CAPITOLO VII

Il telefono, sulla mia scrivania, squillo alle quattro in punto.

– Avete trovato Orrin, signor Marlowe?

– Non ancora. Dove siete?

– Ma… nel drugstore vicino al…

– Venite su, e piantatela di fare la Mata Hari.

– Possibile che non riusciate mai ad essere educato? – scatto lei.

Deposi il ricevitore e mi versai un bicchierino di whisky per prepararmi i nervi per il colloquio. Stavo ancora centellinandolo quando udii i passi della ragazza ticchettare lungo il corridoio. Mi alzai e andai ad aprirle la porta.

– Venite per di qua, e fuggite la folla urlante – invitai.

La signorina Quest si sedette con affettata modestia, e aspetto.

– Tutto quel che son riuscito a scoprire e che in quel buco di Idaho Street spacciano "paglia" – annunziai. – Sigarette di marijuana, voglio dire.

– Oh, che disgusto!

– Nella vita bisogna accettare sia il buono che il cattivo – sentenziai.

– Orrin dev'essersene accorto e deve aver minacciato di denunziare tutto alla polizia.

– Volete dire che possono avergli fatto del male, per questo? – chiese con voce da bambinetta.

– Be' e molto probabile che, per prima cosa, gli abbiano fatto prendere una bella paura.

– Oh, non possono aver spaventato Orrin, signor Marlowe – affermo la ragazza, con aria decisa. – Mio fratello diventa molto cattivo con la gente che tenta di imporglisi.

– Gia – bofonchiai. – Ma non stiamo parlando delle stesse cose, noi due. Si puo spaventare chiunque, con la giusta tecnica.

Lei strinse le labbra, testardamente.

– No, signor Marlowe. Non possono aver spaventato Orrin.

– D'accordo – dissi. – Non l'hanno spaventato. Poniamo, allora, che gli abbiano tagliato via una gamba e se ne siano serviti per pestargliela sulla testa. Che farebbe vostro fratello, in un caso simile? Si rivolgerebbe all'Ufficio Reclami?

– State prendendovi gioco di me – osservo la ragazza, educatamente.

La sua voce era fredda come la minestra di una pensione. – Non avete fatto altro, in tutto il giorno? Avete solo scoperto che Orrin ha traslocato, e che abitava in un quartiere di dubbia fama? Perbacco, questo l'avevo scoperto da me, signor Marlowe. Pensavo che, essendo un investigatore e tutto quanto… – S'interruppe, lasciando il resto della frase come sospeso a mezz'aria.

– Ho fatto qualcosa di piu – rettificai. – Ho dato qualche sorso di gin al direttore della pensione, ho sfogliato il registro degli ospiti e ho parlato con un certo Hicks. George W. Hicks. Un tizio che porta la parrucca. Forse non l'avete conosciuto. Abita, o meglio abitava, nella camera di Orrin. Cosi ho pensato che forse… – fu il mio turno di lasciare la frase sospesa a mezz'aria.

Lei mi fisso, coi suoi pallidi occhi azzurri, ingranditi dalle lenti. La sua bocca era piccola, ferma, dura, le mani annodate strettamente, sulla scrivania, davanti alla grossa borsa quadra. Tutto il suo corpo, rigido, impettito e formale esprimeva disapprovazione.

– Vi ho pagato venti dollari, signor Marlowe – disse in tono gelido. – Ritenevo si trattasse del pagamento per una giornata di lavoro. Non mi pare che abbiate compiuto una giornata di lavoro.

– No – ammisi. – E vero. Ma non e ancora venuto sera. E non vi preoccupate per i venti dollari. Potete riprenderli, se ci tenete. Non li ho nemmeno sfiorati.

Apersi il cassetto, tirai fuori i suoi soldi e li spinsi verso di lei. La ragazza guardo il mucchietto di banconote ma non lo tocco. I suoi occhi si alzarono lentamente, a incontrare i miei.

– Non intendevo questo. So che state facendo del vostro meglio, signor Marlowe.

– Con gli elementi che ho…

– Ma vi ho detto tutto quel che sapevo.

– Non credo.

– Be', io non posso farci niente se non la pensate cosi – ribatte lei con aria petulante. – Dopotutto, se avessi saputo quel che volevo sapere non sarei venuta qui a chiedervi di scoprirlo, vi pare?

– Non dico che voi sappiate tutto quel che volete sapere – replicai. – Il fatto e che io non so tutto quel che vorrei sapere per compiere il lavoro che mi avete affidato. E quel che mi avete detto non ha senso.

– Che cosa non ha senso? Vi ho detto la verita. Sono la sorella di Orrin.

Lo sapro che tipo e.

– Quanto tempo ha lavorato per la Cal-Western?

– Ve l'ho detto. E venuto in California circa un anno fa. Ha cominciato a lavorare subito perche, praticamente, aveva gia l'impiego prima di partire.

– Scriveva spesso a casa? Prima di smettere di scrivere, intendo.

– Tutte le settimane. A volte anche piu spesso. Scriveva a turno alla mamma e a me. Ma le lettere erano per tutt'e due, naturalmente.

– Di che trattava?

– Volete dire che cosa trattava nelle sue lettere?

– Che cosa credevate che intendessi?

– Be', non e necessario che alziate la voce. Ci raccontava del suo lavoro, delle officine, dei suoi colleghi, e, ogni tanto, di qualche spettacolo al quale aveva assistito. Oppure ci parlava della California. Parlava anche della chiesa, a volte!

– Ragazze niente?

– Non credo che Orrin s'interessi molto, alle ragazze.

– Da che e in California ha mai cambiato indirizzo?

La ragazza tentenno il capo, perplessa.

– E molto che ha smesso di scrivere?

La risposta richiese un certo periodo di meditazione. La signorina Quest strinse la bocca e premette la punta d'un dito nel bel mezzo del labbro inferiore.

– Circa tre o quattro mesi – disse, infine.

– In che data era la sua ultima lettera?

– Ma… ecco… temo di non ricordarla, con esattezza. Ma, come vi ho detto, saranno tre o quattro mesi…

Agitai una mano, per interromperla.

– C'era niente di eccezionale, in quell'ultimo messaggio? Qualcosa di insolito, che diceva, o non diceva?

– Ma… no, era come tutti gli altri.

– Non avete amici o parenti, in questa parte dell'America?

Lei mi lancio un'occhiata strana, fece per dire qualcosa, poi scosse il capo, bruscamente.

– No.

– Benissimo. Ora vi diro che cosa non va. Sorvoleremo sul fatto che non mi avete voluto rivelare il vostro indirizzo, dato che, probabilmente avete solo temuto che mi presentassi con un htro di liquore sotto il braccio e cercassi di portarvi a nanna.

– Non e un modo simpatico di parlare, il vostro.

– Niente di quel che dico e simpatico. Io non sono una persona simpatica. Secondo i vostri canoni nessuno, che non possieda come minimo tre libri di preghiere, e simpatico. Pero io sono un tipo indagatore. Quello che stona, nel quadro, e il fatto che non abbiate paura. Ne voi, personalmente, ne vostra madre. E invece dovreste avere una fifa d'inferno.

Lei si strinse la borsa al petto, con le piccole dita dure.

– Volete dire che gli e successo qualcosa? – la sua voce si perse in una sorta di malinconico mormorio, come quella d'un imprenditore di pompe funebri che chiede un pagamento in contanti.

– Per ora non mi consta. Ma se fossi nei panni vostri, sapendo che tipo era Orrin, e vedendo cessare le sue lettere di colpo dopo che eran sempre arrivate cosi regolarmente… be', non credo che avrei aspettato le vacanze estive, per mettermi in giro a far domande. Non credo che avrei scartato la polizia, che ha un'intera organizzazione, apposta per ritrovare le persone scomparse, per rivolgermi invece a un agente sconosciuto, che lavora da solo e chiedergli di frugare nel fango per suo conto. E non riesco a immaginare la vostra dolce vecchia mamma, che se ne sta seduta, una settimana dopo l'altra, a Manhattan, Kansas, ad agucchiare la biancheria d'inverno del curato. Niente lettere da Orrin. Nessuna notizia. E lei tira un profondo sospiro, e rammenda un altro paio di mutande.

La ragazza balzo in piedi, di scatto.

– Siete un essere disgustoso, rivoltante! – esclamo, con rabbia. – Siete un miserabile! Vi proibisco di dire che io e mamma non eravamo in pena! Ve lo proibisco, assolutamente!

Spinsi i suoi venti dollari un po' piu avanti, dall'altro lato della scrivania.

– Voi eravate in pena per il valore di venti dollari, dolcezza – le dissi.

– Ma la ragione, proprio, non la so. E in fondo non ci tengo nemmeno a saperla. Su, rimettete questa parte del malloppo nel vostro tascapane, e dimenticatevi di avermi incontrato. Puo darsi che domani decidiate di prestarlo a un altro investigatore.

Lei chiuse la borsa sul danaro, di scatto, con un gesto cattivo.

– Non e molto probabile che dimentichi la vostra villania – sibilo fra i denti. – Nessuno ha mai osato parlarmi cosi.

Mi alzai e girai pigramente attorno alla scrivania.

– Non ci pensate troppo. Puo darsi che finisca col piacervi.

Alzai una mano, e le strappai gli occhiali. Lei fece un mezzo passo indietro, inciampo e io le passai un braccio intorno alle spalle per puro istinto. Gli occhi le si fecero piu grandi. Mi appoggio le mani contro il petto e mi respinse. Sono stato respinto con maggior forza da un micino.

– Senza le lenti questi occhioni sono davvero notevoli – esclamai in tono di riverente ammirazione.

Lei si mise tranquilla, porto il capo all'indietro e schiuse leggermente le labbra.

– Immagino che facciate cosi con tutte le clienti – disse con voce soffocata. Aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi. La borsa mi sbatte con violenza contro una gamba. La ragazza si appoggio al mio braccio con tutto il suo peso. Se voleva che la lasciassi andare aveva sbagliato tecnica.

– Non volevo che perdeste l'equilibrio – spiegai.

– Lo sapevo che eravate un tipo previdente. – La signorina Quest si abbandono, ancora. Getto il capo decisamente all'indietro. Le palpebre si abbassarono, ebbero come un palpito, e le labbra si apersero un tantino di piu. Su di esse apparve il sorriso vago, provocante, che le donne non hanno bisogno di imparare da nessuno.

– Certo credete che l'abbia fatto apposta.

– Che cosa?

– Di inciampare.

– Be'… ecco…

Mi passo rapidamente un braccio attorno al collo e comincio a tirare.

Cosi la baciai. Non c'era niente da fare. O baciarla o darle una mazzata in testa. La ragazza premette forte la bocca contro la mia, per un lungo istante, poi, quietamente, molto a suo agio, si annido fra le mie braccia, e trasse un lungo sospiro.

– A Manhattan, Kansas, potreste venire arrestato, per quel che avete fatto – disse.

– Se ci fosse un po' di giustizia, dovrei essere arrestato solo perche mi trovo a Manhattan, Kansas.

Lei diede una risatina e mi premette un dito sulla punta del naso.

– Immagino che preferiate le ragazze facili – osservo, guardando in su, verso il mio viso con la coda dell'occhio. – Ma almeno con me non dovete pulirvi la bocca dal rossetto. Chissa, forse la prossima volta me ne mettero un po'.

– Forse ci conviene sederci sul pavimento – dichiarai. – Comincio ad avere il braccio stanco.

La ragazza diede un'altra risatina e si sciolse agilmente dall'abbraccio.

– Penserete che io sia stata baciata un'infinita di volte – mormoro.

– E quale ragazza non lo e stata?

Lei accenno di si, e mi lancio un'occhiata dal sotto in su, in modo che le ciglia le ombreggiassero l'iride.

– Anche alle feste di parrocchia si fanno dei giochi di societa che finiscono con un bacio – disse.

– Altrimenti non ci andrebbe nessuno – replicai.

Ci guardammo un istante, senza nessuna espressione particolare.

– Be-e-e-ene… – comincio finalmente la ragazza. Le restituii gli occhiali e lei se li infilo. Aperse la borsa, si guardo in uno specchietto, poi frugo nell'interno e ne trasse il pugno chiuso.

– Mi spiace d'essere stata cattiva – affermo, e fece scivolare qualcosa sotto la cartella della scrivania. Mi regalo un altro breve, fragile sorriso, poi si diresse alla porta e l'aperse. – Vi telefonero – promise in tono d'intimita. E se ne ando tacchettando lungo il corridoio.

Tornai alla scrivania, sollevai la cartella e lisciai le banconote accartocciate. Non era stato gran che, come bacio, ma a quanto pareva mi si offriva un'altra opportunita di metter le mani su quei venti dollari.

Il telefono squillo prima che io cominciassi a preoccuparmi seriamente del signor Lester B. Clausen. Alzai il ricevitore con un gesto assente. La voce che udii era spiccia e decisa, ma mi giungeva rauca e soffocata, come se dovesse farsi strada attraverso una tenda o una lunga barba bianca.

– Marlowe?

– In persona.

– Avete una cassetta di sicurezza, Marlowe?

Ne avevo abbastanza di far l'educato, per quel pomeriggio.

– Smettetela di chiedere e cominciate a spiegare – dissi.

– Vi ho rivolto una domanda, Marlowe.

– E io non ho risposto – replicai. – Cosi. – Premetti con una mano la forcella del telefono, e la tenni abbassata, mentre con l'altra cercavo una sigaretta. Sapevo che avrebbe richiamato. Sempre, lo fanno, quando credono di essere tipi duri. Non hanno avuto modo di pronunciare la loro battuta d'uscita. Quando il telefono suono di nuovo cominciai immediatamente a parlare.

– Se avete una proposta da farmi fatela. E fin che non mi avete dato quattrini chiamatemi "signor Marlowe".

– Non lasciatevi trasportare dai nervi amico. Sono in un pasticcio. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno che mi teniate al sicuro una certa cosa. Solo per pochi giorni. E in cambio voi guadagnerete alla svelta una piccola somma.

– Quanto piccola? – M'informai. – E quanto alla svelta?

– Un centone. E qui che vi aspetta. – Sto tenendovelo in caldo.

– Lo sento che fa le fusa – dissi. – E dove mi aspetta?

Era come se ascoltassi quella voce due volte: una volta mentre mi parlava, una volta mentre risuonava nei miei ricordi.

– Camera 32. Terzo piano. Albergo Van Nuys. Bussate: due colpi brevi e due lunghi. Non troppo forte. Ho bisogno di un lavoro spiccio. Quando potete…

– Che cosa volete darmi in custodia?

– Lo saprete quando verrete qui. Vi dico che ho fretta.

– Come vi chiamate?

– Camera trentadue e sufficiente.

– Grazie della compagnia – dissi. – Addio.

– Ehi un momento! Non e quel che pensate voi. Niente di compromettente: ne brillanti ne pendenti di smeraldi. E solo una cosa che per me vale un sacco di soldi, e per gli altri non ha nessun valore.

– L'albergo ha una cassaforte.

– Volete morire povero, Marlowe?

– E perche no? Rockefeller e pur finito cosi. Di nuovo addio. La voce muto. Perse la velatura di raucedine, e disse rapidamente, in tono aspro: – Come vanno le cose, a Bay City?

Non parlai. Rimasi in attesa. Lungo il filo venne una risatina chioccia, sommessa.

– Lo pensavo che questo vi avrebbe interessato, Marlowe. Camera trentadue. Spicciatevi, amico. Venite a rotta di collo.

Udii uno scatto metallico. Riappesi anch'io. Senza nessuna ragione una matita rotolo giu dal piano di vetro e si spezzo la punta sull'aggeggio di cristallo sotto un piede della scrivania. La raccolsi lentamente, con la massima cura, l'appuntii di nuovo al temperamatite automatico avvitato all'intelaiatura della finestra; girandola e rigirandola, per ottenere una punta acuminata e precisa. Poi la deposi nel vassoietto sullo scrittoio, e mi pulii le mani. Avevo tutto il tempo del mondo. Guardai fuori dalla finestra. Non vidi niente. Non udii niente.

Poi, ancora a minor ragione, vidi il viso di Orfamay Quest, senza occhiali, dipinto, rifinito, i capelli biondi, rialzati sulla fronte e una crocchia di trecce, in mezzo alla testa. E gli occhi da alcova. Tutte, pare che debbano averli, quegli occhi. Cercai di immaginare quel viso in un primissimo piano, divorato da un virile campione degli spazi sconfinati del bar di Romanoff.

Ci misi ventinove minuti, per arrivare all'albergo Van Nuys.

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