XXVII

Domenica 22 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia


Arrivò per prima, alle undici, la nipote di Encarnación, Juanita. Falcón era ancora intontito da un sonno pesante indotto dalle pillole; l'ultima, presa alle quattro del mattino, lo aveva praticamente sepolto nel cemento.

Dopo la doccia indossò un paio di pantaloni grigi, così larghi in vita che dovette cercare una cintura. Anche la giacca non gli cingeva più bene le spalle. Stava perdendo peso: nello specchio le guance apparivano incavate, gli occhi infossati nelle orbite e cerchiati di scuro. Si stava trasformando nell'immagine che da sempre aveva dei pazzi.

Le scarpe da ginnastica nere di Juanita scricchiolavano sul pavimento della cucina e un fiume di capelli scuri si agitava lungo la sua schiena ogni volta che la ragazza scuoteva la testa. Falcón controllò che il frigorifero fosse ben rifornito di fino e di manzanilla e scese in cantina per prendere il vino rosso da servire con l'agnello arrosto.

La cantina si trovava sul retro della casa, sotto lo studio; era un locale buio che aveva usato anche come camera oscura, ma nel quale non era più entrato da quando Inés se ne era andata. I suoi attrezzi per lo sviluppo delle foto erano ancora là in un angolo, il filo di nylon era ancora teso attraverso la stanza, con le mollette per appendere le stampe ad asciugare. Sentì all'improvviso la mancanza di quell'emozione che provava sempre davanti all'immagine che si andava formando sul foglio bianco immerso nel liquido, al volto che gli veniva incontro. Era quello dunque il segreto chiuso nella sua testa? Immagini che dovevano essere sviluppate, perché i ricordi latenti riprendessero forma e sfondassero il muro della consapevolezza, risolvendo il suo tormento?

La rastrelliera di metallo per le bottiglie di vino era divisa tra vini francesi e spagnoli. Falcón non toccava mai quelli francesi, bottiglie costose comprate da suo padre; ma quel giorno si sentiva in vena di festeggiare. Gli ultimi paragrafi dei diari che aveva letto la notte precedente lo avevano spinto alle lacrime, prima che il sonno giungesse, e sentiva di voler brindare alla generosità del suo defunto genitore. L'intimità che era esistita tra loro aveva trovato una conferma e Javier era disposto a perdonargli la depravazione e l'infedeltà. Scelse qualche bottiglia di Château Duhart-Milon, di Château Giscours, di Montrachet, di Pommard, di Clos-des-Ursules e cominciò a portarle in sala da pranzo, disponendole sul piano della credenza. Risalendo per la seconda volta dalla cantina, in una nicchia sopra la porta, vide un'urna che non aveva mai notato.

Non era più alta di quindici centimetri, troppo piccola per contenere resti umani. Posò le bottiglie, depose l'urna sul tavolo di sviluppo e accese la lampada che lo illuminava. Il tappo era un semplice cono di argilla sigillato con la cera; nessun segno particolare sull'urna di terracotta non smaltata. Falcón ruppe il sigillo e tolse il tappo. Versò una parte del contenuto sul tavolo. Era una sostanza gialliccia e granulosa, con qualche pezzetto più grosso e tagliente. La smosse con il dito: alcuni frammenti erano scuri e all'improvviso quei sedimenti gli apparvero macabri, simili a ossa frantumate. Lasciò tutto sul tavolo, colto da un improvviso moto di repulsione.


Paco e la sua famiglia furono i primi ad arrivare e mentre le donne salivano al piano superiore e i bambini scorrazzavano nella galleria, Paco portò in casa un jamón intero proveniente da Jabugo, nella Sierra de Aracena. Trovarono il sostegno apposito nella credenza e, bloccato il prosciutto, Paco affilò il lungo coltello e cominciò a tagliare fette sottili come fogli di carta del jamón dolce, rosso scuro, mentre Javier versava il fino nei bicchieri.

Juanita dispose sul tavolo apparecchiato nel patio ciotole di olive e altri pinchos ai quali Paco aggiunse un piatto da portata di prosciutto affettato. All'arrivo di Manuela con la sua compagnia, tutti quanti si riunirono nel patio, bevendo fino e gridando ai bambini di smetterla di correre come pazzi. L'unico adulto che non disse a Javier quanto l'avesse trovato dimagrito fu la sorella di Alejandro, lei stessa poco più in carne di una mantide religiosa.

Paco era soddisfattissimo e parlò dei suoi tori, tutti consegnati in perfette condizioni per la corrida del giorno seguente. Il segno dell'incornata era ancora visibile su Biensolo, ma il retinto era molto robusto. L'unico avvertimento che diede a Javier fu che la punta delle corna era rivoltata in su in modo insolito e lo spazio tra di esse molto stretto: ucciderlo sarebbe stato difficile, anche se il toro avesse tenuto la testa molto bassa.

Alle quattro del pomeriggio erano seduti a tavola davanti all'agnello arrosto. Manuela notò subito la qualità del vino e domandò quante altre bottiglie stesse nascondendo il «fratellino». Per distrarre la sua attenzione Javier le parlò dell'urna. La sorella gli chiese di vederla e, quando il pasto fu arrivato alla fine e Paco si fu acceso il suo primo Montecristo, Javier andò a prenderla in cantina. Manuela la riconobbe subito.

«Che strano», disse, «non so come papà abbia perduto i gioielli della mamma e sia riuscito a far arrivare sana e salva questa da Tangeri.»

«Ah, Manuela! Papà non buttava mai via niente», osservò Paco.

«Ma questa è della mamma. Me la ricordo. L'avevo vista per due o tre giorni sulla sua toletta… più o meno un mese prima che morisse. Le avevo chiesto che cosa fosse, perché era diversa da tutte le altre cose che aveva lì, credevo che fosse un unguento di quella donna del Rif, la sua cameriera. Mamá aveva detto che conteneva lo spirito del genio e che non doveva mai essere aperta. Strano, no?»

«Stava solo scherzando con te, Manuela», disse Paco.

«Vedo che l'hai aperta», osservò Manuela. «Nessun genio?»

«No», rispose Javier, «si direbbero ossa o denti frantumati.»

«Non sembra roba molto spirituale», commentò Paco.

«Macabra più che altro», convenne Javier.

«Avrei detto che, dopo tutte le cose orrende che hai visto, non ti saresti fatto impressionare da un mucchietto di vecchie ossa, fratellino, non tu», osservò Manuela.

«Ma frantumate?» replicò Javier. «Ne ho ricavato l'impressione di qualcosa di violento.»

«Come sai che si tratta di ossa umane? Potrebbero essere di mucca o qualcosa del genere.»

«Ma perché 'lo spirito del genio'?» domandò Javier.

«Lo sapete chi gliel'aveva data quell'urna, no?» intervenne Paco. «È stato papà… tanto tempo fa. In quel periodo c'era qualcosa di strano in casa. Non vi ricordate? Mamá una volta aveva acceso un falò nel patio, tornando da scuola avevamo visto quella macchia nera vicino al fico.»

«Lui era troppo piccolo», disse Manuela, «ma hai ragione, papà le consegnò l'urna il giorno dopo. Un'altra cosa curiosa: quella scultura meravigliosa che le aveva regalato l'anno prima per il suo compleanno… un bel giorno scomparve. La teneva accanto allo specchio, le piaceva moltissimo. Le chiesi dove fosse finita e lei mi disse soltanto: 'Il Signore dà, il Signore toglie'.»

«E più o meno in quel periodo cominciò ad andare a messa tutti i giorni», disse Paco.

«Sì, prima andava solo una volta la settimana», confermò Manuela. «E smise anche di portare gli anelli, aveva tenuto solo quell'agata da poco prezzo che le aveva regalato papà per la sua festa. Quell'anello te lo ricordi, vero, fratellino?»

«No.»

«Papà aveva dato a te il pacchettino da portarle durante la cena di compleanno. La mamma ha scartato il pacchetto e il coperchio della scatola si è aperto di scatto e ti ha colpito sul naso. È uscito un fiore di carta a molla e dentro il fiore c'era l'anello. Una cosa molto romantica. Mamá era commossa, ricordo la sua espressione.»

«Deve aver saputo che le sarebbe accaduto qualcosa», affermò Paco. «Andare a messa tutti i giorni, portare solo quell'anello, regalo di papà. È stato lo stesso per me quando sono stato incornato a La Maestranza.»

«Lo stesso, che cosa?» domandò Javier, affascinato da quei vecchi ricordi, toccandosi perfino il naso per cercare di rammentare il coperchio che lo aveva colpito.

«Sapevo che stava per accadermi qualcosa.»

«E come?» intervenne il suocero di Paco, uno dei grandi scettici della vita.

«Lo sapevo e basta», insistette lui, «sapevo che ero sul punto di un grande evento ed essendo giovane e arrogante pensavo che si sarebbe trattato della fama.»

«Ma che cosa sapevi?»

«Non lo so», rispose Paco, agitando le mani, «era una sensazione, come se tutto si riunisse…»

«Convergesse», lo aiutò Javier.

«I toreri sono sempre stati molto superstiziosi», concluse il suocero.

«Sì, be', quando si rischia la vita… tutto assume un significato», cercò di spiegare Paco. «Le stelle, i pianeti… roba così.»

«Stelle e pianeti che si allineano su di te?» sbuffò il suocero con disprezzo.

«Sto esagerando», si giustificò Paco, «forse era solo un sesto senso, forse è solo in retrospettiva che io attribuisco un significato importante a un fatto che ha rovinato la mia gioventù in una manciata di secondi.»

«Scusami, Paco», disse il suocero, «non volevo sminuire…»

«Ma era proprio per quello che ho voluto fare il torero. Amavo la purezza del pericolo, era come vivere una vita sempre a quel livello di consapevolezza. Solo che ho sbagliato a interpretare i segni. Nessuno avrebbe potuto predire quel disastro, durante tutta la faena il toro non aveva mai colpito a destra, lo ha fatto proprio quando ero sulle corna. A ogni buon conto sono stato fortunato a salvare la pelle. È come diceva la mamma a Manuela: il Signore dà e il Signore toglie. Non c'è una ragione.»

Su questo la riunione si sciolse; Manuela uscì con la sua compagnia, la famiglia di Paco, compresi i suoceri, si ritirò per la siesta e Javier e suo fratello rimasero seduti davanti a una bottiglia di cognac. Paco era quasi ubriaco.

«Forse eri troppo intelligente per fare il torero», suggerì Javier, tornando sull'argomento.

«Sono sempre andato malissimo a scuola.»

«Allora, forse, pensavi troppo per essere un buon torero.»

«Non pensavo mai. Ho cominciato dopo, una volta sfracellata la gamba ho dovuto schiarirmi le idee. Dovevo buttare nella spazzatura tutti quegli articoli e quei filmati dei miei momenti di gloria che non erano mai esistiti e mai sarebbero esistiti in futuro. Mi avevano lasciato completamente svuotato. Avevo incubi tremendi e tutti pensavano che io rivivessi quell'istante terribile, ma, per quanto mi riguardava, era una cosa che apparteneva al passato. I miei incubi riguardavano il futuro.»

Paco si versò altro cognac e fece scivolare la bottiglia verso Javier, che scosse la testa. Paco gli passò il cilindro di un sigaro e Javier glielo rimandò indietro.

«Sempre controllato, eh?» commentò Paco.

«È questo che credi?» Mancò poco che Javier scoppiasse a ridere.

«Oh, sì, niente riesce mai a toccarti, a turbare la tua calma interiore. Non come me. Ero assolutamente sconvolto allora, la gamba in pezzi e nessun futuro. È stato papà a salvarmi, sai. Mi ha installato nella finca, mi ha comprato la mia prima mandria. Mi ha tirato fuori… ha dato una direzione alla mia vita.»

«Be', era un soldato, sapeva capire gli uomini», disse Javier, consapevole di distorcere i fatti in favore di suo padre, a beneficio di Paco.

«Stai ancora leggendo quei diari?»

«Quasi tutte le notti.»

«Hanno cambiato in qualche modo l'idea che ti eri fatto di lui?»

«Be', è assolutamente sincero, sincero in modo terrificante. Lo ammiro per questo, ma le sue rivelazioni…» rispose Javier, scuotendo la testa.

«Del tempo della Legione?» domandò Paco. «Sono stati i più duri, i legionari, lo sai.»

«È stato coinvolto in qualche azione brutale durante la Guerra civile e in Russia, nella Seconda guerra mondiale. Parte della brutalità sperimentata in quegli anni era rimasta in lui anche a Tangeri.»

«Noi non l'abbiamo mai vista», obiettò Paco.

«In qualcuna delle sue operazioni commerciali è stato abbastanza duro e senza scrupoli», disse Javier. «Ha usato le stesse tecniche impiegate durante la guerra… il terrore. E ha smesso solo quando si è dedicato a tempo pieno alla pittura.»

«Credi che la pittura lo abbia aiutato?»

«Penso che abbia trasferito molta violenza nella sua pittura», spiegò Javier. «È famoso per i suoi nudi, ma moltissimi dei suoi lavori astratti sono impregnati di desolazione, di violenza, di tenebra, di decadenza, di depravazione.»

«Depravazione?»

«Leggere quei diari è come lavorare a un'indagine su un delitto. Lentamente, un passo dopo l'altro viene tutto a galla… la vita segreta. La società, e anche noi, vediamo solo ciò che è accettabile, ma io credo che nostro padre non si sia mai liberato della sua brutalità. Questa emergeva in altri modi. Lo sai come faceva lui, che vendeva i quadri e poi correva nello studio a dipingere lo stesso lavoro che aveva appena venduto. Io credo che quella fosse una forma di brutalità. Doveva sempre ridere per ultimo.»

«Lo fai apparire come una persona non esattamente amabile.»

«Amabile? Chi lo è oggigiorno? Siamo tutti complicati e difficili. Solo che papà ha affrontato delle difficoltà particolari in un periodo brutale.»

«Non spiega perché fosse entrato nella Legione?»

«È l'unica cosa di cui non parla. Vi fa riferimento solo alludendo a un certo 'incidente'. E, dato che parla quasi di tutto il resto, deve essere stato terribile. Una cosa che ha cambiato la sua vita e con la quale non è mai venuto a patti.»

«Era solo un ragazzo», disse Paco. «Che cosa diavolo può succederti a sedici anni?»

«Quanto basta.»

Il campanello della porta squillò.

«È Pepe», disse Javier.


Pepe Leal era alto e magro come un chiodo. Sulla soglia si teneva eretto, i piedi uniti, la testa alta, come se fosse costantemente in attesa di qualcosa. Aveva sempre un'espressione seria e indossava giacca e cravatta in tutte le occasioni. Non risultava che avesse mai portato i jeans. Sembrava un ragazzo appena uscito da una scuola privata e non un uomo in procinto di entrare nell'arena e affrontare un toro di cinquecento chili, per ucciderlo con grazia e contegno.

I due uomini si abbracciarono. Javier accompagnò Pepe in sala da pranzo, tenendogli un braccio intorno alle spalle. Lo abbracciò anche Paco. Sedettero a un'estremità della tavola e Javier rifletté che era sempre così con i toreri, sempre separati dalla gente comune, e non perché erano in una forma fisica perfetta, bevevano solo acqua e sedevano a qualche centimetro di distanza dalla tavola. La differenza stava nel fatto che il torero era un uomo che affrontava regolarmente la paura e la superava. Non perché avesse raggiunto uno stato di permanente assenza di paura. Era un essere umano; ogni volta che entrava nella plaza per rischiare la vita, doveva sempre superare una nuova paura.

Javier lo aveva visto terreo e tremante nelle ore che precedevano la corrida, seduto nella sua camera d'albergo, senza pregare, perché non era religioso, senza mai cercare aiuto da qualcuno. Era solo un essere umano pietrificato dalla paura che non riusciva a controllare il proprio terrore. Poi cominciava a vestirsi e aveva inizio il processo. Mentre veniva avvolto lentamente nel suo traje de luces, l'uniforme della sua professione, la paura veniva contenuta, non si spandeva più all'esterno, inondando la stanza come un contagio invisibile. L'«abito di luci» produceva qualcosa in lui, gli ricordava il pomeriggio luminoso in cui aveva colto la sua occasione ed era diventato un torero a pieno titolo; o forse lo racchiudeva semplicemente nella nobiltà della sua professione e chi lo indossava poteva soltanto comportarsi con la dignità richiesta. Tuttavia non lo liberava dalla paura, si limitava a ricacciarla dentro la sua anima. Alcuni toreri non riuscivano mai nemmeno a raggiungere quel livello di contenimento della paura e Javier li aveva visti nella plaza pallidi e sudati, in attesa del loro momento, pregando di riuscire a superarlo.

«Mi sembri in buona forma, Pepe», osservò Paco. «Come ti senti?»

«Come al solito», rispose il ragazzo in tono allegro. «E come stanno i tori?»

«Javier ti ha parlato del retinto… Biensolo?»

Pepe fece segno di sì.

«Se lo batti, te lo prometto, non dovrai mai più stare con le mani in mano. Madrid, Siviglia e Barcellona saranno tue.»

Pepe annuì di nuovo, i nervi troppo scoperti per riuscire a parlare. Paco gli fece un resoconto sugli altri tori, poi, intuendo che Pepe voleva restare solo con Javier, si scusò e si ritirò per la siesta. Pepe si rilassò di circa due millimetri sulla sedia.

«Hai l'aria di lavorare troppo, Javier», disse Pepe.

«Sì, sto perdendo peso.»

«Verrai all'albergo prima della corrida?»

«Cercherò, è naturale, sono sicuro che le indagini potranno fare a meno di me per qualche ora.»

«Tu mi aiuti sempre», disse Pepe.

«Non hai più bisogno di me.»

«Sì, invece. Per me è importante.»

«E come va la paura?»

«Sempre uguale, in questo sono costante, il mio livello è fisso… ma più alto di quasi tutti gli altri.»

«Mi interesserebbe sapere come fai a controllarla», disse Javier, intravedendo all'improvviso un'opportunità.

«Come se dovessi affrontare un uomo armato.»

«Stavo pensando a una forma diversa di paura.»

«È sempre paura, sia che si téma di morire, sia che qualcuno ti faccia: 'Bù!'»

«Sei un esperto», rise Javier, abbracciandolo scherzosamente, incapace di contenere il suo affetto per il ragazzo. Forse non era quello un argomento di cui parlare, pensò, gli avrebbe solo infettato la mente con le sue idiozie.

«Dimmi che cosa ti preoccupa, Javier. Come hai detto tu, la paura è la mia specialità. Mi farebbe piacere aiutarti.»

«Hai ragione… si ha paura di cose esterne a noi… tu hai paura del toro, io dell'uomo armato, entrambe cose imprevedibili. Ma sono soltanto momenti di paura, ci creano una terribile apprensione, li affrontiamo e poi passano.»

«Ecco, è proprio così, sai quanto me della paura. Controllarla fa parte del tuo addestramento, della tua volontà di affrontarla come cosa inevitabile.»

«Inevitabile?»

«Tu ti sei impegnato con lo stato ad affrontare criminali pericolosi per conto dei cittadini di Siviglia, io sono impegnato per contratto a combattere contro un toro. Sono responsabilità inevitabili che non possiamo schivare, altrimenti non potremo lavorare mai più. L'inevitabilità è utile.»

«La tua paura del fallimento è maggiore della tua paura del toro.»

«Prova a pensare a tutti i soldati che hanno combattuto in guerra, con armi tra le più distruttive che l'uomo abbia mai conosciuto… quanti di loro si sono comportati da vigliacchi? Quanti sono scappati? Molto pochi.»

«Forse questo significa che abbiamo una capacità enorme di accettare il nostro fato?»

«Perché cercare di controllare l'incontrollabile? Potrei smettere anche domani di fare il torero, perché ho troppa paura di essere ferito e di morire, eppure attraverso tranquillamente strade affollate di macchine, guido sulle autostrade e viaggio su aerei nei quali potrei facilmente incontrare una fine ingloriosa.»

«E così è inevitabile. Che cosa mi dici della volontà di affrontare la paura?» domandò Javier. «A me questo sembra coraggio.»

«Lo è. Siamo coraggiosi. Dobbiamo esserlo. Non è mancanza di paura. È riconoscimento della paura, è ammissione di debolezza e volontà di superarla.»

«Parli spesso di queste cose?»

«Con qualcuno dei toreri più intelligenti. Nella nostra professione non sono molte le menti eccelse. Ma dobbiamo tutti affrontare questo problema, anche i più grandi tra noi. Che cosa ha detto Paquirri quando un intervistatore gli ha domandato quale fosse la cosa più difficile da fare quando si era davanti al toro? 'Sputare', ha risposto lui. Nada más.»

«La prima volta che ho dovuto affrontare un uomo armato un superiore mi ha detto: 'Ricorda, Falcón, il coraggio è sempre retrospettivo. Lo si ha solo dopo'.»

«Questo è vero», disse Pepe, «e perciò possiamo parlarne, Javier.»

«Ma ora io sono nella morsa di una paura diversa», continuò Falcón, «una paura che non avevo mai sperimentato. Vivo in uno stato di timore permanente e il peggio è che non ho davanti a me un uomo armato o un toro e non importa quanto io sia coraggioso, perché non ho niente di concreto da affrontare… se non me stesso.»

Pepe corrugò la fronte. Voleva essere di aiuto. Falcón scacciò il problema con un gesto.

«Non ha importanza», disse, «non avrei nemmeno dovuto parlartene. Mi chiedevo soltanto se esistesse qualche trucco del mestiere, se i toreri, che convivono con la paura, avessero un modo di autoingannarsi…»

«Mai», affermò Pepe. «Non bariamo mai con noi stessi su questo. È un lato ironico della nostra professione. Si ha bisogno della paura, l'accogliamo con piacere anche se la odiamo, perché è la paura a permetterci di vedere bene, è la paura a salvarci la pelle.»

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