta, pensosa, poi spazzo il danaro in una borsa di pelle malandata e fece scattare la serratura. Si tolse il cappello, lo rabbercio e torno a piantarselo spavaldamente sulla nuca; poi mi rivolse un sorriso rapido, efficiente.

– Non vi disturbate per la pistola. La citta e piena di ferrivecchi. Il coltello, invece, potete lasciarlo a Clausen. Ho dovuto sudarci sopra parecchio, per metterlo a punto.

– E dopo? L'avete usato molto?

– Puo darsi. – Agito un dito al mio indirizzo, allegramente. – Forse ci incontreremo ancora, un giorno o l'altro. Magari quando saro con un amico.

– Ditegli che si metta una camicia pulita – consigliai. – E che ve ne presti una.

– Oh cielo, oh cielo – fece l'omino con aria di disapprovazione. – Come diventiamo cattivi, appena abbiamo la patacca dietro al risvolto.

Mi passo davanti, senza rumore, e scese i gradini di legno del portico. I suoi passi risonarono lungo la strada, e pian piano si spensero. Somigliavano molto al ticchettio delle scarpine di Orfamay, lungo il corridoio del mio ufficio. E per qualche misteriosa ragione io provai un senso di vuoto, come se avessi calcolato male le briscole. Ma non c'era nessuna ragione.

Nessuna. Forse era la durezza dell'omino. Niente gemiti, niente proteste.

Solo quel sorriso, quel fischiettare fra i denti, la voce noncurante e gli occhi che non dimenticavano.

Andai a raccogliere il coltello. La lama era lunga, rotonda e sottile, come una lima che fosse stata levigata. L'impugnatura e la guardia erano di materia plastica leggera, e parevano tutte d'un pezzo. Afferrai l'arma per l'impugnatura e assestai una rapida pugnalata al tavolo. La lama si stacco e rimase infissa nel legno, vibrando.

Trassi un profondo respiro, infilai di nuovo il manico sul fittone di metallo e riuscii a scalzare la lama dal tavolo. Un coltello curioso, con un disegno e uno scopo ben definiti e tutt'altro che gradevoli.

Apersi la porta che dava nell'interno della casa, e varcai la soglia, col coltello e la pistola in una mano sola.

Mi trovai in un salotto con un letto a muro, e il letto era tirato giu e mezzo disfatto. C'era una poltrona imbottita con un buco bruciacchiato in un bracciolo. Una scrivania alta, di quercia, con gli sportelli obliqui come le porte d'una cantina all'antica, era appoggiata al muro, vicino alla finestra di strada. Poco distante c'era un divano e sul divano giaceva un uomo. I suoi piedi, avvolti in calzini grigi, pieni di protuberanze, sporgevano dall'orlo del sedile. La testa aveva mancato il cuscino di mezzo metro buono. Non era stata una gran perdita, a giudicare dal colore della federa. L'uomo portava una camicia senza colore e una giacca di maglia grigia, molto lisa.

Aveva la bocca aperta, il viso lustro di sudore e respirava come una vecchia Ford col dotto della benzina guasto. Su un tavolo, al suo fianco, c'era un piatto pieno di mozziconi di sigaretta, alcuni dei quali avevano l'aria d'esser fatti a mano. Sul pavimento una bottiglia di gin quasi piena e una tazza che pareva aver contenuto caffe, ma tutt'altro che di recente. Nella stanza dominavano l'odore di gin e l'aria viziata, ma c'era anche una vaga reminiscenza di fumo di marijuana.

Apersi una finestra e appoggiai la fronte all'imposta per respirare una boccata d'aria piu fresca e osservai la strada. Due ragazzini compivano evoluzioni in bicicletta, lungo la staccionata del magazzino di legname, fermandosi di tanto in tanto, per studiare gli esemplari di arte da caserma, sull'assito. Nient'altro si moveva, nel vicinato. Nemmeno un cane. All'angolo della via c'era una nuvola di polvere, nell'aria, come se fosse appena passata un'automobile.

Mi avvicinai alla scrivania. In un cassetto c'era il registro degli ospiti.

Sfogliai le pagine all'indietro, finche arrivai al nome: "Orrin P. Quest" vergato in una scrittura appuntita e meticolosa, e le parole "N. 14, piano 2" aggiunte a matita da un'altra grafia, che non era ne appuntita ne meticolosa. Di li tornai alle ultime pagine ma non trovai nuove registrazioni, per la camera 14. Nella camera 15 abitava un certo G. W. Hicks. Riposi il registro e mi avvicinai al divano. L'uomo smise di russare e di gorgogliare e si getto un braccio attraverso il petto come se stesse per fare un discorso. Mi chinai, gli afferrai il naso ben stretto, fra l'indice e il medio e gli ficcai in bocca un lembo del suo golf. Lui smise definitivamente di russare e spalanco gli occhi di scatto. Erano vitrei e iniettati di sangue. Cerco di sottrarsi alla mia mano. Quando fui certo che era sveglio del tutto lo lasciai andare, presi la bottiglia di gin dal pavimento e versai un po' di liquore in un bicchiere che giaceva su un fianco, accanto alla bottiglia. Poi mostrai il bicchiere all'uomo.

La sua mano scatto in avanti con la bella ansia di una madre che da il benvenuto a un figlioletto perduto.

Tirai indietro il bicchiere e domandai:

– Siete il direttore?

Lui si lecco le labbra, a fatica come se appiccicassero e disse:

– G-r-r-rr.

Tento di nuovo di afferrare il bicchiere. Io lo deposi sul tavolo, di fronte a lui. Lui lo prese cautamente, con entrambe le mani e si verso il gin in gola. Poi scoppio in una grassa risata e mi getto il bicchiere. Riuscii ad afferrarlo e lo deposi nuovamente sul tavolo. L'uomo mi esamino, sforzandosi di fare il severo, ma senza successo.

– Che cosa c'e? – gracchio in tono annoiato.

– Siete il direttore?

Annui e per poco non cadde dal divano.

– Devo essere un po' sbronzino – disse. – Sbronzino un pochino pochino.

– Non siete poi tanto conciato – osservai. – Respirate ancora.

L'uomo poso i piedi a terra e si rizzo, a fatica. Improvvisamente scoppio in una risatina rauca, divertita, fece tre passi incerti, cadde carponi e tento di mordere la gamba d'una sedia.

Lo tirai di nuovo su, lo feci sedere sulla poltrona imbottita dal bracciolo bruciacchiato e gli versai un'altra dose della sua medicina. Lui la bevve, fu scosso da un brivido violento e ad un tratto i suoi occhi parvero diventare ragionevoli e astuti. Gli ubriachi di quel tipo hanno dei momenti di lucidita in cui sono perfettamente equilibrati. Non si puo mai sapere quando arriveranno ne quanto potranno durare.

– Chi diavolo siete? – mugolo.

– Sto cercando un certo Orrin P. Quest.

– Che?

Ripetei la frase. Lui si passo le mani sulla faccia, sporcandosela, e annunzio, laconicamente:

– Andato via.

– Dove e quando?

L'uomo agito una mano e quasi cadde dalla sedia: poi agito la mano nell'altro senso, per riprendere l'equilibrio.

– Datemi un cicchetto – brontolo.

Versai un'altra dose di gin ma tenni il bicchiere in modo che non potesse prenderlo.

– Datemi – balbetto con ansia. – Sono molto giu.

– Tutto quel che voglio e l'attuale indirizzo di Orrin P. Quest.

– Ma pensa un po' – esclamo lui, con l'aria di dire una barzelletta, e fece un debole tentativo per afferrare il bicchiere che tenevo in mano.

Deposi il bicchiere sul pavimento e trassi di tasca un biglietto da visita, di quelli d'ufficio.

– Questo forse vi aiutera a concentrarvi – dissi.

Il direttore scruto il cartoncino, attentamente, lo piego a meta poi lo piego ancora. Lo tenne sul palmo della mano aperta, per un istante, ci sputo sopra e lo butto via, facendoselo volare dietro la spalla.

Gli porsi il bicchiere di gin. Lui bevve alla mia salute, annui, con aria solenne e si butto anche il bicchiere dietro la spalla. Il bicchiere rotolo sul pavimento e ando a urtare il bordo di legno della parete. L'uomo si alzo, con sorprendente facilita punto un pollice contro il soffitto e strinse a pugno le altre dita, emettendo un suono aspro con la lingua e i denti.

– Filate – ordino. – Ho degli amici, io. – Diede un'occhiata al telefono a muro, poi si volto a guardarmi, con aria astuta. – Un paio di ragazzi che vi sistemeranno – spiego in tono sprezzante. Io non apersi bocca.

– Non mi credete, eh? – ruggi, montando improvvisamente in collera.

Scossi il capo. L'uomo si diresse al telefono, strappo il ricevitore dal gancio e compose le prime cinque cifre di un numero. L'osservai attentamente. Uno-tre-cinque-sette-due.

Questo consumo tutte le sue energie, per il momento. Lascio ricadere il ricevitore contro il muro, con fracasso, e si sedette sul pavimento, di fianco ad esso. Poi vi poso contro l'orecchio e mugolo, rivolto alla parete:

– Fatemi parlare col dottore. – Ascoltai in silenzio. – Vince! Il dottore! – urlo l'uomo, rabbiosamente.

Scosse il ricevitore e lo getto lontano da se. Poi poso le mani sul pavimento e comincio a girare in tondo, carponi. Quando mi scorse parve sorpreso e irritato. Si alzo di nuovo in piedi tremando e tese una mano:

– Datemi un cicchetto.

Ricuperai il bicchiere e munsi di nuovo la bottiglia del gin. L'uomo accetto il liquore con la dignita di una vedova ubriaca e lo butto giu con un gran gesto. Poi si diresse tranquillamente verso il divano e si sdraio, usando il bicchiere per cuscino. Si addormento di colpo.

Riappesi il ricevitore al suo gancio, diedi un'altra occhiata in cucina poi perquisii l'uomo sdraiato e in una tasca pescai un mazzo di chiavi. Una era un passe-partout. La porta del corridoio aveva una serratura a scatto. La sistemai in modo da poterla riaprire e mi incamminai su per le scale. Lungo il tragitto mi fermai per scrivere su una busta: Dott. Vince, 13572. Forse era un indizio.

Tutta la casa era in silenzio, mentre salivo.

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