IV

Giovedì 12 aprile 2001, Edificio Presidente,

Los Remedios, Siviglia


Le offrì un passaggio in macchina. La donna rifiutò e disse che sarebbe andata a casa di sua sorella. Falcón le domandò allora qualcosa sulla sorella, tanto per tenerla sotto pressione, e le ricordò che sarebbe passato a prenderla più tardi per accompagnarla all'Instituto Anatómico Forense, per l'identificazione del cadavere. Voleva interrogarla là, ancora traumatizzata dalla vista del corpo del marito, uno spettacolo che avrebbe cancellato in lei ogni traccia residua di autocompiacimento. Le chiese di sforzarsi di ricordare se, negli affari o nella vita personale di Raúl, vi fosse stato qualcosa di insolito nell'ultimo anno; le disse anche di telefonare subito ai ristoranti e di farsi dare i nomi delle tre persone licenziate per aver permesso al marito di mangiare più del dovuto, disubbidendo agli ordini. Era consapevole che si trattava di false piste, ma voleva suscitare in lei il timore della sua estrema accuratezza nelle indagini. Si strinsero la mano sulla porta dell'appartamento; la sua era sudata, quella della vedova fredda e asciutta.

Ramírez lo seguì nello studio di Jiménez.

«È stata lei», domandò, lasciandosi cadere sulla sedia con lo schienale rigido, «o l'ha fatto fare a qualcun altro, Inspector Jefe?»

Falcón rigirò la penna tra le dita.

«Notizie da Pérez all'ospedale?» domandò.

«La domestica è ancora in stato confusionale.»

«E le registrazioni delle telecamere?»

«Quattro persone non identificate dal portiere. Due individui maschi. Due femmine. Una delle donne mi sembra la puttana, ma ha un'aria molto giovane. Fernández ha portato tutto alla centrale per fare qualche stampa da mostrare in giro nel condominio.»

«E le altre uscite del palazzo? Il garage, per esempio.»

«In quel punto le telecamere non funzionano. Il portiere ha chiamato i tecnici stamani, ma non sono ancora arrivati. Semana Santa, Inspector Jefe.»

Falcón gli fornì i nomi e gli indirizzi degli impiegati licenziati raccomandando che fossero interrogati al più presto e Ramírez uscì. Falcón prese la fotografia della prima moglie di Raúl Jiménez, Gumersinda Bautista, chiamò la Jefatura e chiese di effettuare una ricerca su José Manuel Jiménez Bautista, nato a Tangeri alla fine degli anni '40, inizio anni '50.

Si appoggiò allo schienale sfogliando le altre foto con i loro volti senza nome, finché ne trovò una di Raúl Jiménez sul ponte di uno yacht. A malapena riconoscibile. Nessun indizio premonitore che lasciasse immaginare l'aspetto da rospo che avrebbe assunto in seguito: appariva bello e sicuro di sé, nell'atteggiamento di chi è cosciente di esserlo, le mani sui fianchi, le spalle erette, il petto in fuori. Falcón fece scorrere il pollice su quel torace, pensando che vi fosse una macchiolina sulla foto. La macchiolina non scomparve e, osservando meglio, Falcón si accorse che si trattava di una specie di ferita al muscolo pettorale destro, vicino all'ascella. Girò la foto: «Tangeri, luglio 1953», era scritto sul retro.

Suonò il cellulare. Il computer della polizia aveva trovato un indirizzo e un numero di telefono di Madrid per José Manuel Jiménez. Annotò tutto e chiese di Serrano e di Baena, altri due membri della sua squadra. Erano fuori per la Semana Santa. Ordinò che lo raggiungessero nell'appartamento di Jiménez.

Invece di ricontrollare i suoi appunti e programmare il successivo assalto alle raffinate difese di Doña Consuelo Jiménez, la quale, inutile negarlo, rimaneva la sua principale indagata, si scoprì a protendere la mano verso le vecchie istantanee. Vi erano alcune foto di gruppo, anche queste scattate a Tangeri, nel 1954 secondo le date sul retro. Esaminò i volti, convinto di essere ancora alla ricerca dell'immagine di suo padre, finché non si rese conto che si stava concentrando maggiormente sulle donne e si domandò se sua madre, morta sette anni dopo che quelle foto erano state scattate, potesse figurare tra quegli sconosciuti. Era affascinato dalla prospettiva di trovare una fotografia di lei, in compagnia di persone delle quali non aveva mai sentito parlare, in un periodo in cui non era ancora nato. Alcune facce erano troppo piccole e sgranate, così decise di portarsi le foto a casa per esaminarle con la lente d'ingrandimento.

Sfilò una sigaretta dal pacchetto di Celtas e l'annusò. Non fumava da quindici anni. Aveva smesso quando ne aveva trenta, lo stesso giorno in cui aveva troncato la sua relazione con Isabel Alamo, una relazione durata cinque anni. Le aveva spezzato il cuore, anche perché lei si era illusa che quel loro incontro si sarebbe concluso con una proposta di matrimonio. Il ricordo lo disturbò al punto da spingerlo a spezzare il filtro, prendere l'accendino e accendere la sigaretta. Un gusto orribile anche senza aspirare il fumo: Falcón la posò sul portacenere. Lasciò vagare i pensieri a un altro ricordo di Tangeri, il Capodanno del 1963. Era in piedi accanto alle scale, in pigiama; era piccolo, arrivava a malapena alla vita degli ospiti che stavano uscendo per recarsi al porto a vedere i fuochi d'artificio. Mercedes, la sua matrigna, la seconda moglie del padre, lo aveva preso in braccio per riportarlo a letto. Aveva quell'odore nei capelli, Celtas, qualcuno degli ospiti doveva aver fumato quella marca di sigarette. A Tangeri gli spagnoli erano ancora numerosi in quei giorni, anche se i bei tempi erano passati da un pezzo. Mercedes lo aveva messo a letto, lo aveva baciato, se l'era stretto con forza al petto. Falcón lasciò il ricordo a quel punto. Normalmente pensava a Mercedes soltanto quando gli capitava di avvertire il profumo Chanel N° 5, il suo preferito.

Un colpo bussato alla porta lo riportò al presente. Serrano e Baena erano in piedi nel corridoio.

«Avete fatto presto», disse Falcón.

I due uomini entrarono con una certa esitazione, a disagio, pensando che il commento avesse una sfumatura ironica, di rimprovero. Avevano impiegato quaranta minuti per arrivare.

«Traffico», disse Baena, per risolvere il problema in entrambi i casi.

Falcón rimase sconcertato nel vedere la sigaretta ridotta in cenere davanti a lui. Un'occhiata all'orologio lo lasciò stupefatto: erano le undici e non aveva ancora concluso niente. Scorse le sue annotazioni per controllare l'ora in cui, secondo Ramírez, gli uomini dei traslochi si erano allontanati per la colazione e ordinò a Serrano e a Baena di cercare nel vicinato un testimone che avesse visto una persona, probabilmente in tuta, salire sui binari dell'autoscala fino al sesto piano dell'Edificio Presidente.

Il Subinspector Pérez telefonò per dire che la domestica, Dolores Oliva, aveva finalmente ripreso conoscenza. Non c'era stato verso di farla parlare finché non aveva avuto un rosario in mano e per tutto il tempo del colloquio non aveva fatto altro che stringere un portachiavi con l'immagine della Virgen del Rocío. Era convinta di essere venuta in contatto con il male assoluto, entrato non si sa come nella casa. Falcón tamburellò con le dita sulla scrivania. Era sempre così con Pérez. L'accademia e undici anni sul campo non lo avevano guarito dalla necessità di trasformare un rapporto in una storia da raccontare. Gli occorsero otto minuti per riferire che Dolores Oliva aveva aperto la porta con cinque giri di chiave.

Falcón interruppe Pérez e gli disse di venire a Los Remedios prima possibile per controllare gli appartamenti del condominio, mostrando le immagini stampate delle persone non identificate riprese dalle telecamere. Occorreva anche dare un nome alla prostituta e trovarla. Riattaccò e vide che il Médico Forense gli aveva inoltrato un messaggio per informarlo che l'autopsia era stata completata e il rapporto scritto era quasi pronto. Rifletté per un attimo se fosse il caso di lasciare che Consuelo Jiménez vedesse il cadavere in tutto il suo orrore, poi decise che sarebbe stato meglio mantenere l'asportazione delle palpebre un fatto riservato. Richiamò il Médico Forense e gli chiese di rendere il cadavere pulito e presentabile.

Si avviò per andare a prendere Consuelo Jiménez a casa della sorella a San Bernardo e mentre scendeva per dirigersi alla sua auto chiamò Fernández e gli disse di mettersi in contatto con Pérez per controllare insieme gli appartamenti.

Dopo la penombra della casa la luce sulla strada sembrava accecante e l'aria quasi calda. Era sempre così per la Semana Santa e la Feria, un periodo tra i più incerti dell'anno, né caldo, né freddo, né asciutto, né umido. Né religioso, né laico. Salì in macchina e gettò il fascio di fotografie sul sedile, in cima quella di Gumersinda, la prima moglie di Raúl. Era un vero e proprio ritratto in cui la donna fissava intensamente l'obiettivo, ma furono le parole di Consuelo Jiménez a tornargli alla mente: «Non è assolutamente riuscito ad amarmi».

Due pensieri bizzarri si scontrarono nella sua mente, pompandogli adrenalina nell'organismo, tanto che mise in moto e uscì dal parcheggio senza badare a ciò che faceva. Uno stridere di pneumatici. Un grido soffocato di «Cabrón!»

Eseguì l'inversione e attraversò il fiume sul puente del Generalísimo. I binari dello scalo ferroviario scorrevano sotto di lui e le gru formavano una guardia d'onore fino al massiccio puente del V Centenario che si ergeva al di sopra della foschia urbana. I suoi pensieri si sbrigliarono mentre si dirigeva a nord-est al di là del parque de Maria Luisa e provò un desiderio disperato della sigaretta che aveva lasciato a consumarsi nello studio di Raúl Jiménez. Erano state le parole di sua moglie, Inés, a tornargli alla mente, Inés che lui non era riuscito ad amare. Come Raúl. «Tu non hai cuore, Javier Falcón», e le parole si mescolavano all'immagine di Gumersinda, una donna di un'altra epoca, che aveva suscitato il ricordo di sua madre, Pilar, e della sua matrigna, Mercedes. Inés, Pilar, Mercedes, tre donne immensamente importanti per lui, verso le quali sentiva ora di avere, in certo modo, fallito.

Un'idea così nuova e strana che gli fece desiderare spasmodicamente di gettarsi come un pazzo nel lavoro e dimenticare.

Al semaforo si fermò tamburellando sul volante, borbottando: «Questa è follia», perché non era possibile che gli stesse accadendo una cosa del genere, lui non aveva mai pensieri incontrollati, inesplicabili, non era per natura portato a sognare a occhi aperti. Era sempre stato calmo e metodico, caratteristiche che ora non gli appartenevano più. Dal momento in cui aveva visto il volto torturato di Raúl, si era prodotto in lui una specie di cataclisma, non diverso da una mutazione genetica. La sua mente era ormai inondata di ricordi disturbanti, il sudore gli imperlava la fronte e gii inumidiva le mani, la sua capacità di concentrazione era svanita. Non riusciva nemmeno a seguire le indagini. Non aveva controllato le finestre e le porte che davano sul balcone dell'appartamento di Jiménez. La prima cosa da fare. E la faccenda del televisore, strappare il filo dalla presa a muro e non farne menzione. Non era da professionista. Non era da lui.

Seguì la calle Balbino Murrón fino alla fine, raggiungendo un edificio che si affacciava sul campo da calcio del Colegio de los Jesuitas. Ripose le foto nel vano portaoggetti. Consuelo Jiménez uscì prima ancora che Falcón avesse raggiunto la casa. Alla finestra vide un bambino, forse il più piccolo. La donna lo salutò con la mano e lui rispose agitando freneticamente la sua. Falcón ne fu rattristato. Rivide se stesso alla finestra, lasciato indietro.

Si avviarono, tagliando attraverso le arterie di scorrimento che portavano al centro della città. Consuelo Jiménez guardava fisso davanti a sé, senza vedere quasi nulla al di là del vetro.

«L'ha già detto ai suoi figli?» domandò Falcón.

«No. Non volevo farlo e poi lasciarli per andare all'ospedale.»

«Devono aver capito che è successo qualcosa.»

«Si sono accorti che sono nervosa. Non sanno perché siamo dalla zia, continuano a chiedermi come mai non andiamo nella casa di Heliópolis e quando verrà il papà con il regalo che ha promesso.»

«Il cane?»

«Lei sa come produrre una certa impressione sulle persone, Inspector Jefe», osservò la donna. «Non ha figli, vero?»

«No…» rispose Falcón, pur nutrendo il desiderio di completare in qualche modo la risposta.

Continuarono in silenzio, diretti a nord verso La Macarena.

«Come stanno andando le indagini?»

«È ancora presto.»

«Così lei ha soltanto il movente più ovvio su cui lavorare.»

«E cioè?»

«Moglie vuole liberarsi di marito più anziano che non l'ama, ereditare il suo patrimonio e involarsi con giovane amante.»

«Molti hanno ucciso per meno.»

«Sono stata io a fornirle quel movente. Nessuno potrebbe mai dirle che Raúl Jiménez non mi amava.»

«Nemmeno Basilio Lucena?»

«Sa soltanto che Raúl era impotente e che io ho certe esigenze.»

«Sa dove si trovava ieri notte?»

«Ah, sì, certo. È l'amante a compiere il misfatto», disse la donna. «Ma conoscerà Basilio e poi mi dirà di che cosa lo ritiene capace.»

Passarono davanti alla basílica de La Macarena e pochi minuti dopo giunsero all'austero edificio grigio sull'avenida Sánchez Pizjuán che ospitava l'Instituto Anatómico Forense. Una folla era adunata davanti al portone. Falcón superò la sbarra dell'ospedale e parcheggiò l'auto. La signora Jiménez indossò un paio di occhiali da sole. La folla si precipitò verso di loro non appena scesero dalla macchina, i microfoni puntati. Parole staccate si elevavano al di sopra della cacofonia, laceranti come schegge di proiettile — marido, asesinado, brutalmente. Falcón la prese per un braccio e la spinse avanti, le fece superare la porta che richiuse con forza alle loro spalle.

La guidò lungo i corridoi fino all'ufficio del Médico Forense, che li condusse in una stanza vicina. Un addetto tirò indietro la tenda e al di là del pannello di vetro videro Raúl Jiménez disteso sotto un lenzuolo che gli lasciava scoperto il torace. Due candele erano accese ai lati della testa. Gli occhi, ripuliti dal sangue, fissavano il soffitto. Occhi vacui. La nuca, in precedenza una massa di sangue coagulato, era stata lavata, il naso miracolosamente riattaccato e la ferita prodotta dal cavo elettrico sulle guance era scomparsa. La vecchia cicatrice sul pettorale destro notata nella fotografia sembrava la peggiore che fosse mai stata inflitta a quel corpo. Consuelo Jiménez identificò formalmente il cadavere e la tenda scivolò davanti al corpo, celandolo alla vista. Falcón la pregò di aspettare mentre parlava brevemente con il Médico Forense, il quale lo informò che Raúl Jiménez era morto alle tre del mattino per emorragia cerebrale e collasso cardiaco. Nel suo sangue era stato trovato un alto livello di Viagra. La conclusione del medico era stata che l'aumentata pressione del sangue e l'elevato grado di sofferenza, uniti alle condizioni precarie delle arterie, avevano fatto sì che Raúl Jiménez, per così dire, scoppiasse dall'interno. Il medico consegnò a Falcón il rapporto scritto.

Affrontarono l'impresa di tornare alla macchina ma, invece di ripassare dall'uscita delimitata dalla sbarra, dove si affollavano i giornalisti, Falcón percorse i giardini della facoltà uscendo dall'edificio principale dell'ospedale sulla calle de San Juan de Ribera.

«Avrebbero dovuto chiudergli gli occhi», osservò Consuelo Jiménez. «Non si può riposare in pace con gli occhi aperti, anche se non vedono niente»

«Non hanno potuto farlo», osservò lui mentre il semaforo dava via libera per svoltare a sinistra in calle Muñoz León.

Superate le vecchie mura della città, Falcón trovò nella via affollata un posto in cui parcheggiare. La signora Jiménez si teneva aggrappata alla maniglia sul tettuccio, le nocche sbiancate, il viso contratto in attesa delle parole che già presagiva. Il caso peggiore della carriera dell'ispettore.

Falcón le rivelò tutto, senza attenuare niente, fornendole la sua versione, quella che gli aveva gelato il sangue. Sì, era il caso peggiore della sua carriera. Altre scene che aveva dovuto «elaborare» forse potevano sembrare ancora più terribili: entrare in un appartamento nel casermone di una urbanización alla periferia di Madrid per trovare quattro cadaveri nel soggiorno, sangue sulle pareti, altri due morti in cucina, aghi, siringhe, carta stagnola galleggiante sulle pozze di sangue e, in camera da letto, un bambino che piangeva su un materassino sporco. Ma era un genere di orrore prevedibile in una cultura basata sulla brutalità. La tortura subita da Raúl Jiménez era invece qualcosa che non riusciva a considerare con distacco e non solo perché Falcón era particolarmente sensibile a ciò che riguardava gli occhi, così importanti nel suo lavoro: il modo in cui l'assassino aveva punito la vittima aveva sconvolto la sua immaginazione. Trovava terrificante l'idea di quell'assoluta implacabilità del reale, dell'impossibilità di una tregua per lo sguardo. Come aveva osservato la signora Jiménez, nemmeno nella morte la vittima sembrava godere del grande sonno, ma doveva giacere con gli occhi sbarrati, inorriditi dal male di cui gli uomini erano capaci.

La signora Jiménez aveva cominciato a piangere. A piangere davvero. Non qualche lacrima da asciugare per non sbavare il trucco, ma un vero tracollo fatto di grida, di singhiozzi violenti, di naso che colava. Javier Falcón si rendeva conto della crudeltà della sua professione. Non era la persona adatta a consolare quella donna; era stato lui a metterle tali immagini nella mente. Il suo incarico, lo scopo del suo lavoro in quel momento era di constatare non soltanto la veridicità di quelle emozioni, ma anche di cogliere l'eventuale fessura, la crepa nella corazza nella quale avrebbe potuto inserire la sua leva. Era stata una tattica studiata farla salire in macchina, portarla in un parcheggio di una strada affollata senza che potesse andare da nessuna parte, nel frastuono di un mondo indifferente che le passava accanto inconsapevole di quell'enormità.

«Era all'hotel Colón ieri sera?» domandò, e lei annuì. «È rimasta sola dopo che i suoi figli sono andati a letto?»

La donna scosse il capo.

«Basilio Lucena era con lei?»

«Sì.»

«È stato con lei tutta la notte?»

«No.»

«A che ora se ne è andato?»

«Abbiamo cenato in camera. Poi siamo andati a letto. Dev'essere andato via alle due.»

«Dov'era diretto?»

«A casa, immagino.»

«Non all'Edificio Presidente?»

Silenzio. Nessuna risposta mentre Falcón scrutava la struttura del suo viso.

«Che cosa fa per vivere Basilio Lucena?» domandò.

«Qualcosa di inutile all'università. È un assistente.»

«In quale facoltà?»

«Una facoltà scientifica. Biologia o chimica, non ricordo. Non abbiamo mai parlato del suo lavoro, a lui non interessa, è solo un posto e uno stipendio, tutto qui.»

«Gli ha dato una chiave?»

«Dell'appartamento?» La donna scosse il capo. «Deve conoscere Basilio prima di…»

«Come fa a sapere che non l'ho già conosciuto?»

Silenzio.

«Si è messa in contatto con Basilio Lucena questa mattina?» le domandò Falcón.

Un cenno affermativo.

«Che cosa gli ha detto?»

«Ho ritenuto che dovesse sapere cos'era successo.»

«In modo che si potesse preparare?»

«Sulla carta, Inspector Jefe, Basilio Lucena può sembrare un uomo intelligente. Certamente è istruito e di modi raffinati, ma la sua intelligenza è molto ben sintonizzata su una lunghezza d'onda assai ridotta e la sua raffinatezza è apprezzata da una cerchia di persone molto ristretta. È stato reso pigro dalla mancanza di stimoli sul lavoro, la casa e la macchina gliele hanno pagate i genitori. Non ha nessuno che dipenda da lui e il suo reddito gli permette un tenore di vita da irresponsabile. Non è il tipo d'uomo che abbia mai dovuto camminare con le proprie gambe, perché la maggior parte del tempo la passa sdraiato. Le sembra il profilo di un assassino?»

Suonò il cellulare di Falcón. Pérez gli fece un rapporto complicato sulle persone ignote riprese dalle telecamere a circuito chiuso. Due erano state identificate, una no e la foto della presunta prostituta era stata inviata alla buoncostume. Falcón ordinò a Pérez di seguire la questione della ragazza e chiese a Fernández di ricontrollare gli appartamenti durante l'ora di colazione.

Il momento in cui Consuelo Jiménez avrebbe potuto cedere e fornirgli qualche elemento per incriminarla era passato. Falcón si immise nel traffico, eseguì un'inversione e si diresse verso il fiume. Diede un'occhiata al suo ostaggio per vedere quale direzione avessero preso i pensieri di lei, intuendo che si stava avvicinando una nuova crisi, tanto che cominciò a pensare che forse sarebbe finito tutto ancor prima della riunione con Calderón. Così andavano in genere le cose, stando alla sua esperienza. Tutto risolto in ventiquattr'ore oppure ci si impantanava in mesi di lunghe, squallide fatiche.

«Mi sta riportando nell'appartamento?» domandò la signora Jiménez.

«Lei è una donna intelligente, Doña Consuelo.»

«La sua occasione per adularmi è passata da un bel pezzo.»

«Trascorre la vita tra la gente», continuò lui, «capisce le persone. Credo che comprenda le esigenze del mio lavoro.»

«Cioè che lei deve essere orribilmente sospettoso.»

«Sa quanti omicidi avvengono a Siviglia ogni anno?»

«In questa città della gioia? In questa città dei battimani per le strade, di cervecitas y tapitas con los amigos? In questa città de los guapos, de los guapísimos? In questa città sacra alla Santa Vergine?»

«Nella città di Siviglia.»

«Duemila», affermò la donna, lanciando la cifra in aria con le dita inanellate.

«Quindici», disse lui.

«Metaforicamente, pugnalare alle spalle è un omicidio.» «La droga è responsabile della maggior parte di questi delitti. I pochi rimanenti sono classificati come 'domestici' o 'passionali'. In tutti questi omicidi — in tutti, Doña Consuelo — la vittima e l'artefice si conoscono e, nella maggior parte dei casi, sono in rapporti di intimità.»

«Allora lei si trova davanti a un'eccezione, Inspector Jefe, perché io non ho ucciso mio marito.»

Attraversarono il sottopassaggio della vecchia stazione ferroviaria a plaza de Armas e proseguirono lungo il fiume sul paseo Cristóbal Colón, superando la Maestranza, l'Opera e la Torre del Oro. Il sole brillava sull'acqua, il fogliame degli alti platani era verdissimo. Non il momento giusto per confessare un omicidio e rassegnarsi a passare chissà quante primavere dietro le sbarre.

«Il meccanismo psichico della rimozione è molto potente…» cominciò Falcón.

«Non posso saperlo, non ho mai rimosso niente.»

«… perché così non esistono dubbi… mai.»

«Insomma, sono una bugiarda oppure sono completamente pazza», ribatté la donna. «Non posso vincere con lei, Inspector Jefe, ma perlomeno dico sempre la verità a me stessa.»

«Ma la sta dicendo a me, Doña Consuelo?» domandò Falcón.

«Finora… ma forse sto cambiando idea.»

«Non so come sia riuscita a convincere le antiche fiamme di suo marito di essere una sciocca.»

«Mi sono vestita in modo da sembrarlo», rispose lei, tamburellando con le unghie. «So anche parlare come una sciocca.»

«Un'attrice consumata.»

«Tutto congiura contro di me.»

I loro occhi si incontrarono. Quelli dell'uomo morbidi, scuri, color tabacco. Quelli della donna, acquamarina e ghiaccio. Falcón sorrise. Suo malgrado Consuelo Jiménez gli piaceva. Quella forza. Quella bocca inesorabile. Si domandò che sapore avesse e cacciò subito via quel pensiero dalla mente. Attraversarono il puente del Generalísimo e Falcón cambiò argomento.

«Non mi ero mai reso conto di che quartiere franchista sia questo. Il ponte. La strada che porta il nome di Carrero Blanco…»

«Perché crede che mio marito vivesse nell'Edificio Presidente?»

«Pensavo che la maggior parte della gente seguisse la moda del torero Paquirri.»

«Sì, be', a mio marito piacevano los toros, ma Franco gli piaceva ancora di più.»

«E a lei?»

«È stato prima dei miei tempi.»

«Anche dei miei.»

«Dovrebbe tingersi i capelli, Inspector Jefe, la credevo più vecchio.»

Parcheggiarono. Falcón chiamò Fernández sul cellulare e gli disse di raggiungerlo nell'appartamento di Jiménez, poi salì in ascensore con la signora Jiménez fino al sesto piano e salutò con un cenno del capo il poliziotto davanti alla porta. Percorsero il corridoio vuoto verso il gancio nel muro, quel doppio tragitto ancora imbrigliato nella mente di Falcón. Sedettero nello studio e non parlarono più finché Fernández non fu arrivato.

«Faccia vedere le foto alla signora Jiménez, per favore», disse Falcón. «In ordine di apparizione nelle registrazioni delle telecamere.»

Fernández le fece scorrere l'una dopo l'altra, sempre con risposta negativa da parte di Consuelo Jiménez fino all'ultima, quando la donna sgranò gli occhi e batté le palpebre a scoppio ritardato.

«Chi c'è nella foto, Doña Consuelo?»

La signora Jiménez alzò lo sguardo su di lui, ipnotizzata, incantata, come se avesse assistito a una magia.

«Basilio», rispose, restando a bocca aperta.

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