ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN

30 giugno 1941, Ceuta

Questo pomeriggio Pablito è entrato in camera mia, si è sdraiato sul mio letto, si è arrotolato una sigaretta sul petto e l'ha accesa. Deve dirmi qualcosa. Io lo so, ma come sempre fingo di ignorarlo. Sto disegnando una donna berbera nuda che ho visto stamani al mercato. La noncuranza di Pablito si agita sul letto. Lui fuma come farebbe una mucca, ruminando in continuazione.

«Partiamo per la Russia», mi dice. «Per suonarle ai rossi. Prenderli a calci in culo a casa loro.»

Poso la matita e mi giro verso di lui.

«Il generale Orgaz ci manda volontari. Il colonnello Esperanza dovrà costituire un reggimento, un battaglione sarà formato qui a Ceuta con Legione, Regulares e Flechas.»

Così ricordo l'annuncio quasi noncurante di Pablito. Banale. Sono talmente stufo che non m'importa di andare anch'io. È successo così poco in questi ultimi anni che ho dimenticato l'esistenza di questo diario. Ma il mio diario e nei miei disegni. Non sono abituato a scrivere. Quattro pagine coprono due anni. Non è questo, in fondo, il ritmo della vita? Periodi di cambiamento seguiti da altri, lunghi, nei quali ci si abitua al cambiamento finché ci si sente obbligati a mutare di nuovo. La noia è la mia unica motivazione e probabilmente è anche quella di Pablito, sebbene lui la rivesta di retorica anticomunista. Non sa un accidente di comunismo.


8 luglio 1941, Ceuta

Grande affollamento al porto per vederci partire. Il generale Orgaz ci ha dato la carica. Se non lo avessimo già sospettato, a questo punto sappiamo con certezza che siamo uno strumento della politica (parlo come Oscar ora?). La nostra uniforme la dice lunga su come stanno andando le cose a Madrid. Indossiamo i berretti rossi dei carlisti, la camicia blu della Falange e i pantaloni kaki della Legione. Realisti, fascisti e militari tutti contenti e coinvolti.

I tedeschi sono da mesi alla frontiera dei Pirenei. Correva voce che avrebbero mandato un corpo di spedizione per prendere Gibilterra, il che faceva pensare un po' troppo a un'invasione. Noi veniamo spediti in Russia per tenere buoni i tedeschi, per far sembrare che siamo dalla loro parte. Il giornale dice che Stalin è il nostro vero nemico, ma non parla di un'entrata in guerra. Si sta giocando una partita e noi siamo le pedine. Ho un brutto presentimento sulla sorte della nostra spedizione, ma appena fuori dal porto vediamo un branco di delfini che ci fanno da scorta per quasi tutta la traversata fino ad Algeciras, cosa che mi pare di buon auspicio.


10 luglio 1941, Siviglia

Siamo stati sistemati nella caserma Pineda nella zona meridionale della città. Abbiamo passato la sera in città senza doverci pagare da bere nemmeno una volta. Quando siamo stati qui in precedenza, noi, o almeno alcuni di noi, facevamo a pezzi la gente nelle vie di Triana: ora siamo eroi, mandati a tenere a bada il comunismo. Nei rapporti umani cinque anni sono un'era geologica. A dispetto del caldo brutale mi piace Siviglia. I bar semibui, freschi, la gente dalla memoria corta e con la necessità di esprimere gioia. Credo che si possa vivere a Siviglia.


18 luglio 1941, Grafenwöhr, Germania

Abbiamo cambiato treno a Hendaye, nella Francia meridionale. I francesi ci mostravano i pugni e scagliavano pietre contro i vagoni mentre passavamo. Nella nostra prima fermata in Germania, a Karlsruhe, la stazione era piena di gente che acclamava e cantava «Deutschland, Deutschland über alles». Hanno coperto il treno di fiori. Ora siamo da qualche parte a nord-est di Nürnberg. Tempo grigio. Le nuove reclute e la maggior parte dei guripas già depressi, con la nostalgia di casa. Noi veterani depressi perché ci hanno appena detto che la División Azul, come siamo chiamati, non sarà motorizzata ma ippotrainata.


8 agosto 1941, Grafenwöhr

Pablito ha un occhio nero e un labbro tagliato. I tedeschi non gli piacciono più dei comunisti che non ha ancora incontrato. Gli uomini, i guripas, sono contenti di indossare le camicie azzurre e i berretti rossi invece dell'uniforme regolamentare tedesca. In città è scoppiata una rissa nella Rathskeller. «Dicono che non sappiamo avere cura delle nostre armi», sostiene Pablito, «ma la verità è che ci stiamo scopando tutte le loro donne e le ragazze non sono mai state tanto soddisfatte.» Non so se Pablito riuscirà mai a trovarsi bene con i nostri nuovi alleati. Il cibo puzza più delle latrine, il loro tabacco è peggio del fieno e il vino non esiste. Mentre il colonnello Esperanza si è visto recapitare una Studebaker President, noi abbiamo ricevuto seimila cavalli dalla Serbia. Occorrerebbero otto settimane solo per addestrarli, ma partiremo per il fronte entro la fine del mese. Pablito ha sentito dire che marceremo su Mosca, ma io vedo come ci guardano i tedeschi, che attribuiscono un grande valore alla disciplina, all'ubbidienza, al comando e alla pulizia. La nostra arma segreta è la passione, ma è un'arma troppo segreta perché possano vederla. Solo in battaglia si accorgeranno della fiamma che brucia dentro ogni guripa. Un grido di «A mí la Legión!» e tutti insorgeremo e respingeremo i russi fino in Siberia.


27 agosto 1941, da qualche parte in Polonia

La nostra reputazione presso le donne ci precede. Ci è stato proibito di avere a che fare con femmine ebree, ben riconoscibili dalla stella gialla che devono portare addosso, o con le ragazze polacche (panienka). Abbiamo saputo che la Decima compagnia della 262a per protesta ha marciato con preservativi gonfiati legati ai fucili.


2 settembre 1941, Grodno

Primi segni di combattimenti durante la marcia verso Grodno… la periferia della città è stata rasa al suolo. Il centro è pieno di macerie che gli ebrei sono stati messi a sgomberare. Sembrano esausti e le loro razioni sono misere. L'atteggiamento di Pablito verso i tedeschi si sta facendo più ostile di giorno in giorno. Ora li trova sinistri. Ci fanno marciare verso il fronte per renderci più duri e resistenti. Pablito si è preso una cotta per una panienka bionda con gli occhi verdi che si chiama Anna.


12 settembre 1941, Ozmiana

La Studebaker del colonnello Esperanza è stata maltrattata su queste strade, tra non molto il colonnello dovrà marciare come tutti quanti noi. L'altro giorno una Mercedes nera si è fermata lungo la colonna e ne è sceso il generale Muños Grandes che ha mangiato con noi. Pablito e i guripas lo hanno acclamato come matti. Quell'uomo sa ispirarci ed è uno dei pochi comandanti che capiscono che cosa voglia dire essere un semplice legionario.


16 settembre 1941, Minsk

Pablito dice che esiste un recinto fuori città dove sono rinchiusi i prigionieri russi. Non ricevono cibo, la gente del posto lancia loro quello che può al di sopra della recinzione a rischio di essere ammazzata per questo. Pablito è felice: la sua panienka è comparsa a Minsk. Io sono felice perché ieri sono arrivati i ceci e l'olio di oliva. Già freddo. Gelo autunnale nell'aria.


9 ottobre 1941, Novo Sokol'niki

Siamo bloccati davanti a Velikje Luki: i binari della ferrovia sono stati fatti saltare dai partigiani. Ci foraggiamo in città e finiamo per arrostire i cavalli morti sulla carbonella nello scalo ferroviario, cantando e bevendo vodka di patate. Pablito, innamorato di Anna, canta molto bene. Flamenco nella steppa.


10 ottobre 1941, Dno

Scaricati qui su due diversi treni a scartamento ridotto. Una vecchia impiccata a un lampione. Partigiana. Guripas impressionati. «Ma che guerra è questa?» chiede uno di loro, come se non sapesse ciò che è accaduto nella sua stessa patria solo tre anni fa. Prossima fermata Novgorod e il fronte. Da ora in poi paga di prima linea. I rossi dominano i cieli. Rifornimenti scarsi. Partigiani. Scomparso Pablito. Non si è presentato alla messa di stasera.


11 ottobre 1941, Dno

Siamo in territorio occupato e vigono misure speciali, tanto che ho dovuto accompagnare la pattuglia tedesca in una perquisizione casa per casa alla ricerca di Pablito. Non riusciamo a trovarlo. In un'abitazione sono stupito di trovare Anna, la sua panienka, che sta lavorando con alcune civili russe. Non riesco a immaginare come sia potuta arrivare fin qui. In strada lo dico all'ufficiale tedesco e due soldati rientrano e la trascinano fuori. Le altre donne si mettono a urlare e i tedeschi le colpiscono con il calcio dei fucili. Costringono Anna a inginocchiarsi in mezzo alla strada e le chiedono di Pablito. Nega tutto, ma si capisce che sa perché è stata scelta tra le altre. Il sergente, un bruto colossale, si toglie i guanti e la schiaffeggia, quattro violenti ceffoni che la lasciano con la testa ciondoloni come una bambola rotta. I soldati la portano in un edificio semidiroccato sull'altro lato della strada. La sciarpa di Anna cade a terra e i capelli biondi le ricadono sulle spalle. Mormorio tra gli uomini. Il sergente ha una faccia che sembra la corazza di un carro armato. Il pomeriggio grigio diventa ancora più tetro, la temperatura si abbassa. Altre domande, altre risposte negative. La spogliano completamente, sotto è di un bianco azzurrino, singhiozza, tremando per il freddo e per la paura. Le torcono le braccia dietro la schiena e la sollevano da terra. Anna si mette a urlare. Il sergente chiede una baionetta e con la lama le tocca i capezzoli. È l'atto decisivo: terrore dell'acciaio gelido. La ragazza dice che è stata costretta a condurre Pablito in una trappola tesa dai partigiani. Le permettono di rivestirsi, poi la pattuglia porta via tutte le donne e io vado a fare rapporto al Mayor Pérez Pérez.


12 ottobre 1941, Dno

Stamani il tenente Martínez mi ordina di mettere insieme un plotone di esecuzione di undici uomini. Due partigiani comunisti e la panienka di Pablito ci sono stati consegnati per essere fucilati. Li mettiamo contro il muro nel cortile dei carri merci, la ragazza non riesce a stare in piedi e non c'è un palo al quale legarla. Il tenente Martínez dice ai due partigiani di sostenerla e sembra che i tre siano in posa per una foto di famiglia. Il tenente Martínez torna verso la nostra linea e grida: «Carguen! Apunten!» e alla parola «Fuego!» la ragazza rialza la testa. Le sparo in bocca. Qualche ora dopo una pattuglia trova Pablito impiccato a un albero. È stato spogliato completamente, gli hanno strappato gli occhi e reciso i genitali. C'è stata una messa funebre per lui, il nostro primo caduto. Pablito, l'anticomunista, morto senza aver sparato un solo colpo.


13 ottobre 1941, Podberez'e

Abbiamo abbandonato il treno sotto un pesante fuoco di artiglieria e ci siamo dispiegati a sud della città lungo il fiume Volkhov. La fitta foresta dietro di noi è piena di partigiani. Al di là del Volkhov l'esercito russo. Fango spesso tutto intorno, lo chiamano «rasputitsa». Di notte gela.


30 ottobre 1941, Sitno

Ci hanno fatto ritirare dopo una settimana durissima e perdite pesanti. Ogni momento che passa questa guerra diventa meno comprensibile. L'altro giorno abbiamo attaccato Dubrovka, credevamo di aggirare le difese russe e di assalirli alle spalle, ma non appena ci siamo riallineati a sud della città siamo stati colpiti dall'artiglieria e, uscendo dal settore, siamo finiti in un campo minato. Che ci stava a fare lì un campo minato? Corpi dappertutto. García con la gamba sinistra tranciata di netto si premeva le mani sull'inguine e gridava: «A mí la Legión!» Abbiamo serrato i ranghi e siamo andati all'attacco. Una volta raggiunto il nemico siamo come impazziti e avremmo fatto a pezzi tutti quanti, se non fossimo stati così esausti. Il tenente Martínez ci ha detto che le unità russe hanno tutte al seguito commissari politici con il compito di mantenere la disciplina. I russi minano i campi alle spalle della loro prima linea, per impedire ai soldati di ritirarsi. Contro chi stiamo combattendo qui? Non certo contro la gente del posto: non appena presa prigioniera ci aiuta come se fosse dalla nostra parte.


1o novembre 1941, Sitno

Il caldo lo conosco. Il caldo lo capisco. Ho visto che cosa può fare agli uomini, ne ho visti morire per aver bevuto acqua quando erano accaldati. Ma il freddo, quello non lo conosco. Il paesaggio intorno a noi si è fatto più aspro, gli alberi sono coperti di cristalli di ghiaccio, il terreno al di sotto della neve farinosa è come ferro, le suole degli stivali producono un rumore metallico calpestandolo. Il piccone non serve a niente, dobbiamo usare gli esplosivi per scavare. La mia urina diventa ghiaccio non appena tocca terra. E i nostri prigionieri russi ci dicono che questo non è ancora il vero freddo.


8 novembre 1941

C'è ghiaccio sul Volkhov. Difficile credere che diventerà spesso un metro e che cambierà completamente la strategia della nostra piccola guerra. I soldati riescono già ad attraversare il fiume servendosi di tavole. Hanno cercato di farlo attraversare anche ai cavalli, ma uno è scivolato dalle assi ed è caduto nell'acqua gelida. Nella sua frenesia ha strappato le redini dalle mani del soldato che lo conduceva e che è rimasto a guardare impotente mentre l'animale terrorizzato cercava disperatamente di risalire sulla tavola. Incredibile, ma è bastato pochissimo tempo perché una bestia così grossa soccombesse al gelo. Dopo un minuto le zampe posteriori si erano paralizzate, entro due minuti anche quelle anteriori erano immobili. Nel pomeriggio intorno al corpo il ghiaccio si era già solidificato, trasformando l'animale in una statua, il terrore ancora vivo negli occhi. È diventato un monumento all'orrore. Nessuno scultore a cui un consiglio comunale impazzito avesse affidato il compito di realizzare una statua del genere avrebbe potuto fare meglio. I guripas mai stati al fronte non riescono a togliergli gli occhi di dosso. Qualcuno si volta indietro a guardare la sponda occidentale del fiume e si rende conto che la civiltà è alle sue spalle ormai e che al di là del Cavallo di ghiaccio non lo aspetta la gloria, una causa per cui appassionarsi, ma la visione, che gela il sangue, del centro più freddo del cuore umano.


9 novembre 1941

A Nikltkino mi sono imbattuto in una scena da medioevo. Un prigioniero russo armato di martello girava tra i suoi compagni morti e spezzava loro le dita ancora strette intorno al fucile. Nessuno aveva gli stivali ai piedi, erano stati tutti rubati. Con le dita spezzate, le braccia rotte e tolte le armi è possibile spogliarli delle pellicce e delle giubbe imbottite. Ormai io ho l'aspetto di un uomo lupo e di recente mi sono procurato un berretto di pelliccia d'orso. Il fronte si è esteso fino a Otonskii e a Posad.


18 novembre 1941, Dubrovka

I russi hanno contrattaccato alle estremità del nostro fronte. Posad ha martellato con tutto, mortai, anticarro e artiglieria. L'abbiamo presa il giorno seguente dopo una carica dei rossi che hanno cominciato con un fragoroso «Urrà!» e gridando anche qualcos'altro: man mano che si facevano più vicini, ci è sembrato di udire: «Ispanskii kaput!» ha nostra artiglieria li ha falciati come frumento, perché così avanzavano, dritti, mai curvi. Forse l'avrebbero trovato poco virile. Si sono raggruppati e ci hanno attaccato di nuovo durante la notte e noi li abbiamo affrontati sulla piana coperta di neve illuminata dai razzi che ricadevano lentamente, i boschi neri dietro di loro. Irreale. La notte così silenziosa prima del massacro. Abbiamo lanciato granate e poi siamo andati all'attacco la baionetta in canna. I rossi si sono dispersi. Mentre tornavano a immergersi nella foresta si udivano le nostre reclute alla loro prima carica gridare dietro ai rossi. «Otro toro! Otro toro!»


5 dicembre 1941

Di nuovo al fronte dopo una ferita superficiale che mi aveva fatto ricoverare all'ospedale da campo. Non voglio rivederlo mai più. Nemmeno il freddo è riuscito a soffocare il fetore di quel posto, anzi, penso che mi sia rimasto congelato nelle narici in modo permanente.

Il gelo ha raggiunto una nuova dimensione: –35°. Quando un uomo muore per il caldo impazzisce, comincia a farneticare, gli bolle il cervello. Il freddo lo fa semplicemente svanire. Un attimo prima è accanto a te, magari si sta accendendo una sigaretta e un attimo dopo è svanito. Gli uomini muoiono perché il fluido cerebrale si congela nella testa sotto l'elmetto di acciaio. Sono contento del mio berretto di pelo. Con l'abbassamento della temperatura i russi hanno cominciato a parlarci in spagnolo, usando i repubblicani per tradurre. Promettono caldo, cibo, divertimenti. Diciamo loro di fottersi quelle gran puttane delle loro madri.


28 dicembre 1941

Vigilia di Natale nel gelo profondo. Gli uomini recitano poesie e cantano: poesie e canzoni sulla Spagna, sul sole, sui pini, sulla cucina della mamma e sulle donne. I russi sono spietati e attaccano il giorno di Natale. La massa di uomini che ci lanciano contro è impressionante. Abbiamo sentito parlare dei loro battaglioni di punizione: i politicamente indesiderabili sono inviati contro i nostri cannoni, cadono ammassati l'uno sull'altro a tre o quattro alla volta e i veri soldati seguono correndo e usano i loro corpi come una rampa. Siamo nel posto più dimenticato da Dio di tutta la terra, senza quasi la luce del giorno e con la morte tutto intorno a noi. Riferiscono di atrocità a Udarnik nel nord del nostro settore: guripas trovati inchiodati a terra con le piccozze da ghiaccio. La nostra rabbia si indebolisce per via del freddo e della fame.


18 gennaio 1942, Novgorod

I russi sentono l'odore della nostra debolezza e, proprio quando pensiamo che il freddo sia tale che non potremo muoverci mai più, attaccano. Veniamo spediti a Teremets per dare man forte ai tedeschi. Cerchiamo di dissuadere le ondate incessanti dei russi usando qualcuno dei nostri vecchi trucchi africani. Togliamo ai prigionieri tutti gli indumenti utili, tagliamo loro il dito che preme il grilletto, spacchiamo i nasi, strappiamo un orecchio e li rimandiamo indietro. Nessun effetto. Il giorno dopo ci assaltano di nuovo con randelli e baionette. Sono stato fortunato a uscire vivo da Teremets e ho potuto farlo solo perché sono stato mandato in retroguardia con una gamba rotta.


17 giugno 1942, Riga

Complicazione alla gamba dopo una polmonite. Ero troppo debole per potermi muovere e non ho potuto unirmi al battaglione di ritorno in primavera. Mi hanno ingessato di nuovo la gamba. Ho contratto il tifo. La ferita non voleva rimarginarsi. Per cinque mesi quasi non sono riuscito a sapere che cosa mi stesse succedendo. Ho avuto la visita del nuovo comandante della 269a, il tenente colonnello Cabrera, che mi ha chiesto di tornare al fronte con la «Tía Bernarda» (così è soprannominata la mia unità), che ha ricevuto rinforzi. La guerra sta andando meglio per i tedeschi, che hanno di nuovo il controllo di tutto il territorio a ovest del Volkhov e stanno cominciando a stringere Leningrado in una morsa.


9 febbraio 1943

Oggi è passato nelle nostre file un disertore ucraino e ci ha detto più di quanto avremmo voluto sapere su quanto sta accadendo a Kolpino. Una quantità enorme di batterie è stata trasportata alle spalle della città, centinaia di autocarri hanno scaricato gli obici. Il nemico è pronto ad attaccare domani. Dopo un'attesa così lunga non gli crediamo, ma lui ci mostra le mutande pulite e questo ci basta. I russi distribuiscono sempre mutande pulite prima di un attacco. Significa che si va a morire, ma che lo si farà con dignità. Perciò quell'uomo ha disertato. Ma perché, con tutta quella potenza di fuoco dietro di lui, è venuto da noi che stiamo per riceverla? La vodka fa qualcosa al cervello slavo.

I lunghi cannoni di Kolpino hanno cominciato a martellare le nostre posizioni a sud. La fanteria ha fatto saltare i campi minati davanti alle loro linee. La nostra patetica artiglieria ha fatto fuoco e i russi hanno capito perfettamente la psicologia della cosa… non si sono nemmeno degnati di rispondere.

La notte è scesa alle cinque del pomeriggio, il freddo ci è penetrato fin nelle ossa. Siamo spaventati, ma l'inevitabilità tira fuori tutta la nostra grinta. I carri russi hanno acceso i motori all'unisono, un ruggito assordante. I motori rombano tutta la notte, i russi temono che il gelo li possa bloccare.

«Domani comincia la corsa dei tori», dice un sergente. Vado a controllare le sentinelle, il freddo le rende meno pronte. Mentre scambio qualche parola con gli uomini, gli abeti davanti alla torbiera si agitano al passaggio di migliaia di soldati che si affrettano a raggiungere le loro posizioni nella foresta in vista dell'attacco di domani.


10 febbraio 1943

Niente di quanto ci ha detto l'ucraino ci aveva preparato a questo. Alle 6.45 i cannoni di Kolpino hanno aperto il fuoco su di noi, mille pezzi di artiglieria tutti insieme. Entro pochi minuti la devastazione è stata pari a quella di un terremoto. Interi fianchi delle colline sono esplosi, franati come sotto la pressione di un vulcano, gli abeti ricoperti di brina ghiacciata hanno preso fuoco, la neve intorno a noi si è sciolta in un istante. Posizioni massicciamente fortificate sono scomparse nella terra fumante. Siamo stati tagliati fuori. Impossibile comunicare per telefono e niente visibilità a causa del fumo nero nell'aria puzzolente di torba. Ci siamo rannicchiati sotto un torrente di terra, di tavole, di filo spinato, di pezzi di ghiaccio e poi di arti umani, braccia, gambe, teste con gli elmetti, un torso semiarrostito. È stata la dichiarazione di apertura delle ostilità. Il messaggio: «Non sopravvivrete».

Alcuni dei nostri singhiozzavano, ma non di paura, erano semplicemente incapaci di contenere lo shock. Abbiamo atteso l'inevitabile «Urrà!» e poi i rossi hanno caricato. Si sono gettati nei nostri campi minati e dopo dieci metri erano stati tutti abbattuti. Un'altra ondata. Altri dieci metri e tutti abbattuti. Quando hanno raggiunto il limite del campo minato abbiamo aperto il fuoco e li abbiamo falciati, una linea dopo l'altra. I cadaveri si ammucchiavano, fino a cinque cadaveri l'uno sull'altro, e gli assalti non si fermavano. Noi sparavamo all'impazzata, le canne delle mitragliatrici di un rosso cupo anche nel freddo intenso del mattino.

I rossi hanno lanciato i nuovi carri KV-1 contro il loro obiettivo: le alture di Sinevino. I nostri proiettili da 37 mm rimbalzavano sulle corazze metalliche.

Siamo rimasti tagliati fuori dalla nostra ala sinistra e dalla retroguardia. Hanno continuato a martellarci. Il capitano è stato colpito al braccio. I carri T-34 più piccoli hanno sfondato la nostra linea seguiti dalla fanteria che noi abbiamo falciato, il sangue arrossava le loro mantelle bianche. Ci hanno colpito con proiettili anticarro e con i mortai, al punto che non riuscivamo nemmeno a pensare. Alla fine non avevamo più mitragliatrici, né fucili a ripetizione. Ogni russo che si avvicinava troppo veniva trascinato nella trincea e pugnalato. Altro fuoco di mortaio. Mi è venuta voglia di ridere, la nostra posizione era talmente disperata… Il capitano è stato ferito a una gamba. Saltellava tra noi, incitandoci a resistere: «Arriba España! Viva la muerte!» Eravamo istupiditi dalla battaglia, le facce completamente nere, a parte l'area intorno agli occhi che era bianca. Dormivamo in piedi. Il capitano ha cominciato un'ultima esortazione: «La Spagna è orgogliosa di voi. Io sono orgoglioso di voi, considero un assoluto privilegio avervi comandato nella battaglia di oggi…» È stato interrotto da venti fucili russi puntati su di noi nella trincea.


12 febbraio 1943, Sablino

La prima domanda da parte dei rossi è stata: «Chi ha un orologio?» I nostri due ufficiali sopravvissuti se lo sono visti portare via. Quattro nostri feriti sono stati finiti a colpi di baionetta là dove si trovavano. Ci hanno fatto marciare sulla strada Mosca-Leningrado. La devastazione era così immensa, i loro caduti in numero tale che si riusciva a comprendere come ogni rosso che incontravamo fosse completamente ubriaco. Qualcuna delle guardie si è eclissata lungo la strada per andare a sbronzarsi. Quando siamo arrivati al fiume, il nostro capitano è stato portato via per essere interrogato. Sono rimasti perciò in quattro a scortarci al campo recintato di Ian Izhora. Non ci attirava affatto l'idea di una nottata all'aperto. Abbiamo parlato tra noi in spagnolo e al segnale li abbiamo colpiti. Un pugno sferrato alla gola del soldato russo più vicino e via, lontano dalla strada e verso la torbiera, correndo a zig-zag. La loro mira non era un gran che e siamo riusciti ad arrivare fino a una vecchia trincea anticarro, dopodiché ci siamo messi a correre lungo questa trincea verso la zona dove erano state le nostre linee. Abbiamo visto soltanto russi ubriachi e addormentati. Siamo riusciti a tornare sulla strada e a quel punto abbiamo udito le parole: «¡Alto! ¿Quién vive?» Abbiamo risposto: «España» e siamo caduti tra le braccia che ci attendevano.


13 febbraio 1943

Ciò che ho visto qualche giorno fa mi ha sminuito. Sono meno umano dopo quanto ho visto e fatto. La gloria in battaglia è cosa del passato. Gli eroismi individuali scompaiono nel miasma della guerra moderna dove le macchine tonanti annichiliscono e disintegrano l'obiettivo. Uno si sente coraggioso e dovrebbe essere fiero di essere entrato nell'arena. Io l'ho fatto e non mi sono mai sentito più solo. Perfino quando sono scappato di casa non mi sono sentito così. Non conosco nessuno e nessuno conosce me. Ho freddo, ma è un freddo che viene da dentro. Con la mia pelliccia di lupo e il mio berretto di pelle d'orso sono un animale solitario, senza branco, sulla pianura innevata dove l'orizzonte si confonde con il paesaggio e non c'è né principio né fine. Sono esausto di una stanchezza che mi frantuma le ossa e l'unica cosa che desidero è dormire per fare sogni bianchi come la neve e in un gelo che so mi porterebbe via senza sofferenza.


9 settembre 1943

Non ho scritto una parola da Krasni Bor e mentre rileggo capisco perché. Faccio parte del 14° Battaglione di ritorno e questo mi dà la forza di affrontare di nuovo una pagina bianca. Oggi i russi ci hanno informato della capitolazione dell'Italia. Hanno alzato un grosso cartello dove era scritto in enormi lettere rosse: ESPAÑOLES, ITALIA SE HA CAPITULADA! PASARES A NOSOTROS. Alcuni guripas sono passati sotto il filo spinato e hanno strappato il cartello sostituendolo con un altro: NO SOMOS ITALIANOS. Una volta tanto i tedeschi sono stati d'accordo.

I miei pensieri sono rivolti a casa. Ma non ho casa. Tutto ciò che voglio è tornare in Spagna, starmene seduto al sole dell'Andalusia con un bicchiere di tinto in mano. Decido che andrò a Siviglia e che Siviglia sarà la mia casa.


14 settembre 1943

Ci siamo allontanati dal fronte a Volosovo, una marcia di 60 chilometri. Mi aspettavo di sentirmi felice, la maggior parte dei guripas cantavano. Sono ancora sopraffatto dalla stanchezza. Avevo creduto che allontanandomi dal fronte sarei stato meglio, ma il mio animo è cupo e quasi non apro bocca. Di notte sudo, il cuscino è impregnato di sudore anche se non fa caldo. Non dormo mai profondamente, il mio sonno è una serie di soprassalti, di spasmi che cominciano a metà del corpo e schioccano come una frusta nel cervello. La mano sinistra trema e tende a essere spastica. Mi sveglio con la sensazione che le mani non mi appartengano e immediatamente sono in preda al terrore.

Riguardo i miei disegni e a commuovermi non è il profilo di Leningrado con la cupola della cattedrale di Sant'Isacco e la guglia dell'Ammiragliato, e nemmeno i ritratti dei miei compagni e dei prigionieri russi. Sono i paesaggi invernali. Fogli bianchi con vaghe tracce di edifici, di izbe o di abeti. Sono astrazioni di una condizione mentale. Una desolazione selvaggia e gelida nella quale persino le certezze sono solo una presenza tremula. Ne mostro uno a un altro veterano del fronte russo. Lo guarda per un po' e io penso che vi abbia visto ciò che ho visto io, ma poi me lo restituisce con le parole: «Buffo quel lupo». Rimango perplesso, ma alla fine ne sono divertito e avverto il primo barlume di speranza da febbraio a questa parte.


7 ottobre 1943, Madrid

Oggi ho ufficialmente lasciato la Legione dopo dodici anni di servizio. Ho la mia sacca e i miei libri e i disegni. Dispongo di mezzi sufficienti per sopravvivere un anno. Parto per l'Andalusia, verso la luce autunnale, i penetranti cieli azzurri e il calore sensuale. Disegnerò e dipingerò per un anno e vedremo se ne salterà fuori qualcosa. Voglio bere vino e imparare a essere pigro.

A causa del blocco americano manca il carburante per i trasporti pubblici. Dovrò andare a piedi fino a Toledo.

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