IX

Venerdì 13 aprile 2001, casa di Falcón,

calle Bailén, Siviglia


Si alzò presto; quel peso sullo stomaco era svanito. Passò un'ora sulla cyclette, regolata grazie al computer per eseguire un circuito che simulava un terreno difficile, e la concentrazione richiesta per sfondare la barriera della fatica lo aiutò a pianificare le ore successive. Non sarebbe stata una giornata di vacanza.

Prese un taxi fino alla estación de Santa Justa e bevve un café solo al bar della stazione. L'AVE, il treno ad alta velocità per Madrid, partiva alle 9.30. Aspettò fino alle nove, poi telefonò a José Manuel Jiménez, che rispose come se fosse stato lì ad aspettare lo squillo.

«Diga.»

Falcón si presentò di nuovo e chiese un appuntamento.

«Non ho niente da dirle, Inspector Jefe. Niente che possa aiutarla. Mio padre e io non avevamo più alcun rapporto da trent'anni.»

«Davvero?»

«Tra noi è successo molto poco.»

«Vorrei parlare con lei di questo, ma non al telefono», insistette Falcón. Jiménez non reagì. «Posso essere da lei all'una e andarmene prima di pranzo.»

«Davvero non mi è comodo.»

Falcón era preso da un desiderio sfrenato di parlare con quell'uomo, ma poteva farlo solo nel suo tempo libero. Insistette.

«Sto conducendo un'indagine su un omicidio, signor Jiménez. Un assassinio non è mai comodo.»

«Non posso fare nessuna luce sul suo caso, Inspector Jefe.»

«Devo conoscere lo sfondo, il passato.»

«Chieda a sua moglie.»

«E che cosa sa della sua vita prima del 1989?»

«Perché risalire a tanto tempo fa?»

Ridicolo battagliare così per parlare con quell'uomo. Falcón divenne più determinato.

«Ho un modo curioso ma efficace di procedere nelle mie indagini, signor Jiménez», replicò, tanto per farlo restare all'apparecchio. «E sua sorella? La vede mai?»

L'etere sibilò per un'eternità.

«Mi richiami tra dieci minuti», disse l'altro e riattaccò.

Per dieci minuti Falcón passeggiò avanti e indietro nell'atrio della stazione, pensando a una nuova strategia. Al momento di richiamare aveva una serie di domande allineate come proiettili in una cartucciera.

«L'aspetto all'una», disse Jiménez, e riagganciò.

Falcón comprò un biglietto e salì sul treno. A mezzogiorno l'AVE lo aveva consegnato alla estación de Atocha nel centro di Madrid. Prese la metropolitana per Esperanza, il che gli parve di buon auspicio, e da lì il tragitto fino all'appartamento di Jiménez fu breve.

José Manuel Jiménez lo fece entrare. Era più basso di Falcón, ma di corporatura più robusta e teneva la testa come se dovesse passare sotto una trave o portare sulle spalle un carico. Mentre parlava gli occhi saettavano di qua e di là sotto sopracciglia massicce e scure che evidentemente non erano affidate alle cure della moglie. L'effetto, in luogo di essere furtivo, era di deferenza. Prese il soprabito di Falcón e lo guidò lungo un corridoio dal pavimento di legno fino allo studio, lontano dalla cucina e dalle voci della famiglia, camminando piegato in avanti, come se stesse trascinando una slitta.

Diversi tappeti marocchini ricoprivano il parquet dello studio; la scrivania, in stile inglese, era di noce. Alle pareti, fino alla finestra, scaffali di libri rilegati, strumenti di lavoro di un avvocato. Il caffè fu offerto e accettato. Nei minuti in cui venne lasciato solo, Falcón ispezionò le fotografie di famiglia posate su un mobile con le ante di vetro. Riconobbe Gumersinda con i due figli piccoli. Nessuna di Raúl, e nessuna della figlia in cui la ragazzina avesse più di dodici anni. Le altre, che ritraevano la famiglia di José Manuel Jiménez in varie epoche, culminavano con due foto dei figli diplomati.

Jiménez rientrò con il caffè. Cercarono di manovrare per non urtarsi mentre Falcón ritornava al suo posto e Jiménez sedeva alla scrivania, le mani intrecciate, i bicipiti e le spalle in rilievo sotto la giacca di tweed verde.

«Tra le vecchie foto di suo padre ne ho trovata una di mio padre», esordì Falcón seguendo la sua strategia dell'approccio tangenziale.

«Mio padre possedeva vari ristoranti, sono sicuro che aveva moltissime foto dei suoi clienti.»

E così di suo padre sapeva perlomeno quello.

«Questa non si trovava tra quelle delle celebrità…»

«Suo padre è una celebrità?»

Non avrebbe voluto parlarne, ma Falcón pensò che forse, come aveva dimostrato Consuelo Jiménez, dire qualcosa di sé avrebbe portato a rivelazioni sorprendenti da parte di altri.

«Mio padre era il pittore Francisco Falcón, ma non è per…»

«Allora non sono sorpreso che non fosse sulla parete tra le celebrità», lo interruppe Jiménez. «Mio padre aveva gli interessi culturali di un contadino, quale era in realtà.»

«Ho notato che fumava le Celtas togliendo il filtro.»

«Un tempo fumava le Celtas cortas, che non avevano il filtro ma erano meglio dello sterco secco che aveva dovuto fumare dopo la Guerra civile, diceva lui.»

«Quando aveva fatto il contadino?»

«I suoi genitori avevano un po' di terra dalle parti di Almería, la lavoravano loro. Furono uccisi durante la Guerra civile, andò tutto perduto, e dopo la loro morte mio padre se ne andò. Non so altro. Probabilmente questa è la ragione per cui il denaro era diventato così importante per lui.»

«Vostra madre non…?»

«Dubito che lo sapesse. Comunque sia, a noi non l'ha mai detto. Davvero, non credo che sapesse niente della sua vita prima del loro incontro e mio padre non ne avrebbe certo parlato con i genitori di lei.»

«Si sono conosciuti a Tangeri?»

«Sì. La sua famiglia si era trasferita là all'inizio degli anni '40. Suo padre era un avvocato, era andato a Tangeri, come tutti gli altri, per fare fortuna dopo la Guerra civile che aveva lasciato la Spagna in rovina. Lei era una bambina, poteva avere otto anni, penso. Mio padre entrò sulla scena un po' dopo, forse nel '45. Si innamorò di lei a prima vista.»

«Sua madre era ancora molto giovane, no? Tredici anni?»

«E mio padre ne aveva ventidue. Un rapporto curioso, disapprovato dai genitori di lei. Vollero che aspettasse di avere diciassette anni per sposarsi.»

«Era solo per la differenza di età?»

«Avevano solo quella figlia», spiegò Jiménez, «e non credo che fossero molto contenti della mancanza di retroterra familiare di mio padre. Devono aver capito di che metallo vile fosse fatto. Era anche un uomo che amava l'ostentazione.»

«Era già ricco a quel tempo?»

«Aveva fatto un sacco di soldi laggiù e gli piaceva spendere.»

«Come aveva costruito la sua fortuna?»

«Probabilmente con il contrabbando. Non li aveva fatti legalmente, i soldi, questo è sicuro. In seguito si era dedicato alla finanza, a un certo punto ha perfino posseduto una banca… non che ciò significasse gran che. Entrò anche nel settore edile e immobiliare.»

«Come sa tutto questo?» domandò Falcón. «Lei aveva solo dieci anni quando ve ne andaste e dubito che suo padre le abbia rivelato molto.»

«Ho messo insieme i vari pezzi, Inspector Jefe, così funziona la mia mente. È stato il mio modo di trovare un senso in ciò che è successo.»

Il silenzio scese nella stanza come la notizia di un lutto. Falcón voleva che l'altro continuasse, ma Jiménez stringeva le labbra, cercando il coraggio.

«Lei è nato nel 1950», disse Falcón, incitandolo.

«Nove mesi esatti dopo il loro matrimonio.»

«E sua sorella?»

«Due anni dopo. Per lei ci furono complicazioni nel parto, so che rischiò di morire e che mia madre rimase molto debole. Avrebbero voluto molti bambini, ma mia madre non poté più averne. Anche mia sorella ne subì le conseguenze.»

«Quali?»

«Era una bambina dolcissima, sempre in pena per tutto… gli animali, specialmente i gatti, Tangeri era piena di gatti randagi. Non c'era niente da fare… lei era…» esitò, fece un gesto in aria con le mani, costringendosi a tirare fuori le parole. «Era una semplice, tutto qui. Non stupida, solo… semplice. Diversa dagli altri bambini.»

«Sua madre ha mai recuperato le forze?»

«Sì, sì, le ha recuperate completamente. Lei…» La voce si affievolì, Jiménez contemplò il soffitto. «Rimase perfino incinta un'altra volta. Fu un periodo molto difficile. Mio padre fu costretto a lasciare Tangeri, ma mia madre non poteva muoversi.»

«Quando accadde?»

«Alla fine del 1958. Lui prese con sé mia sorella e io rimasi con mia madre.»

«Dove andò?»

«Affittò una casa in un villaggio sulle montagne sopra Algeciras.»

«Stava scappando?»

«Non dalle autorità.»

«Una questione di affari?»

«Non l'ho mai saputo.»

«E sua madre?»

«Ebbe il bambino, un maschio. Mio padre comparve misteriosamente la notte del parto, era venuto a Tangeri di nascosto. Aveva paura che qualcosa potesse andare male, come la volta precedente, e che lei non sopravvivesse. Lui era…»

Jiménez aggrottò la fronte, come se si fosse trovato davanti a qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione. Sbatté le palpebre, respingendo le lacrime.

«Questo è un terreno molto delicato, Inspector Jefe», disse alla fine. «Credevo che sarei stato contento nell'apprendere che mio padre era morto, che sarebbe stato un sollievo, una liberazione da… Avrebbe voluto dire la fine di tutti questi pensieri incompiuti.»

«Pensieri incompiuti, signor Jiménez?»

«Pensieri che non hanno una fine. Pensieri che sono interminabili, perché non hanno una risoluzione, che lasciano per sempre in bilico.»

Il significato rimaneva oscuro, anche se le parole erano comprensibili, e tuttavia Falcón, senza sapere perché, capiva qualcosa del tormento dell'uomo. Fu a sua volta assalito dai pensieri: la morte di suo padre, le cose non dette, lo studio mai visitato.

«Potrebbe essere lo stato naturale dell'uomo», osservò Falcón. «Provenendo da individui complicati che non possiamo conoscere, saremo per sempre i portatori di cose irrisolvibili. A queste noi aggiungiamo la nostra parte di storie mai chiarite che a nostra volta passiamo alle future generazioni. Forse è meglio essere privi di complicazioni. Come sua sorella, senza l'ingombro del bagaglio di chi ci ha preceduto.»

Sotto i cespugli delle sopracciglia Jiménez lo perforò con occhi simili a quelli di un animale che si stesse nutrendo delle parole uscite dalla bocca di Falcón. Si raddrizzò, l'espressione perse la sua intensità.

«L'unico problema in quel caso», disse, «nel caso di mia sorella, è che la sua mancanza di complessità non le ha permesso di darsi una struttura, le è mancata la possibilità di rimettere ordine al caos dopo il cataclisma avvenuto nella nostra famiglia. Ha perso ogni tenue legame con un'esistenza strutturata e dopo di allora ha fluttuato nello spazio. Sì, credo che la sua follia sia questo… il galleggiare di un astronauta staccato dalla sua navicella spaziale, che rotea in un vuoto schiacciante.»

«Credo che sia andato troppo avanti perché io possa seguirla.»

«È vero», confermò Jiménez, «e so anche il perché.»

«Forse dovremmo tornare a suo padre preoccupato per la possibilità che la moglie non sopravvivesse al parto.»

«Quello che stavo pensando quando l'ho detto, ciò con cui mi stavo confrontando, era l'idea sorprendente, visto come sono andate le cose in seguito, che mio padre fosse in realtà profondamente innamorato di mia madre. È qualcosa che anche ora riesco ad ammettere con difficoltà. Da piccolo, quando mia madre è morta, non lo credevo affatto, credevo anzi che lui avesse deciso di distruggerla.»

«Come è arrivato a quell'idea?»

«Psicoanalisi, Inspector Jefe. Non avrei mai pensato di diventare un candidato per una cosa che consideravo una ciarlataneria. Sono un avvocato, ho una mente organizzata, ma quando sei disperato, e intendo dire colmo di disperazione al punto da non vedere altro che la vita crollare intorno a te, allora riesci ad ammetterlo, allora dici: 'Sono matto e devo parlarne con qualcuno'.»

Jiménez diede quella spiegazione in tono molto personale, come se si rivolgesse a una parte di Falcón che richiedeva un'attenzione particolare.

«Che cosa accadde a sua madre e al bambino?» domandò Falcón.

«Mia madre ebbe bisogno di un po' di tempo per ristabilirsi. Ricordo molto bene quel periodo. Non ci era permesso di uscire di casa, i domestici dovevano dire che non c'era nessuno, i viveri ci arrivavano di nascosto attraverso le case dei vicini. Uomini armati che normalmente sorvegliavano i cantieri stavano di guardia sull'altro lato della strada. Mio padre non faceva che passeggiare avanti e indietro come un leone in gabbia, fermandosi soltanto per sbirciare da una fessura nell'imposta quando gli sembrava di aver udito qualcosa all'esterno. La tensione era pari alla noia; è stato l'inizio della follia nella nostra famiglia.»

«E non ha mai scoperto di che cosa avesse paura suo padre?»

«A quel tempo ero un bambino, non me ne curavo, volevo soltanto evitare di annoiarmi. Più tardi… molto più tardi, ho pensato che fosse importante sapere che cosa avesse spinto mio padre a quegli eccessi. Perciò, trent'anni dopo gli eventi, ho deciso che l'unica persona che potesse darmi una spiegazione era proprio mio padre. È stata l'ultima volta in cui ci siamo parlati su un piano personale. E questa è la magia del cervello umano.»

«Che cosa?» domandò Falcón, drizzandosi di colpo sulla sedia, come se avesse mancato di cogliere un punto vitale.

«Se lì dentro abbiamo qualcosa che non ci piace, ci giriamo intorno per evitarla. È come un fiume che, stufo di scorrere continuamente lungo la stessa ansa, decidesse di deviare il suo corso e di tagliarla fuori. L'ansa diviene uno stagno non più collegato al fiume, un serbatoio di memoria che, non più alimentato, alla fine si secca.»

«Aveva dimenticato tutto?»

«Ha rimosso tutto. Per quanto lo riguardava non era mai accaduto. Mi guardava come se fossi pazzo.»

«Nonostante la moglie morta e la figlia ricoverata a San Juan de Dios?»

«Eravamo nel 1995, allora. Era sposato a Consuelo, una vita diversa. Il passato per lui era distante come… come un'esistenza precedente.»

«Lei è rimasto sorpreso da Consuelo?»

«Dal suo aspetto? Mio Dio, sono rimasto allibito, mi ha messo i brividi. Ho bruciato la foto del matrimonio che mi aveva spedito.»

«E così non ha ottenuto nessuna rivelazione da suo padre?»

«Solo che avevo ritenuto importante una cosa che non lo era. Non esisteva nulla nel mondo di mio padre, per quanto potevo vedere, al quale avrebbe potuto attribuire maggior valore che alla vita di un bambino. Lo avevo capito dal suo silenzio, dalla sua decisa negazione, da tutto il suo modo di essere… da quel matrimonio con una fotocopia della moglie…»

«Ma non poteva essere una tortura per lui?»

«Se per lei il conforto di una bella donna è una punizione… allora, sì.» Jiménez sbuffò per esprimere un moto di derisione. «Mio padre era istintivo come un animale, la sua mente non funzionava come quella di un normale essere umano. Per essere un uomo d'affari di successo, e, mi creda, io lo so, perché lavoro per qualche uomo d'affari di grandissimo successo, non si può ragionare come la gente comune… e per lui era così, infatti.»

«Mi sono perso di nuovo, forse sta pensando troppo in fretta per me.»

Jiménez si sporse verso di lui, un'espressione decisa.

«Non pensi nemmeno per un momento che io non sappia quello che faccio», dichiarò. «Prima d'ora non ho mai parlato di queste cose con nessuno, a parte l'uomo che mi ha sciolto il nodo nel cervello. E sa perché? Perché non vorrei mai infettare la pace mentale di mia moglie con qualcosa di tanto terribile. Getterebbe il buio sulla nostra casa, lasciandoci a brancolare nelle tenebre.»

«Mi dispiace», disse Falcón.

Jiménez raddrizzò le spalle e alzò una mano in segno di scusa, rendendosi conto di essere stato troppo drammatico.

«Lasciammo Tangeri di notte, senza valigie, solo i vestiti che avevamo indosso, l'abito da sposa di mia madre e i suoi gioielli. Al porto era stato tutto pagato, non ci venne chiesto nessun documento. A un certo punto sembrò che dovessero fermarci, ma altro denaro passò di mano e noi salimmo sulla barca e prendemmo il largo. Passammo a prendere mia sorella nel villaggio sopra Algeciras e iniziammo la nostra vita da zingari.

«Non avvertii mai nessun senso di pericolo. Mio padre non passeggiò mai più avanti e indietro come un leone in gabbia, ma quando il suo istinto gli diceva di partire… partivamo. In genere abitavamo in città grandi, passammo un certo tempo qui a Madrid, ma mio padre detestava Madrid. Io credo che lo facesse sentire provinciale, che gli ricordasse chi era.

«Arrivammo ad Almería all'inizio del 1964. Mio padre possedeva un paio di imbarcazioni per la navigazione costiera da Algeciras a Cartagena, ma gli si presentò l'occasione di costruire un albergo sul mare ad Almería, così ci trasferimmo là. Sembrava che a mio padre piacesse l'idea di sistemarci; deve aver pensato che cinque o sei anni di spostamenti fossero sufficienti, il mondo cambiava, i rancori si esaurivano senza il nutrimento della vendetta. Sbagliava. Perciò credevo che fosse importante sapere che cosa mai avesse fatto per rendere altri implacabili al punto che non avrebbero mai cessato di cercarlo. E devo ammettere che ancora me lo chiedo, anche se ho stemperato la morbosità di questo interesse con la convinzione della sua irrilevanza.»

«Perché vuole saperlo?»

«Credo che mi servirebbe per rendermi conto esattamente di che mostro fosse.»

Falcón ebbe un brivido, diviso tra le emozioni contrastanti suscitate dal pensiero che Raúl Jiménez fosse stato un mostro e il ricordo di suo padre che giocava a fare il mostro: che facce terribili assumeva mentre fingeva di divorarlo! Suo padre non sapeva controllarsi, perché ben poco nel suo mondo esigeva il controllo di sé e ben più di una volta sulla schiena di Javier era rimasto il segno dei denti per giorni.

«Si sente bene, Inspector Jefe?»

Falcón sperò di non avere una faccia simile a quelle di suo padre, mascheroni da fontana con lingue sbavanti.

«Pensieri incompiuti», disse.

«Dove eravamo?»

«Almería, 1964», rispose Falcón. «Non mi ha detto come sua madre avesse preso tutto questo girovagare.»

«Dal punto di vista della salute fisica, bene. Se era infelice, non lo dava a vedere né a noi né a lui. D'altronde le mogli non avevano molta voce in capitolo allora. Lei tirava avanti.»

«Suo padre stava costruendo l'albergo?»

«A questo punto dovrei parlarle di Marta. Le ho detto che le piaceva prendersi cura degli altri, ricorda?»

«Dei gatti.»

«Già, i gatti. Una volta partiti da Tangeri, lei trasferì tutte le sue cure su Arturo. Mia madre avrebbe potuto affidarglielo completamente. Marta faceva tutto per lui, era la sua vita. Curioso, no? Marta non aveva bambole, ne riceveva in regalo ma non le guardava nemmeno. La affascinavano di più gli esseri viventi. Strano, non crede, per una creatura così poco complicata?»

«Forse non aveva sviluppato l'immaginazione.»

«Può darsi. L'immaginazione è una cosa complicata, come la vita, del resto.»

«Probabilmente non vi leggeva quello che c'era.»

«Un tempo mi chiedevo che cosa le passasse per la mente.»

«Ora non più?»

«Per i primi vent'anni quasi non ha detto una parola. Poi è accaduto qualcosa. Nel corso del tempo il personale dell'istituto dove si trova è cambiato, non sono molti i giovani disposti a lavorare in un ospedale psichiatrico e così i posti vengono occupati dagli immigrati. Nel caso di Marta si è trattato di un ragazzo del Marocco che aveva portato con sé un gattino e quindi deve essere scattato qualcosa dentro di lei. Si è animata. Forse le ha ricordato i giorni dell'infanzia, i ragazzi della casa e i gatti.»

«Ha parlato?»

«Non erano parole intelligibili — non usava le corde vocali da decenni — però articolava qualcosa. È stato comunque un principio. Da allora non ha fatto grandi progressi. A me non dice niente quando vado a trovarla, forse io le rammento troppo il trauma originario.»

«I medici sapevano quale fosse stato questo trauma?»

«Lo hanno saputo solo tre anni fa e non tutta la storia.»

«Tre anni fa?»

«Quando io stesso ho cominciato a osare affrontare l'argomento. Mi chiedevano chi fosse Arturo: Marta era arrivata fin là. E io li ho rimandati a mio padre, il quale ha negato che nel nostro ambiente familiare vi fosse mai stato qualcuno con quel nome, il che non era vero. Il padre di mia madre si chiamava Arturo. Le ho detto che i suoi genitori erano morti?»

«No.»

«L'anno prima della nascita di Arturo morirono tutti e due a distanza di tre mesi l'uno dall'altro. La nonna di cancro, il nonno di infarto. Credo sia stato per questo che mia madre decise di rischiare.»

«Che cosa ha detto ai medici di Marta?»

«Il mio psicoanalista ha scritto loro una lettera in seguito, per chiarire tutto, ma allora io ho detto soltanto che si trattava di un nostro fratello minore e che era morto.»

«È andata così, non è vero?»

«Suppongo che nel suo lavoro lei venga a contatto spesso con la natura del male assoluto», osservò Jiménez.

«Mi sono imbattuto in cose brutte e in cose folli, ma non sono sicuro di aver conosciuto 'la natura del male assoluto'. Ho indagato su fatti criminali e perciò comprensibili, ma quando si comincia a parlare del male ci si addentra in un terreno metafisico.»

«Il che», chiese Jiménez, «è al di là del campo di azione dell'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla?»

«Non sono un prete», ribatté Falcón. «Se lo fossi stato, forse mi avrebbe aiutato, perché l'omicidio di suo padre è stato il più impressionante di tutta la mia carriera. Quando ho visto la sua faccia e mi sono reso conto di ciò che gli era stato fatto, ho sentito di trovarmi alla presenza di qualcosa di potentissimo. In genere sono molto distaccato nel mio lavoro, ma questa volta sono stato profondamente coinvolto. È una cosa che non vorrei far sapere ai miei superiori.»

Jiménez, seduto di sbieco sulla sedia, le gambe accavallate, aprì e chiuse una mano: Falcón pensò che forse avrebbe voluto sapere ciò che era successo a Raúl, ma che non osasse chiederlo.

«L'animo malvagio conosce profondamente la natura umana», disse Jiménez dopo qualche momento. «È felice quando può crogiolarsi tra vendetta e tradimento, quando può nutrirli, sa istintivamente dove e quando colpire e sa arrivare esattamente al cuore delle… cose. Non hanno ucciso mio padre, il che forse sarebbe stato giusto, non hanno stuprato e ammazzato mia madre o mia sorella o me, il che sarebbe stato ingiusto e crudele. Hanno fatto l'unica cosa che sapevano avrebbe totalmente distrutto la famiglia di mio padre. Hanno preso Arturo. Un giorno lo hanno portato via e da allora non abbiamo mai più saputo nulla né di lui, né di loro.»

Jiménez batté rapidamente le palpebre, sperduto nelle vaste desolazioni della sua incomprensione.

«Vuol dire che lo hanno rapito?»

«Marta mentre andava a scuola accompagnava sempre Arturo alla sua e lo passava a prendere al ritorno. Un giorno non lo trovò a scuola e non era nemmeno a casa. Noi setacciammo la città mentre la mamma chiamava mio padre al cantiere. Arturo aveva sei anni, era ancora piccolo. E lo portarono via.»

Jiménez guardò le foto di famiglia come se la loro preziosità fosse stata sciupata dal veleno della memoria, il labbro inferiore tremante, il pomo di Adamo che andava su e giù.

«La polizia non scoprì niente?» domandò Falcón.

«No», rispose Jiménez. La parola gli uscì di bocca come il respiro di uno spettro.

«Normalmente, quando sparisce un bambino…»

«Non trovarono niente, Inspector Jefe, per la semplice ragione che non era stata data loro nessuna informazione.»

«Non capisco.»

Jiménez si sporse verso di lui appoggiandosi alla scrivania che cigolò: sembrava che gli occhi volessero sfuggirgli dalla testa.

«Mio padre denunciò il rapimento, disse alla polizia che era un mistero e ventiquattr'ore dopo avevamo già lasciato Almería», disse Jiménez. «Non so se lo abbia fatto perché era terrorizzato all'idea che quella gente volesse colpire ancora o se volesse evitare domande da parte delle autorità o per entrambe le ragioni. Ma lasciammo Almería. Passammo due settimane in un albergo di Malaga, io dormivo con Marta, che si era ritratta in se stessa e non parlava più. Mia madre e mio padre erano nella stanza accanto e le urla… i pianti… Mio Dio, è stato terribile. Poi ci portò tutti a Siviglia. Affittammo un appartamento a Triana e qualche mese dopo ci trasferimmo a plaza de Cuba. Mio padre dovette tornare qualche volta ad Almería per sistemare i suoi affari e per comparire davanti alle autorità, e quella fu la fine di Arturo.»

«Ma che cosa disse a voi, alla sua famiglia? Come spiegò quella reazione bizzarra?»

«Non la spiegò. Usò semplicemente la sua rabbia vulcanica per farci capire che dovevamo tutti quanti dimenticarci di Arturo… che Arturo non esisteva.»

«E i rapitori… sta dicendo che non erano arrivate richieste di…?»

«Lei non ha capito, Inspector Jefe», lo interruppe Jiménez, protendendo le mani con un gesto supplichevole sulla scrivania, «non arrivò nessuna richiesta. Era quello il loro prezzo, il loro prezzo era Arturo.»

«Ha ragione. Non capisco. Non capisco niente di tutto questo.»

«Benvenuto nel club: mia madre morta, mia sorella pazza, io. E adesso lei. Nel trasferimento tra Almería e Siviglia perdemmo ogni traccia di Arturo, non portammo con noi nessuna prova della sua esistenza: tutto sparito, fotografie, giocattoli, perfino il suo letto. Mio padre riscrisse la storia di famiglia e lasciò fuori Arturo. Al momento di traslocare nell'appartamento di plaza de Cuba eravamo come morti viventi. Mia madre guardava la strada dalla finestra tutto il giorno, accostandosi di colpo al vetro ogni volta che vedeva passare un bambino; mia sorella rimase muta e dovette essere tolta dalla scuola che aveva appena cominciato a frequentare. Io cercavo di stare lontano di lì il più possibile. Di perdermi, grazie ai miei nuovi amici che non sapevano che avessi avuto un fratello minore.»

«Perdersi?»

«Credo che mi sia successo proprio questo. Mi venne una strana incapacità di ricordare qualsiasi cosa fosse accaduta prima dei quindici anni. I ricordi di molta gente risalgono ai tre, quattro anni, per qualcuno anche al tempo in cui era in culla. Io non ricordavo nulla distintamente, avevo solo vaghe immagini, semplici ombre di ciò che ero stato… Fino a qualche anno fa.»

Falcón cercò di pensare al suo ricordo più lontano e non riuscì a trovare quasi nulla che fosse precedente alla colazione del giorno prima.

«E non ha nessuna idea del perché suo padre avesse preso quella decisione devastante?»

«Presumo che si sia trattato di qualcosa di criminale. Un'indagine seria sul rapimento di Arturo avrebbe necessariamente comportato rivelazioni importanti che con ogni probabilità avrebbero rovinato mio padre… forse sarebbe finito in prigione. Ovviamente doveva avere a che fare con qualche sporca faccenda di Tangeri e forse c'era anche un aspetto morale di non so quale tipo. Comunque sia, mio padre deve aver ragionato nel suo modo particolare, concludendo che, a poche ore dal suo rapimento, Arturo doveva essere già in Nordafrica o certamente su una nave diretta là. Nella sua mente mostruosa deve aver calcolato che la polizia non avrebbe avuto nessuna possibilità, che lui non avrebbe avuto nessuna possibilità.

«Il messaggio dei rapitori era chiaro: questo è il prezzo per ciò che hai fatto. E ora questa è la tua scelta. Lo cerchi e ti rovini o accetti di pagare lo scotto e vai avanti. Non crede che la perfezione di questa scelta terribile partecipi della natura del male assoluto? Gli stavano dicendo: vuoi scegliere il bene o il male? Se scegli il bene, tenterai di ritrovare tuo figlio, farai tutto quanto è in tuo potere e ti rovinerai completamente. Finirai la tua vita in esilio o in prigione, la tua famiglia sarà distrutta. E… qui sta l'orrore della cosa, Inspector Jefe, non riavrai Arturo. Sì, era così, è così che è andata. Lo hanno costretto a scegliere il male e, avendolo fatto, ha dovuto ricorrere a mezzi diabolici per sopravvivere. Si è convinto, e ha convinto noi, che Arturo non era mai esistito, lo ha cancellato e noi con lui. Ci ha costretti a superare la perdita nel suo modo e ha distrutto tutto. Sua moglie e la sua famiglia. E questo deve essere stato il suo ragionamento conclusivo: dato che Arturo è morto, che la mia famiglia sarà distrutta qualsiasi cosa io faccia, che cosa conviene a me

Jiménez alzò una mano, col palmo all'insù come se soppesasse qualcosa, la sollevò in alto: «La leggerezza di piuma del bene morale?»

Alzò l'altra e la lasciò ricadere con un tonfo sulla scrivania: «O il peso dorato del potere, della posizione e della ricchezza?»

Muti, i due uomini contemplarono la disparità tra i due piatti della bilancia.

«Pensavo», disse Falcón nel silenzio rilegato in pelle tra le pareti coperte di libri, «pensavo che avessimo superato il tempo della tragedia, che vivessimo in un'era in cui le figure tragiche non potessero più esistere. Non abbiamo più re o grandi guerrieri che possano cadere da tali altezze a tali profondità. Oggi noi ammiriamo attori del cinema, sportivi e uomini d'affari, personaggi privi, in certo modo, della stoffa di cui è fatta la tragedia, eppure… suo padre. Suo padre mi colpisce come una bestia rara, la figura tragica moderna.»

«Vorrei soltanto che la tragedia rappresentata non fosse quella della mia vita», osservò Jiménez.

Falcón si alzò per accomiatarsi e vide il suo caffè freddo e intatto sul bordo della scrivania. Strinse la mano di Jiménez a lungo, per dimostrargli la sua gratitudine.

«Per questo le ho chiesto di richiamarmi», disse Jiménez, «dovevo parlare con il mio analista.»

«Per chiedergli il permesso?»

«Per vedere se mi giudicasse pronto. Mi è sembrato ritenesse una buona idea che l'unica altra persona ad apprendere da me la storia della mia famiglia fosse un poliziotto.»

«Per agire di conseguenza, vuol dire?»

«Perché un poliziotto sarebbe stato legato al segreto professionale», rispose serio il legale.

«Preferisce che non dica nulla di tutto questo a Consuelo?»

«Servirebbe a qualcosa, se non a spaventarla a morte?»

«Ha avuto tre figli da suo padre.»

«Non riuscivo a crederci quando l'ho saputo.»

«Come l'ha saputo?»

«Mio padre mi ha mandato due righe a ogni nascita.»

«È stata lei a obbligarlo, era una condizione per il matrimonio.»

«È comprensibile.»

«Mi ha anche detto che suo padre aveva l'ossessione della sicurezza, aveva installato nell'appartamento una porta superblindata e si accertava personalmente che fosse chiusa ogni sera.»

Jiménez contemplò la superficie della scrivania.

«Mi ha detto anche un'altra cosa che dovrebbe rivestire un certo interesse per lei…»

La testa di Jiménez si rialzò su un collo molto stanco, un lampo di paura negli occhi: non voleva sapere nulla che potesse comportare una modifica della visione degli eventi da lui appena costruita. Falcón scrollò le spalle per tranquillizzarlo.

«Mi dica», lo invitò l'altro.

«Consuelo ha detto che il socievole proprietario di ristoranti che era suo marito, con la sua raccolta di foto sorridenti, era un uomo che viveva nella più abietta infelicità.»

«E così alla fine è toccata anche a lui», commentò Jiménez, senza soddisfazione. «Ma probabilmente non sapeva che cosa fosse.»

«Ha detto anche un'altra cosa. Si tratta di un particolare del testamento. Suo padre ha lasciato una donazione alla sua istituzione benefica prediletta, Nuevo Futuro — Los niños de la calle.»

Jiménez scosse il capo, se per la pena o per l'incredulità era difficile a stabilirsi. Girò intorno alla scrivania per accompagnare Falcón alla porta, precedendolo lungo il corridoio con il suo passo affaticato. Quel passo era stato diverso prima della psicoanalisi, si domandò Falcón? Forse prima camminava curvo, come se portasse un grave fardello, e ora perlomeno il fardello era dietro di lui. Jiménez prese il soprabito dell'Inspector Jefe, lo aiutò a indossarlo. Una sola domanda era ancora in bilico nella mente di Falcón. Rivolgerla o no?

«Ha mai pensato», disse, «che Arturo potrebbe essere ancora vivo? Avrebbe quarantadue anni ora.»

«L'ho pensato, sì», rispose Jiménez. «Ma sto meglio da quando ho raggiunto un senso di conclusione.»

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