CAPITOLO IV

La chiave universale del direttore giro silenziosamente nella serratura della camera 14. Spinsi la porta. La camera non era vuota. Un uomo tozzo, robusto, era chino su una valigia, posata sul letto, e dava le spalle all'uscio.

Camicie, calzini e altri capi di biancheria erano stesi sulla coperta e l'uomo stava riponendoli in valigia ordinatamente, senza fretta, fischiettando tra i denti una nenia sommessa, senza melodia.

Quando senti un cardine cigolare si irrigidi. La sua mano sfreccio verso il cuscino.

– Vogliate scusare – esclamai. – Il direttore mi aveva detto che questa stanza era libera.

L'uomo era calvo come un'arancia. Portava un paio di calzoni grigi, con le bretelle di plastica trasparente sopra una camicia blu. La sua mano usci di sotto al cuscino, si accosto al capo e torno giu. L'uomo si volto e aveva i capelli.

Erano incredibilmente naturali: lisci, bruni, senza scriminatura. Lo sconosciuto mi guardo male, da sotto la sua chioma.

– Potevate almeno bussare – protesto.

Aveva la voce profonda, un po' rauca e un viso largo, circospetto, che aveva visto molte cose.

– Perche avrei dovuto? Se il direttore mi ha detto che la stanza era vuota.

Lui accenno di si, soddisfatto, e smise di guardarmi male.

Mi feci avanti, senza essere invitato. Un giornaletto d'amore giaceva a faccia in giu, sul letto, vicino alla valigia. Un sigaro fumava, dentro un portacenere. La stanza era ben tenuta e ordinata, e, per quella casa, pulita.

– Il direttore deve aver creduto che ve ne foste gia andato – dissi cercando di sembrare un elemento pieno di buone intenzioni, con un certo talento per la verita.

– Tra mezz'ora me ne vado.

– Avete niente in contrario se mi guardo un po' attorno?

Lui sorrise, senza allegria.

– Non e molto che siete in citta, vero?

– Perche?

– Siete nuovo di questi paraggi, eh?

– Perche?

– Vi piacciono la casa e il quartiere?

– Non molto – affermai. – La stanza pero mi ha l'aria di andar bene.

– L'uomo sogghigno, mettendo in mostra una rivestitura di porcellana, molto piu chiara degli altri denti.

– Da quanto tempo cercate alloggio?

– Ho appena cominciato. Perche tante domande?

– Mi fate ridere – dichiaro l'uomo, senza ridere. – In questa citta non si stanno ad esaminare le stanze. Si arraffano senza neanche vederle. Questo paesaccio e cosi affollato anche al giorno d'oggi, che io potrei guadagnare dieci dollari solo andando in giro a dire che qui c'e un posto libero.

– E un vero peccato – affermai. – E stato un certo Orrin P. Quest a parlarmi di questa camera. E cosi voi perdete un decione.

– Davvero?

Non aveva battuto ciglio. Non aveva mosso un muscolo. Tanto mi sarebbe valso parlare a una tartaruga.

– Non fate il villano con me – consiglio l'uomo. – Io sono un osso duro, per i villani.

Prese il sigaro dal portacenere di vetro verde e soffio una boccata di fumo. Poi mi fisso, attraverso la nuvola, coi suoi freddi occhi grigi. Io trassi di tasca una sigaretta, e me ne servii per grattarmi il mento.

– Che cosa capita, a quelli che fanno i villani con voi? – m'informai.

– Li costringete a reggervi il parrucchino?

– Lasciate stare il mio parrucchino – fece l'uomo, con violenza.

– Dolentissimo.

– C'e un cartello con "Tutto esaurito", sulla porta – riprese l'uomo. – Come va che voi siete venuto qui a cercare alloggio?

– Non avete capito bene il nome che vi ho detto – insistei. – Orrin P.

Quest. – E gli spiegai come si scriveva. Nemmeno questo lo rese felice.

Vi fu una pausa stagnante, elettrica.

L'uomo si volto di scatto e trasferi una pila di fazzoletti nella valigia.

Quando torno a rivolgersi a me aveva una luce circospetta, negli occhi. Ma erano stati occhi circospetti fin dall'inizio.

– E un vostro amico? – chiese con aria noncurante.

– Siamo cresciuti insieme.

– Un tipo quieto. – Osservo l'uomo, con disinvoltura. – Ho passato giornate intere, con lui. Lavora alla Societa Aerea Cal-Western, no?

– Ci lavorava – corressi.

– Oh. Ha dato le dimissioni?

– L'han licenziato.

Continuammo a fissarci. La cosa non servi a niente, ne a lui ne a me. Ed entrambi l'avevamo fatto troppe volte, in vita nostra, per aspettarci miracoli.

L'uomo si pianto il sigaro in bocca e si sedette sul letto, accanto alla valigia aperta. Lanciai un'occhiata nell'interno e scorsi il calcio quadrato di un'automatica, che spuntava di sotto a un paio di mutande mal piegate.

– Quest se ne e andato da dieci giorni – mormoro l'uomo, pensoso. – E cosi crede che la camera sia ancora libera, eh?

– Anche secondo il registro e libera.

L'uomo emise un mugolio sprezzante.

– Quella spugna, giu dabbasso… molto probabilmente e un mese che non guarda il registro. Ehi, dico… un momento!

Gli occhi gli si fecero piu acuti; una mano vago pigramente verso la valigia aperta e diede un colpetto ancor piu pigro a qualcosa che stava molto vicino alla pistola. Quando la mano si scosto l'arma non era piu in vista.

– E tutta la mattina che ho la testa fra le nuvole altrimenti l'avrei capito subito. Voi siete un piedipiatti.

– Benissimo. Facciamo conto ch'io sia un piedipiatti.

– C'e qualcosa che non va?

– Niente. Solo ero curioso di sapere come mai avevate questa stanza.

– Mi sono trasferito qui dal 15, all'altra parte del pianerottolo. Questo locale e migliore. Ecco tutto. Semplice no? Siete soddisfatto?

– Soddisfattissimo – affermai, tenendo d'occhio la mano, che, volendo, avrebbe potuto tornare vicino alla pistola.

– Che tipo di piedipiatti siete? Della polizia locale? Vediamo un po' la patacca.

Non dissi nulla.

– Non credo che l'abbiate, il pataccone.

– E se ve lo mostrassi, voi sareste il tipo da dire che e falso. Dunque siete Hicks.

Lui parve sorpreso.

– George W. Hicks – ripresi. E scritto nel registro – Camera quindici, piano secondo. Avete appena finito di dirmi che vi siete trasferito qui dal numero quindici. – Mi guardai attorno. – Se aveste una lavagna ve lo metterei per iscritto.

– A rigor di termini non e obbligatorio che si faccia a chi urla di piu – spiego lui. – Certo che sono Hicks. Lieto di conoscervi. Voi vi chiamate?

Mi porse la mano. La presi e la strinsi, ma non con l'aria di aver aspettato con ansia l'evento.

– Marlowe – dissi. – Philip Marlowe.

– Voi sapete qualcosa – dichiaro Hicks, educatamente. – Siete un maledetto bugiardo. Gli risi in faccia. – Non otterrete niente, con quelle arie da menimpipo. Con chi siete in contatto?

Trassi di tasca il portafogli e gli porsi un biglietto da visita dell'ufficio.

Lui lo lesse, con aria pensosa e lo batte, di spigolo, contro il dente di porcellana.

– Puo darsi che e andato da qualche parte senza dirmelo – osservo, in tono meditabondo.

– La vostra grammatica e scarsa, quasi quanto il vostro parrucchino – commentai.

– Non tirate in ballo il mio parrucchino, se non volete guai.

– Mica volevo mangiarlo – ribattei. – Non sono affamato fino a questo punto.

Hicks fece un passo verso di me, lasciando ricadere la spalla destra. Poi contrasse il viso, in una smorfia di collera, e lascio cadere anche il labbro inferiore.

– Inutile picchiarmi, sono assicurato – l'informai.

– Oh, all'inferno. Un altro suonato. – Si strinse nelle spalle e riporto il labbro in posizione normale. – Che cosa c'e sotto, infine?

– Devo trovare Orrin P. Quest.

– Perche?

Non risposi. Dopo un istante lui disse:

– E va be'. Anch'io sono un tipo prudente. Per questo sto traslocando.

– Forse non vi garba l'odore della marijuana.

– Questo ed altro – fece Hicks, con aria vaga. – Ed e la ragione per cui Quest se ne e andato. Un tipo rispettabile. Come me. Credo che un paio di ragazzi "duri" gli abbiano fatto prendere uno spago.

– Capisco – affermai. – Questo spiegherebbe perche non ha lasciato il suo nuovo indirizzo. E perche gli avrebbero fatto prendere uno spago?

– Avete accennato alla puzza della marijuana, vero? Quest non era il tipo da andare a lamentarsi al commissariato, per una cosa del genere?

– A Bay City? E perche avrebbe dovuto? Be', grazie mille, signor Hicks. Andate lontano?

– No. Non molto lontano. Quel tanto che basta.

– In che traffico avete le mani? – gli domandai.

– Traffico? – Hicks pareva offeso.

– Sicuro. Con che sistema fregate il prossimo? Come la tirate a casa, la "grana"?

– Vi siete sbagliato sul mio conto, figliolo. Sono un ottico in ritiro.

– Per questo tenete un'automatica calibro quarantacinque, la dentro? – domandai, indicando la valigia.

– Non c'e niente da dire per quella pistola – replico lui, acidamente.

– E in famiglia da anni. – Poso di nuovo lo sguardo sul mio biglietto da visita. – Investigatore privato, eh? – brontolo con aria pensosa. – Che tipo di lavoro svolgete, principalmente?

– Qualsiasi lavoro, pur che sia ragionevolmente onesto.

Hicks annui.

– "Ragionevole" e una parola discutibile. E cosi pure "onesto".

Gli lanciai un'occhiata di traverso, greve di malignita.

– Quanto avete ragione! – esclamai. – Vediamo di trovarci, un bel pomeriggio tranquillo e discutiamone. – Gli sfilai il mio biglietto da visita di tra le dita e me lo ficcai in tasca. – Grazie per l'intervista.

Uscii, chiusi la porta e rimasi in ascolto. Non so che cosa mi aspettassi di udire. Ma, fosse quel che fosse, non l'udii. Avevo la sensazione che l'altro fosse rimasto esattamente dove l'avevo lasciato, con gli occhi fissi sul punto in cui avevo pronunziato la mia battuta d'uscita. Percorsi il vestibolo con un certo rumore, e mi fermai in capo alle scale.

Una macchina si avvio davanti alla casa e si allontano. In un punto imprecisato una porta si chiuse. Mi diressi in punta di piedi alla camera numero quindici e mi servii del passe-partout per entrare. Poi richiusi a chiave, senza rumore, e rimasi in attesa, vicino al battente.

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