ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN

2 novembre 1946, Tangeri

Ieri è venuto da me un americano. Un campione di umanità di notevoli dimensioni. Si è presentato come Charles Brown III e mi ha chiesto di vedere i miei lavori. Parlo meglio inglese da quando il Café Central si è riempito di americani. Non voglio che frughi tra i miei disegni, così gli dico che desidero mostrarglieli per bene e di tornare nel pomeriggio. Questo mi dà il tempo di scoprire da R. che quel tipo rappresenta Barbara Hutton, la nuova regina della casbah. Sistemo i lavori che voglio mostrargli, quando si ripresenta entriamo nello studio e io dico: «È tutto in vendita tranne quello», cioè il disegno di P.

Corrono voci che dentro il palazzo di Sidi Hosni vi siano ricchezze al di là di ogni immaginazione, perfino dell'immaginazione di R. In ognuna delle trenta stanze sembra che si trovi un orologio da caminetto di Van Cleef Arpels costato diecimila dollari. Chiunque sia disposto a spendere un terzo di milione di dollari per sapere che ora è non può che giudicare le cose unicamente sulla base del loro prezzo. «Non ti comprerà un disegno se chiederai solo venti dollari», dice R. «Non sa nemmeno che cosa siano venti dollari, per lei equivalgono a un centavo per noi.» Ribatto che non ho mai venduto nulla nella mia vita. «Allora non devi vendere il tuo primo lavoro a meno di cinquecento dollari.» Mi insegna tecniche di vendita che io metto in pratica. Seguo Charles Brown nel giro dello studio, parlando dei miei lavori, ma capisco benissimo il suo desiderio spasmodico di tornare al disegno di P. Alla fine mi chiede. «Tanto per curiosità, quanto costerebbe il disegno a carboncino del nudo?» Gli dico che non è in vendita. Non ha prezzo. Lui continua a ripetere «tanto per curiosità» e io dico che non lo so. Torna davanti al disegno. Io faccio come ha detto R. e non lo seguo, ma rimango a fumare all'altro capo della stanza con l'aria di uno che si sta divertendo, anche se in realtà vorrei soltanto scoppiare come un pallone pieno d'acqua in modo che di me rimanga soltanto una pozza di gratitudine e una vescica.

«Sa», dice l'americano, «è tutto molto interessante. Mi piace. Davvero. L'intersecarsi delle forme nella tradizione moresca, il caos organizzato, i paesaggi desolati. Mi danno emozione. Ma qui non si tratta di me, io compro per i miei clienti e i miei clienti non vogliono cose intellettuali, fredde… non i clienti che vengono a Tangeri. Questi vengono qui per… come posso dire? Vengono per la promessa dell'Oriente.»

«Sulla punta nordoccidentale dell'Africa?»

«È un modo di dire», fa lui, «significa che vogliono qualcosa di esotico, di sensuale, di misterioso… già, è il mistero che cercano. Perché 'questo' non è in vendita?»

«Perché è importante per me. È uno sviluppo nuovo e recente.»

«Sì, lo capisco. Gli altri disegni sono perfetti… un'osservazione meticolosa. Ma questo… questo è diverso. Svela e, sì, proibisce. Forse è questo, la natura del mistero è che rivela qualcosa di sé, attira, ma alla fine proibisce l'accesso definitivo alla conoscenza.»

Per caso Charles Brown ha fumato? mi domando. Ma è sincero, di nuovo insiste per avere un prezzo, e io non cedo. Mi dice che il suo cliente deve assolutamente vedere questo lavoro. Io rifiuto di farlo uscire dallo studio. Termina la discussione dicendo: «Stia tranquillo, porterò la montagna a Maometto».

Se ne va, dopo avermi stretto la mano umidiccia. Tremo per l'eccitazione, sono in un bagno di sudore tanto che mi spoglio completamente e mi stendo, nudo, sul pavimento. Fumo una sigaretta di hashish, una della mezza dozzina che mi preparo tutte le mattine. Guardo il disegno di P. Priapo non è nulla al mio confronto, e, come per telepatia, arriva un ragazzo mandatomi da C, che dà sfogo alle valvole.


4 novembre 1946, Tangeri

Rimango nella mia camera per due giorni in uno stato di voluta noncuranza, l'orecchio addestrato e perfettamente sintonizzato sul più lieve colpetto alla porta di casa. Mi addormento e quando qualcuno bussa davvero mi proietto fuori dal sonno come un uomo appena estratto dalla nave che affonda. Armeggio con il chiavistello e cerco di vestirmi allo stesso tempo, una scena comica, perché a svegliarmi è stato il ragazzo di casa che ora è in piedi accanto al mio letto con una busta in mano. All'interno un biglietto con caratteri dorati in rilievo, un biglietto di Barbara Woolworth Hutton. La signora scrive di suo pugno per chiedere il permesso di fare visita a Francisco González nel suo studio il 5 novembre 1946 alle 14.45. Mostro il cartoncino a R. che rimane impressionato, lo capisco benissimo. «C'è un problema», dice. A R. piacciono i problemi e per questo ne crea in continuazione. Il problema è il mio nome.

«Nominami un González che abbia fatto qualcosa di notevole nel mondo dell'arte», dice R.

«Julio González, lo scultore», dico.

«Mai sentito», dice R.

«Lavorava con il ferro, forme geometriche astratte. È morto quattro anni fa.»

«Sai che impressione fa a me Francisco González? L'impressione di un venditore di bottoni.»

«Perché di bottoni?» domando, ma lui mi ignora.

«Qual è il nome di tua madre?»

«Non posso usare il nome di mia madre», dico.

«Perché no?»

«Non posso e basta.»

«Ma qual è?»

«Falcón», rispondo.

«No, no, no, que no… esto es perfecto! Francisco Falcón. Da ora in poi questo sarà il tuo nome.»

Cerco di dirgli che non è possibile, ma non voglio rivelare di più, perciò accetto il mio destino. Sono Francisco Falcón e devo ammettere che il nome ha qualcosa… a parte l'allitterazione, ha anche ritmo, come Vincent van Gogh, Fabio Picasso, Antoni Gaudi, perfino il più semplice Joan Miró… hanno tutti il ritmo della fama. A Hollywood l'hanno capito e per questo abbiamo Greta Garbo e non Greta Gustafson, Judy Garland e non Frances Gumm: Frances Gumm assolutamente no.


5 novembre 1946, Tangeri

È venuta come aveva detto e io sono completamente impazzito. Stasera non ho fumato, non voglio che lo scintillio di diamante di questo momento si perda nei fumi dell'hashish. È arrivata, accompagnata da Charles Brown, monumentale accanto a lei e di una deferenza totale. Sono colpito dalla straordinaria grazia ed eleganza della signora, dalla perfezione del suo vestito, dalla morbidezza dei guanti, probabilmente fatti con la pelle delicata del ventre di un capretto di cinque settimane. Ciò che mi piace di più in lei è la naturale espressione di disapprovazione. La sua ricchezza, che la incornicia come un'aura e la separa dai comuni mortali, l'ha resa esigente, ma quando cade, credo che si faccia molto male. I suoi tacchi risuonano costosamente sui miei pavimenti di piastrelle di ceramica. Dice: «Eugenia Errázuriz si innamorerebbe di questo pavimento». Chiunque essa sia.

Io sono ipnotizzato da lei, ma stupisco me stesso perché non sono ammutolito come al solito mentre l'accompagno nello studio. La mia tecnica ormai è più raffinata di quella di R. e questa volta il disegno di P. non è nemmeno esposto. La signora fa il giro della stanza mettendo con cura un piede davanti all'altro mentre Charles Brown le mormora qualcosa all'orecchio che immagino rivestito di madreperla. Lei ascolta e annuisce. È interessata alle forme moresche, passa rapidamente davanti ai cupi paesaggi russi, indugia davanti ai disegni di Tangeri. Gira sui tacchi. Si è tolta i guanti che tiene mollemente nella mano piccola e bianca. «Questi disegni sono eccellenti», dice. «Notevoli. Originali. Davvero diversi. Emozionanti. Ma Charles mi dice che lei ha qualcosa che supera perfino l'eccellenza di questi lavori che ha avuto la bontà di lasciarmi vedere.»

«So a che cosa si riferisce. Ho detto al signor Brown che non era in vendita, perciò ho ritenuto che non fosse corretto mostrarglielo.»

«Desidero solo vederlo», dice lei. «Non vorrei mai portarle via una cosa che per lei è tanto importante.»

«Allora è inteso. Mi segua», dico.

Ho sistemato il disegno in modo che sia perfettamente illuminato, in fondo a un lungo corridoio in penombra, contro una parete di mattoni a vista sormontata da un arco bianco quasi ricamato da decenni di mani di calce. Quella parte della casa è molto buia e, trovandoselo davanti all'improvviso, sapevo che sarebbe stata attratta dal disegno come una falena dalla fiamma. Non mi sbaglio. E — ne sono quasi certo — nel vederlo emette addirittura un piccolo gemito di piacere. Si avvicina al disegno e leggo nei suoi occhi che è perduta. Il mio lavoro è fatto. Indietreggio e la lascio sola. Non si muove per dieci minuti. Poi china la testa e si gira. Quando siamo sulla porta di casa vedo che le brillano gli occhi. «La ringrazio tanto», dice. «Spero che mi farà l'onore di essere mio ospite a cena una di queste sere.» Mi porge la mano. Mi inchino e gliela bacio.


6 novembre 1946, Tangeri

Il giorno comincia con un invito a cena da parte di B.H. Un'ora dopo arriva Charles Brown. Organizzo un tè alla menta e fumo una sigaretta. La conversazione è lunga e tortuosa e comprende domande relative al mio passato su cui mento spudoratamente, improvvisando, sicuro che sia meglio così, che in quel modo nessuno mi conoscerà mai davvero, compreso possibilmente io stesso, e conserverò quell'aura di mistero che diventerà il segno distintivo della mia opera. Mi perdo in questo pensiero: anche quando io me ne sarò andato e si faranno studi eruditi e laboriosi per arrivare in fondo a Francisco Falcón (ecco, ci siamo, la trasformazione è già avvenuta, l'ho scritto senza pensare, Francisco González è scomparso), quando gli strati della cipolla saranno stati sbucciati l'uno dopo l'altro per arrivare al cuore della verità, ci si accorgerà, come sempre avviene con una cipolla e come sanno tutti, che la verità non è nulla. Quando l'ultima buccia sarà stata tolta non si troverà niente. Nessun messaggio. Niente. Io non sono niente. Noi non siamo niente. Rendermi conto di questo mi dà una forza enorme, sperimento un immenso slancio di libertà immorale. Per me non esistono regole. Ritorno a C.B. con un soprassalto. Mi sta chiedendo se io sia disposto a portare il disegno con me per mostrarlo agli altri ospiti. È una cosa che mi indebolirebbe psicologicamente, perciò rifiuto di nuovo. Ci dirigiamo alla porta e lui dice: «Si rende conto che la signora Hutton sarebbe disposta a spendere una grossa somma per il suo lavoro?»

«Nessuno può avere dubbi sui mezzi di cui dispone la proprietaria del palazzo di Sidi Hosni», dico.

Riserva il dardo finale all'ultimo momento.

«Cinquecento dollari», dice e si allontana lungo la stretta via, svolta a sinistra e risale verso la casbah.

Faccio appello a tutto il mio controllo per non richiamarlo.


11 novembre 1946, Tangeri

Avrei dovuto scrivere la notte scorsa, quando la perfezione della serata era ancora fresca nella mia mente. Sono rientrato così ubriaco e in un tale stato di eccitazione che ho dovuto fumare parecchie pipe di hashish per riuscire ad addormentarmi. Un sonno irrequieto dal quale mi sono svegliato intontito, con ricordi a sprazzi anziché ancorati ai fatti.

Arrivo al cancello del palazzo di Sidi Hosni, mostro l'invito e un Tanjawi in livrea, con i pantaloni bianchi, mi fa entrare. Immediatamente mi trovo in un mondo di sogno dove vengo passato da un servitore all'altro attraverso una serie di sale e di cortili per i quali non sono state risparmiate spese dal precedente proprietario di cui mi sfugge il nome. Blake? O era Maxwell? O forse tutti e due.

Il palazzo è formato da parecchie case diverse tutte collegate a una struttura centrale verso la quale sono condotto. L'effetto è disorientante, magico e misterioso. È un microcosmo dell'animo marocchino. Il servitore mi lascia in una stanza dove alcuni ospiti si comportano come se fossero a un cocktail party e altri come se si trovassero in un museo. Hanno tutti ragione. Indosso un completo, ma sono molto scuro di pelle per via della vita all'aria aperta e questo mi distingue tra gli invitati, in predominanza dalla carnagione chiara. Una signora sta quasi per chiedermi un drink, ma si accorge all'ultimo momento che non porto i guanti, né il fez. Mi domanda allora di che legno sia fatto il pavimento. C.B. viene in mio soccorso e mi fa fare il giro della stanza presentandomi agli altri. A ogni presentazione si leva un brusio che sale fino ai lampadari (che saranno sostituiti da altri in vetro di Murano) come uno stormo di colombe. Mi rendo conto che la cena è stata organizzata per me, per presentarmi in società, per adularmi. Mi mettono in mano un bicchiere. Il tasso alcolico è feroce. Il colossale C.B. mi tiene una mano sulla spalla come se fossi la sua statua formato minore e, se mi si versasse dentro un altro po' di bronzo, sento che potrei dominare una piazza grande come la sua. ha padrona di casa non compare ancora. Sono male attrezzato per l'occasione, non per mancanza di qualcosa da dire, ma per mancanza di maniere adatte al bel mondo. Si parla di New York, di Londra, di Parigi, si parla di cavalli, di moda, di yacht, di proprietà, di soldi. Mi vengono dette cose sulla nostra ospite, che ha donato la sua casa di Londra allo stato americano, che l'arazzo alla parete è un Qom, che i mobili intarsiati sono di Fez, la testa di bronzo del Benin. Sanno tutto del mondo di B.H., ma nessuno di loro è mai penetrato sotto il carapace della sua grande ricchezza. Ma io sì. E per questo sono qui. C.B. III ha detto a tutti, anche se non proprio con queste parole, che io ho sfondato il guscio e l'ho fatto con il più semplice e nel contempo il più seducente disegno a carboncino, un disegno che con la sua forza rivela più dell'intero palazzo di Sidi Hosni ristrutturato all'infinito, realizzato con tanto impegno, così massicciamente sovraccarico. Mentre giro per la sala raccolgo inviti per altre occasioni mondane e una quantità di approcci sessuali da parte delle donne. La stessa depravazione che cola spessa e tenebrosa nei vicoli di Soco Chico è presente anche qui dietro le mura dorate della dimora principesca del vecchio santo musulmano, Sidi Hosni.

B.H. viene subito da me, la mano tesa. Gliela bacio. Siamo al centro dell'attenzione. Dice: «Ho qualcosa da farle vedere». Usciamo dalla stanza. Lei si dirige a una porta davanti alla quale sta di guardia un nubiano alto, nerissimo, in pantaloni bianchi ma nudo fino alla cintola. B.H. gira la chiave, il battente è aperto dal nubiano e noi entriamo nella sua galleria privata. Alle pareti un Fragonard, un Braque, perfino un El Greco. Un quadro di quel tremendo imbroglione di Salvador Dalí, un Manet, un Kandinsky. Sono stordito. Vedo anche disegni, uno di Picasso e altri che, mi viene detto, sono di Hassan el Glaoui, il figlio del pascià di Marrakech. Poi arriviamo al momento clou dell'intera serata. B.H. mi porta verso uno spazio vuoto sulla parete. «Qui», dice, «voglio mettere qualcosa che riassuma i miei sentimenti verso il Marocco. Deve essere sfuggente, concreto eppure intoccabile, deve rivelare se stesso eppure essere incomprensibile, accessibile eppure proibito. Deve allettare come la verità che, quando si crede di poterla toccare, fugge via.» Non erano tutte parole sue, qualcuna era di C.B. e mi sembra che altre siano state inserite da me. Finisce con le parole: «Voglio che il suo disegno faccia parte di questa collezione». È un attacco programmato. So che devo cedere, resistere ancora rischierebbe di irritare i miei assalitori. Faccio segno di sì. Acconsento. Lei mi afferra il braccio al bicipite. Fissiamo incantati lo spazio sulla parete. «Parlerà con Charles per i particolari. Voglio che lei sappia che mi ha reso felice.»

Il resto della serata è trascorso in un azzurro cristallino quale potrebbe trasparire attraverso un torrente di vetro veneziano. Un effetto in gran parte dovuto alla furia dell'alcol nelle bevande. Quando me ne sono andato, B.H. si era già ritirata da tempo. C.B. mi ha preso da parte e mi ha detto che avevo reso molto generosa la signora Hutton. «Sa ricompensare il genio. Ho ricevuto istruzioni di non mercanteggiare, ma semplicemente di darle questo.» Era un assegno di mille dollari. Verrà domani mattina a prendere il disegno. Ora valgo un decimo di un orologio di Van Cleef Arpels.


23 dicembre 1946, Tangeri

Ancora nessuna notizia di Pilar. Sono disperato. Cerco di lavorare, cerco di tradurre in pittura ciò che ho visto quel lontano pomeriggio, ma non riesco. Fra semplice ed è divenuto complicato. Ho bisogno che P. ritorni e mi ricordi quello che ho visto quel giorno. Ho rinunciato alla mondanità, mi annoiano le sue buone maniere. Sono stato molto ricercato dopo il mio trionfo con B.H., ma ora la bestia affamata si e spostata altrove. Sono sollevato ma ancora travolto.


7 marzo 1947, Tangeri

Ho smesso di lavorare. Siedo davanti ai sette disegni rimasti di P. senza una sola idea in testa. Ho perfino provato a lavorare sotto l'effetto del majoun. Dopo una seduta di lavoro torno alla realtà per scoprire che ho dipinto sette tele nere. Le appendo in una stanza imbiancata a calce e sto lì in piedi tra di esse in uno stato di totale desolazione.


25 giugno 1947, Tangeri

Sono disgustato dalla mia stessa rapacità. L'incapacità di creare ha suscitato in me il bisogno di un cambiamento senza fine. Faccio il giro dei bordelli e do la caccia a nuovi ragazzi, stancandomi di loro immediatamente. Fumo hashish potente e trascorro giornate intere a sventolare come una bandiera nello snervante cherqi che bussa incessantemente alle porte. Ho le braccia deboli, il pene flaccido, passo la notte nel bar Mar La Chica circondato da ubriachi, reprobi, idioti e puttane. Ho smesso col majoun, sotto la sua influenza riesco solo a rivisitare gli antichi orrori: pareti insozzate di sangue, rampe fatte di cadaveri, fango e sangue, carne e ossa imbiancate si agitano dentro la mia testa.


1o luglio 1947, Tangeri

Sono finito, ubriaco, davanti alla porta di casa di R. che mi ha rispedito a lavorare sulle barche.


1o gennaio 1948, Tangeri

Un nuovo anno. «Deve» essere migliore del vecchio. Non riesco ancora ad affrontare la tela vuota. Sono le prime parole che scrivo da luglio. Fisicamente sto meglio, non sono più grasso, ma non ho potuto liberarmi da quel senso di desolazione. Ho cercato di ritrovare P., sono perfino andato a Granada solo per scoprire che la casa era stata venduta e che la famiglia si era trasferita a Madrid, ma nessuno sapeva dove.

Non ho niente da segnalare. Le chabolas spazzate dal vento ai bordi della città non contengono tutta l'infelicità racchiusa nel mio corpo privilegiato. Ho sparso i disegni di P. davanti a me nella speranza di riacquistare lo slancio, ma ho ottenuto l'effetto contrario.

Mi è stato concesso di innalzarmi, mi è stato donato l'immenso privilegio di mettere l'occhio nella fessura e di scorgere la vera natura delle cose e di portarla giù con me, per mostrarla ai comuni mortali. Ma P. ne faceva parte, era la mia musa e io l'ho perduta. Non dipingerò e non disegnerò più, sono destinato al truogolo su cui tutti chinano il capo ogni giorno: mangiare, lavorare, dormire.


25 marzo 1948, Tangeri

Sono così disperato da aggrapparmi anche alle ombre? Vado da tutti i medici della città per vedere se per caso P. stia lavorando per qualcuno di loro. Niente. R. vuole rimandarmi in mare, pur di non vedermi precipitare come un uccello abbattuto da un colpo di sole.


3 aprile 1948, Tangeri

Esco di casa e la vedo lì, in strada, che passeggia avanti e indietro. Sono costretto ad aggrapparmi allo stipite per non cadere, le gambe non mi reggono più. La chiamo, lei non dice nulla e mi precede in casa. Il suo odore mi riempie i polmoni e so di essere stato salvato. Il ragazzo ci prepara il tè alla menta. P. non si mette a sedere nemmeno quando il tè arriva, accarezza la testa del ragazzo, che scivola fuori dalla stanza come se fosse stato sfiorato da un angelo.

Non so da dove cominciare. È come se mi trovassi davanti alle mie tele e la mia mano ne toccasse un angolo, un lato, il centro e non lasciasse nessun segno. Così avevo fatto per ore e quando finalmente avevo deciso in che punto avrei affrontato la tela bianca, bianchissima, non ero riuscito a lasciare nessun segno, sul pennello nessun colore. Così mi sento ora. Mi costringo a parlare.

Io: Sono andato a Granada per cercarti… non avevo più avuto tue notizie.

Silenzio.

Io: Mi hanno detto che tua zia era morta, che tua madre era malata e che vi eravate trasferiti tutti a Madrid.

P.: Era vero.

Io: Non avevano il tuo indirizzo, non c'era modo di mettersi in contatto con te.

P.: Non era vero.

Silenzio.

Io: Come, non era vero?

P.: Sapevano esattamente dove vivevamo. Mio padre aveva lasciato l'indirizzo, ma aveva anche detto di non darlo a nessuno che corrispondesse alla tua descrizione, che fosse arrivato da Tangeri e avesse chiesto notizie di sua figlia.

Io: Non capisco.

P.: Non voleva che ti vedessi mai più.

Io: Era per via di… quei disegni? L'aveva saputo? Aveva saputo che eri stata davanti a me…?

P.: No. Quella era una cosa tra te e me.

Io: E allora che cosa è successo? Non riesco a capire come io possa averlo fatto arrabbiare, abbiamo parlato soltanto della mia schiena…

P.: Mio padre conosceva l'arabo.

Io: Certo, ha vissuto a Melilla. Dov'è tuo padre? Devo parlargli.

P.: Mio padre è morto.

Io: Mi dispiace.

P.: È morto sei mesi dopo mia madre.

Io: Hai sofferto.

P.: Sono stati diciotto mesi di sofferenza. Mi hanno invecchiato e indurito.

Io: Hai l'aspetto di sempre, non si vede dal tuo viso.

P.: Stavo dicendo che mio padre parlava l'arabo e siccome conosceva alcuni dialetti del Rif gli era stato chiesto di lavorare una mattina alla settimana per i poveri delle chabolas, alla periferia della città. La donna americana, La Rica, la signora Hutton, aveva donato del denaro per le medicine e i viveri. Mio padre si è offerto volontario. Ha riscontrato i soliti problemi della gente malnutrita, ma si è imbattuto anche in una quantità sorprendente di mutilazioni. Orecchie, dita, pollici tagliati, nasi spaccati. Nessuno ha voluto dirgli come se le fossero procurate fino a quando non si è presentata da lui una donna che mio padre aveva già visto la settimana prima con il figlio, che aveva perduto un orecchio. Era piena di vergogna all'idea di farsi visitare da un uomo, ma i dolori erano così forti che aveva dovuto cedere. Mio padre le ha chiesto notizie del figlio e perché mai nessuno volesse dirgli niente su quelle mutilazioni. «Non parlano perché è la vostra gente a fare questo.» Mio padre è rimasto allibito. La donna gli ha detto che lì i giovani devono rubare per non morire di fame, gli ha parlato delle mutilazioni che subiscono per dar da mangiare alle famiglie e di come alcuni siano morti in seguito alle ferite. Mio padre era agghiacciato e le ha chiesto chi facesse questo. «Gli uomini che sorvegliano i magazzini.»

Rimango muto. Dentro sono congelato, il petto una caverna di ghiaccio nella quale soffia il vento più gelido. La mia musa è tornata per dirmi che non mi parlerà più.

P.: Un ragazzo con una ferita infetta ha dovuto essere rioperato. Non succedeva spesso, ma in questo caso mio padre era rimasto commosso dal suo coraggio, dal modo in cui sopportava il dolore senza lamentarsi. Il ragazzo è guarito e mio padre lo ha preso a lavorare da noi. Un giorno all'ora di pranzo è scomparso. Lo abbiamo cercato in tutta la casa. Era rannicchiato in fondo alla lavanderia, non riusciva a dire altro che: «Se ne è andato? Se ne è andato?» Il suo era terrore allo stato puro. Gli abbiamo chiesto di chi avesse paura, ma lui rispondeva soltanto: «El Marroquí». È successa la stessa cosa la mattina dopo. Mio padre ha controllato sull'agenda degli appuntamenti e ha visto che quel giorno i suoi unici pazienti erano il signor Cardoso, che aveva ottantadue anni, e… tu.

Il giorno seguente mio padre ha portato il ragazzo al Petit Soco. Eri seduto al tuo solito tavolino al Café Central e il ragazzo ha detto a mio padre che El Marroquí eri tu.

Non riesco a muovermi. Gli occhi verdi sono su di me. So che questo è il momento cruciale, lo so perché tutto precipita intorno a noi come se le nostre due vite si stessero comprimendo in quest'unico istante. Decido di ignorarlo. Mentirò. Proprio come ho mentito con tutti, con C.B., con la regina della casbah, con la contessa de Bibì e con il duca de Bibò. Mentirò. Sono Francisco Falcón. No. Lui è Francisco Falcón. Io non esisto più.

P.: Sei responsabile di quanto è successo a quella gente?

Gli occhi verdi chiedono, supplicano e io so di essere perduto. Mi guardo le mani, che contengono l'acqua della mia vita che ribolle e mi schernisce mentre mi cola tra le dita.

Io: Sì, sono stato io. Ne sono responsabile.

Non se ne va. Mi guarda e io mi rendo conto di aver preso la decisione giusta.

P.: I miei genitori si sono informati discretamente sulla società per cui lavoravi e hanno scoperto che eri un ex legionario e un contrabandista e che era la tua capacità di esercitare la violenza a incutere timore in tutti i vostri nemici e concorrenti. Hanno deciso di mandarmi via. È stata una coincidenza che mia zia si sia ammalata.

Io: Ma perché costringerti a partire? Non bastava proibirti di vedermi?

P.: Perché sapevano che ero innamorata di te.

Finalmente si siede e chiede una sigaretta. Quasi non riesce a prenderla. Gliela accendo e gliela metto tra le dita. Il suo sguardo è fisso sul pavimento. Le dico tutto. Le racconto tutto (o quasi tutto) dell'incidente che mi ha spinto a scappare di casa e a entrare nella Legione, le racconto ciò che ho fatto nella Guerra civile, in Russia, a Krasni Bor. Le spiego perché ho lasciato Siviglia, le parlo di Tangeri… tutto. Le rivelo la mia desolazione, le dico come lei mi sia entrata dentro, come sia la mia struttura portante. Mi ascolta. Il cielo si fa scuro, si leva il vento. Il ragazzo porta altro tè alla menta e una candela. La fiammella tremola nella corrente. Di una sola cosa non le parlo. Le rivelo ogni orrendo particolare, ma non le dico dei ragazzi, non sono cose per un orecchio di donna. Ciò che ho confessato è già di un'enormità così sconvolgente che aggiungervi anche la depravazione mi metterebbe al di là di ogni possibilità di redenzione. Finisco parlandole del lavoro, del fatto che non dipingo più, che non riesco più a progredire dopo quei disegni, le dico che ho bisogno di lei perché solo lei può riaprirmi gli occhi. Ricorda le ultime parole che mi ha rivolto il giorno in cui abbiamo fatto quei disegni? le chiedo. Scuote la testa. Gliele dico: «Ora sai».

Mentre scrivo queste righe lei è distesa sul letto, una forma vaga sotto la zanzariera alla luce della fiamma lunga di una candela. Dorme. Prendo il foglio da disegno e il carboncino.


3 giugno 1948, Tangeri

P. mi dice di essere incinta. Per quel giorno abbandono i miei strumenti e ce ne stiamo insieme a letto, la gola troppo stretta per parlare della pienezza del nostro futuro insieme e dei bambini che avremo.


18 giugno 1948, Tangeri

Una cerimonia civile, una breve funzione nella cattedrale e P. e io siamo sposati. R. organizza un ricevimento all'hotel El Minzah. Come si comincia a dire qui, in autentico stile Riviera: è presente tutta Tangeri. Siamo circondati da estranei e ce ne andiamo non appena lo consentono le buone maniere. Ci nascondiamo sotto la zanzariera con una sigaretta di hashish. Galleggiamo l'uno nelle braccia dell'altra e facciamo l'amore come marito e moglie per la prima volta.

P. è stanca e vuole dormire. Io appoggio la testa sul suo ventre e sento le cellule raddoppiarsi là dentro. Ho un eccesso di energia, mi alzo e mi metto al lavoro. Penso che quello sia un giorno fortunato, così prendo il pennello e traccio il mio primo segno sulla tela. È un inizio. Mi innervosisco e decido di fare una passeggiata attraverso la medina e la casbah fino alle fortificazioni dalle quali contemplare il mare notturno e il mio futuro. Nel Petit Soco mi fermano per congratularsi con me e offrirmi da bere. Insistono. Anche C. Non lo vedevo da mesi e permetto che mi offra un whisky. Parliamo e scherziamo per un po'. Me ne vado, ma C. mi raggiunge sulla via della casbah, mi prende per un braccio e mi chiede come mai io lo abbia trascurato, perché abbia mandato via i suoi ragazzi. Mi dice che sono di nuovo un blocco di ghiaccio, che il matrimonio va bene per gli avvocati e per i medici, che la vita borghese è nemica dell'arte. Gli ricordo chi sia P. Abbiamo camminato senza fretta e ora lui mi porta verso una casa, è un bar, mi dice, vuole offrirmi un ultimo bicchiere. Sediamo a un tavolino in un cortile e ci servono da bere. Intorno al cortile c'è un passaggio coperto, come in un chiostro, senza che io me ne accorga in quel passaggio si accendono candele e a un tratto vedo là alcuni ragazzi. C. sta cianciando di sovvertimento della sensualità, di anarchia della depravazione. Non lo ascolto, ma guardo il gioco dei muscoli sulle cosce dei ragazzi mentre camminano su e giù nella luce incerta. Sono turbato. C. mi offre una sigaretta. Contiene hashish che mi scende nelle vene come crema, le mie labbra accarezzano la sigaretta, la notte si ripiega intorno a me, altri ragazzi si muovono accanto a noi. C. se ne va con uno di loro. Altri mi prendono per le braccia, mi conducono via, mi spogliano, mi palpano, mi massaggiano, portandosi via ogni resistenza, io crollo sotto il tocco delle loro mani.

Mi sveglio con la bocca a contatto con la schiena di un ragazzo. Mi rivesto in fretta, trovo il cortile, non vedo nessun segno di C. e mi avvio verso casa. Mi spoglio nel bagno e mi lavo, strofinandomi i genitali fin quasi a scorticarli. In piedi, nudo, in fondo al talamo nuziale, guardo mia moglie addormentata. Che razza di uomo sono?

Sotto il mio sguardo lei si sveglia e solleva la testa dal guanciale. «Mio marito», dice e sorride. Mi fa posto accanto a sé. Mi sdraio. Che razza di uomo sono?

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