ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN

12 ottobre 1943, Triana, Siviglia

Un camion dell'esercito mi ha dato un passaggio da Toledo fino a Siviglia. Una vera fortuna. Il paese è in ginocchio, manca la benzina e il cibo scarseggia. Non c'è grande traffico sulle strade, a parte qualche carretto tirato da cavalli o da muli affamati.

Ho preso una stanza da un'affittacamere grassa dalle fattezze moresche e dai capelli neri lunghi fino alle reni, che di solito porta raccolti in una crocchia. Ha gli occhi neri opachi come carbone e suda in continuazione, come se fosse perennemente sull'orlo di un collasso. I seni hanno deciso di separarsi e vivono in isolamento ai due lati della gabbia toracica, la pancia è grossa come quella di un bevitore e le balla sotto la gonna a ogni passo. Ha le caviglie rosse e gonfie e ansima dolorosamente mentre si muove da una stanza all'altra. Mi piacerebbe disegnarla e dipingerla, preferibilmente nuda, ma la donna ha un compagno, magro come un cane randagio, e quest'uomo possiede un coltello che gli sento affilare amorosamente tutte le mattine prima di uscire. Nella camera ci sono un mobile con i cassetti che non si aprono, un letto e un quadro della Madonna appeso alla parete sopra il letto. Prendo la stanza perché ha un patio esterno che la padrona di casa usa soltanto per stendere i panni. Lascio giù i miei bagagli e vado a comprarmi materiale per dipingere e qualcosa da bere.


25 ottobre 1943, Triana, Siviglia

Probabilmente è perché sono un soldato, ma ho iniziato una vita regolata, anche se ho smesso di alzarmi presto la mattina. In questa città non succede niente prima delle dieci. A quell'ora vado a piedi alla Bodega Salinas sulla calle San Jacinto a bermi un caffè e a fumare una sigaretta. Frequento questo bar, perché il proprietario, Manolo, ha botti di buon tinto con il quale riempio i miei bottiglioni da cinque litri. Mi vende anche acquavite fatta in casa che compro a un litro alla volta. Poi torno nella mia stanza e lavoro fino alle tre del pomeriggio, unica interruzione l'acquaiolo. Alle tre mangio qualcosa al bar, con un bicchiere di vino, riempio la bottiglia e torno in camera mia dove dormo fino alle sei. Di nuovo lavoro fino alle dieci di sera, ceno e mi fermo da Manolo per bere con i farabutti e i poveri idioti che si ritrovano da quelle parti.


29 ottobre 1943, Triana, Siviglia

Ieri nella Bodega Salinas uno degli avventori, conosciuto solo con il soprannome di Tarzán, è venuto a sedersi al mio tavolo. Ha un ventre enorme e una faccia che sembra un mucchio di patate (Johnny Weissmuller rimarrebbe malissimo). Gli occhi sono gonfi e semichiusi. Si siede e tutti stanno zitti e ascoltano.

«Allora», comincia, appoggiando un avambraccio cicciuto sul tavolo, «da dove ti viene quell'aria che hai?»

«Quale aria?» domando io, senza capire.

Non c'è niente di aggressivo in Tarzán, nonostante la sua faccia bitorzoluta. Porta un cappello nero che non si toglie mai, ma che ogni tanto si fa scivolare sulla nuca, per stropicciarsi la fronte.

«L'aria di uno che non è di qui», risponde lui calmo, ma io mi sento perforare da quegli occhi dalle palpebre pesanti, come se stesse prendendo la mira lungo una canna di fucile.

«Non sono sicuro di aver capito.»

«Non sei di Siviglia, Non sei andaluz.»

«Vengo dal Marocco, Tetuán e Ceuta», dico, ma pare che non gli basti.

«Tu ci guardi e prendi appunti. Hai occhi da vecchio su una faccia da giovane.»

«Sono un pittore», spiego, «prendo appunti per ricordarmi delle cose che ho visto.»

«E che cosa hai visto?»

Mi rendo conto che quella gente non mi crede, pensano che sia della Guardia Civil (gli uomini della Guardia Civil sono sempre di fuori) o peggio.

«Ho fatto il soldato», dico, evitando la parola Legión. «Sono stato in Russia con la División Azul.»

«Dove?» domanda un tipo dalle gambe storte, un picador di una certa reputazione.

«Dubrovka, Teremets e Krasni Bor», rispondo.

«Io ero a Shevelevo», dice lui e ci stringiamo la mano.

Generale respiro di sollievo. Perché poi abbiano pensato che uno della polizia segreta potesse starsene seduto tranquillamente in un bar a prendere appunti su di loro (il gruppo di bestioni più tonti di tutta la Spagna meridionale) non riesco a immaginarlo.


15 dicembre 1943, Triana, Siviglia

Nel bar entra un giovane sui vent'anni. Si chiama Raúl, tutti lo conoscono e piace a tutti. Ha lavorato a Madrid, ma stasera non ha fatto che parlare di Tangeri, dove sì che si fanno i soldi. Gli altri ridono e gli dicono che dovrebbe parlare con El Marroquí, che è il mio soprannome. R. siede al mio tavolo e mi parla delle fortune che si fanno a Tangeri con il contrabbando. Io gli dico che di soldi ne ho abbastanza e che voglio fare il pittore. Lui insiste che con le sigarette americane si può guadagnare moltissimo, ma che si guadagna con tutto per via del blocco americano dei porti spagnoli. La sua sola preoccupazione è che l'atteggiamento degli americani verso Franco possa cambiare e che levino il blocco, ora che la División Azul è stata ritirata dalla Russia. A questo punto comincio a interessarmi, perché mi rendo conto che quel ragazzo non è un idiota che pensa solo alle pesetas, ma uno che capisce come stanno le cose. Gli offro da bere; la sua compagnia è più stimolante di quella dei normali clienti della Bodega Salinas. Vengo a sapere che Tangeri è un porto franco, vale a dire che le merci possono entrare liberamente ed essere comprate e vendute senza pagare tasse. Tutto è a buon mercato, non si deve fare altro che comprare, trasportare le merci al di là dello stretto e venderle con un guadagno enorme. Magnifico, a parte il fatto che non ha i soldi per comprare le merci e non ha una nave per trasportarle. Ma questo, secondo lui, è un particolare di nessun conto. «Si comincia a lavorare per terzi», spiega, «si impara il mestiere e poi ci si mette in proprio.»

«Dove ci sono i quattrini», dice poi, fissandomi con i suoi occhi giovani, senza esperienza, «c'è anche il pericolo.»

Mi domando perché dica questo a me e lui afferma che se c'è pericolo c'è sempre un grande guadagno.

A Madrid R. ha lavorato nell'edilizia, ma il costruttore è rimasto senza liquidi. Allora R. ha trovato impiego come lustrascarpe. Solo i ricchi si fanno lustrare le scarpe, dice. Scopre che i ricchi sono tali perché sanno più cose degli altri. Li ha ascoltati e si è reso conto che parlano sempre di Tangeri, dove l'amministrazione è spagnola e corrotta e rimarrà così per parecchio tempo a venire. R. ha già programmato tutto. Devo ricordargli che non ho bisogno di soldi, ma lui non è affatto d'accordo e mi dice che perfino gli artisti più affermati guadagnano poco. Alla fine della serata siamo tutti e due sbronzi e lui mi chiede se può dormire da me sul pavimento. È un tipo allegro e piacevole, perciò acconsento, a condizione che se ne vada prima che io cominci a lavorare.


21 dicembre 1943

Sono stato derubato. R. e io, rientrando dalla Bodega Salinas, abbiamo scoperto che qualcuno è entrato in casa passando dal patio e ha rubato tutto tranne i miei taccuini, i disegni e i dipinti. Abiti, colori e perfino la Vergine sopra il letto: volatilizzati. Quest'ultima è stata la perdita più grave, perché tutti i miei soldi erano nascosti dietro il quadro. Mi è rimasto solo quello che ho in tasca. Informo la padrona di casa di quanto è successo, sono furioso e faccio insinuazioni sull'unica altra persona che usa il patio. Lei mi si scaglia contro e il nostro rapporto è rovinato senza rimedio. Più tardi scopriamo i vasi da fiori rotti nel patio e R. trova il punto in cui il ladro deve aver scavalcato il muro e usato i vasi, fissati alla parete, per calarsi e risalire.


22 dicembre 1943

La grassona moresca è implacabile e oggi ci è comparsa davanti insieme con quel botolo ringhioso del marito e con qualche altro bandito locale, per persuaderci a sloggiare. Dato il mio addestramento sono tentato di farli a pezzi, ma dovrei poi affrontare la Guardia Civil e la galera. R. e io ce ne andiamo. R. ha usato tutto il suo potere di convincimento e ora ci stiamo dirigendo a sud a piedi con l'intenzione di arrivare ad Algeciras.


27 dicembre 1943

Credevo che i russi fossero in gran parte gente povera, primitiva, ma i paesi che abbiamo attraversato ci hanno rivelato una Spagna rinchiusa in un medioevo oscuro, senza speranza, con la follia come costante compagna. Non è raro incontrare qualcuno che ulula alla luna. Mentre cercava qualcosa da mangiare R. si è imbattuto in un ragazzo incatenato a un muro con un collare di ferro. Gli occhi erano tutti pupille e R. non è riuscito a scorgervi la minima traccia di umanità.


5 gennaio 1944, Algeciras

Siamo arrivati mezzi morti di fame e vestiti di stracci dopo essere stati assaliti da un branco di cani randagi più affamati di noi. Ne ho uccisi tre a mani nude prima che il branco fuggisse, lasciandoci laceri e sanguinanti. R., che mi ha sempre mostrato rispetto, adesso sembra che abbia di me un timore reverenziale. In questo ragazzo avverto un'astuzia che mi crea un certo disagio.


7 gennaio 1944, Algeciras

La Spagna in queste condizioni non è un paese vivibile per nessuno. L'Africa è così vicina, riesco a vederla, subito al di là dello stretto. Ne sento l'odore e sono sorpreso di constatare quanto desidero tornarvi.

R. è rientrato dicendo di aver trovato un contrabandista che ci offre lavoro per due mesi sulla sua barca, con vitto e alloggio e la garanzia di lasciarci a Tangeri con dieci dollari in tasca. Se tutto dovesse funzionare, potremmo rivedere l'accordo dopo i due mesi di prova. Gli chiedo che cosa dovremo fare, ma questo è un particolare di cui non si cura. Gli piace l'idea di questo lavoro. Lira fuori due sigarette e con ciò mi mette a tacere. Mi domando come mai io mi sia messo nelle sue mani così completamente, poi ricordo tutti quegli altri ex legionari che sono tornati a Dar Riffen, incapaci di sopportare il mondo esterno.

R. mi racconta qualcosa di sé, forse per legarmi a lui. Varia in tono distaccato. Mi dice che nel 1936 nel suo paese arrivò un camion di anarchici che ordinarono al sindaco di consegnare tutti i fascisti. Il sindaco disse che erano scappati tutti. Due giorni dopo gli anarchici ritornarono con un elenco di nomi, tra questi anche quelli dei suoi genitori. Gli anarchici li portarono in un burrone e li fucilarono in massa. «Quasi tutti quelli che conoscevo furono ammazzati quel pomeriggio», ha detto. Aveva dodici anni.


10 gennaio 1944, Algeciras

La barca del contrabandista è un vecchio peschereccio di circa 15 metri di lunghezza e 3 o 4 di larghezza. Ha una stiva capace a poppa e a prua ci sono gli alloggi. In coperta la ruota del timone è riparata da una tuga con i vetri incrinati; sotto c'è il motore. E là abbiamo trovato Armando, un uomo atticciato, capelli neri e una faccia sudicia dalla barba corta e ispida. Gli occhi scuri hanno una loro dolcezza, ma le labbra sono sottili e il sorriso tirato. Non mi dispiace, specialmente perché cucina uno stufato di fagioli, pomodori, aglio e chorizo. Ci dice che in una cabina troveremo indumenti che ci staranno meglio di qualsiasi cosa potrebbe darci lui di suo. Mangiamo, beviamo e io mi sento sazio e assonnato, ma non dimentico di chiedere ad A. di chi siano gli abiti che indossiamo. Appartenevano all'ultima ciurma, fatta fuori da alcuni italiani. R. gli domanda come ha fatto lui a cavarsela e A. risponde senza mezzi termini: «Ho ammazzato gli italiani».

Dopo la cadente e sordida Algeciras, Tangeri appare prospera, il porto è pieno di navi e tutte le gru sono al lavoro, le banchine gremite di marocchini nascosti sotto i cappucci a punta dei loro burnus o piegati in due sotto il peso dei carichi. Autocarri e automobili avanzano lentamente tra quella massa di umanità che si spinge, si urta; molte di quelle auto sono grosse macchine americane. Al di sopra del porto, in posizione dominante, l'Hotel Continental, mentre altri alberghi fiancheggiano l'avenida de España: il Biarritz, il Cecil, il Méndez. Mi sento male all'idea che mio padre possa essersi trasferito qui, per approfittare del momento favorevole.

R. salta sul ponte, ululando dalla contentezza. A. mi guarda con occhi inespressivi e mi domanda che gli stia succedendo. Gli dico che R. ha per i soldi il fiuto di un cane per una cagna in calore. A. si stropiccia il mento irsuto con la mano callosa. Mi piacerebbe disegnare quelle mani… e anche la faccia, sensuale e brutale insieme.

Una volta agli ormeggi, A. parla in privato con R., il quale poco dopo sparisce. A. fuma la pipa, mi dà carta e tabacco per arrotolarmi una sigaretta e tra una boccata e l'altra mi dice: «Non ho mai avuto una ciurma migliore». Io ribatto che ancora non abbiamo fatto niente. «Ma lo farete», replica lui. «R. penserà agli affari e tu ammazzerai.» Parole che mi gelano il sangue. Questo aveva visto sulla mia faccia? Poi mi rendo conto che R. deve aver chiacchierato.


11 gennaio 1944

Siamo salpati la notte scorsa. R. era tornato dopo qualche ora, seguito da un americano e da due marocchini che spingevano una carriola con due bidoni da 200 litri di nafta. A. non l'aveva mai comprata a un prezzo così basso. R. e A. hanno discusso un po' di altri prezzi e alle nove stavamo già caricando sacchi di ceci e di farina, oltre a otto bidoni di benzina. R. si offre di tenere i libri e A. dice: «Quali libri?» R. sa leggere e scrivere, ma ha un vero dono per i numeri. A undici anni teneva già i conti per i genitori. «Quando andavano al mercato compravano e vendevano, e io scrivevo tutto. Dopo sei mesi ero in grado di dire dove avevano guadagnato e dove avevano perso.» Quel mercato si trovava nel paese vicino. «Ora capisci perché i tuoi genitori sono stati ammazzati», gli dico. Non gli era mai venuto in mente.


13 gennaio 1944

Ci siamo tenuti al largo per un po' prima di avvicinarci al villaggio di pescatori di Salobreña approfittando del buio. A. lancia un segnale dal largo e dopo aver ricevuto la risposta che aspettava entra in porto. Mentre aspettiamo A. mi fa dare un'occhiata alla sua unica arma da fuoco, un fucile incrostato d'argento. «Un'opera d'arte per uccidere», commento. Sono un po' inquieto all'idea di avere solo due colpi, ma lui mi assicura che basta una fucilata a scoraggiare certa gente. Se ne vanno per concludere l'affare e io resto a guardia della barca. Dopo mezz'ora tornano litigando tra loro. I compratori non hanno voluto accettare i prezzi esagerati di R. e A. è furioso all'idea di dover cercare un altro porto e altri compratori. R. gli raccomanda di avere pazienza: si rifaranno vivi. A. passeggia avanti e indietro in coperta, R. fuma. Alle tre R. dice ad A. di avviare il motore e mentre R. si prepara a mollare gli ormeggi arrivano di corsa quattro uomini. Io sorveglio il ponte con lo schioppo. Una somma di denaro cambia di mano. Scarichiamo la merce e salpiamo prima dell'alba.


15 gennaio 1944

R. dimostra ad A. che, se avesse accettato il prezzo che gli avevano offerto a Salobreña, non avrebbe guadagnato nulla e, se avesse pagato il prezzo che era abituato a pagare per il combustibile, ci avrebbe rimesso. R. lo assilla a proposito delle merci che imbarchiamo, un carico troppo pesante e poco redditizio per una barca piccola come la sua. Dice che dovremmo trattare sigarette. «Le sigarette sono la nuova moneta, si può comprare tutto con le sigarette. Franchi, marchi tedeschi, lire non sono niente.» A. impallidisce all'idea. Il mercato delle sigarette è in mano agli italiani e lui non vuole entrarci. R. indica me e dice: «È un soldato addestrato, era nella Legione, è stato in Russia. Non c'è italiano che gli stia a pari». R. ha fatto le sue ricerche, io non gli avevo mai detto niente di questo. A. mi guarda e io dico: «Non faccio niente con questo fucile da caccia. Se volete fare contrabbando di sigarette allora devo avere perlomeno un fucile mitragliatore». R. ride. «Un fucile mitragliatore! Quell'americano che ci ha venduto la nafta e la benzina può trovarci qualsiasi cosa. Un bowitzer, uno Sherman, un bombardiere B-17… anche se per un bombardiere ha detto che gli ci vorrà un po' più di tempo.»


29 gennaio 1944

Gli alleati sono sbarcati ad Anzio la scorsa settimana e R. teme che il suo prezioso mercato venga distrutto con la fine della guerra. Gli dico che gli alleati hanno ancora molto da fare e che i tedeschi non cederanno terreno tanto facilmente. R. non vede l'ora di avere una sua barca e io gli faccio notare che non abbiamo ancora guadagnato i nostri primi dieci dollari, figuriamoci poi il denaro necessario a comprare una barca, foss'anche a remi. R. insiste perché A. gli insegni tutto sulla navigazione e sul mare, come leggere una carta nautica, come tracciare una rotta, come usare la bussola e navigare con le stelle. Partecipo anch'io a queste lezioni.


20 febbraio 1944

A. fa a modo suo e stiamo trasportando regolarmente ceci, farina e benzina, ma R. riesce a mettersi d'accordo per un trasporto di pepe nero in Corsica a un costo molto basso. Chi spedisce è un tedesco arrivato da Casablanca: ha comprato il carico da un ebreo della città. Non riesco a immaginare che cosa se ne facciano i corsi di tutto quel pepe nero e quando il tedesco viene a sapere che io parlo la sua lingua e ho combattuto in Russia, mi confida che in Corsica il carico verrà trasbordato e finirà in Germania in una fabbrica di munizioni.


24 febbraio 1944

Abbiamo attraccato in Corsica e R. è contentissimo di aver preso contatti sia con i tedeschi sia con i corsi. Sembra che in futuro trafficheremo con la Corsica trasportando carichi di sigarette che i corsi penseranno a inviare a Marsiglia e a Genova. Come R. fa notare ad A., abbiamo guadagnato di più, rischiando meno. A. non gli dà soddisfazione, si sente un monarca assoluto perché è padrone della barca e non capisce quanto l'intelligenza di R. sia importante per far lavorare con profitto il suo stupido peschereccio.

Conversazione con A. a proposito delle differenze tra contadini e pescatori: i pescatori sono umili nei confronti del mare, la potenza del mare li fa sentire uniti, si aiutano sempre a vicenda. I contadini hanno solo il loro pezzo di terra e questo li rende meschini e possessivi, non sono mai umili, solo diffidenti. E taciturni, perché qualsiasi cosa venga detta potrebbe dare un vantaggio ai vicini. È nella loro natura difendere ed espandere la proprietà. Se un contadino vede il suo vicino inciampare e cadere, pensa subito alle varie possibilità che questo può offrirgli. A. finisce dichiarando: «Io sono un pescatore e il tuo amico R. è un contadino».


1o marzo 1944

Abbiamo consegnato il carico ai corsi e ci siamo diretti a Napoli con la stiva vuota alla ricerca di un italiano con cui trattare. Dai corsi abbiamo saputo che occorre il loro permesso. A. non scende a terra e io mi rendo conto di quanto l'incidente con gli italiani lo abbia scosso.


12 marzo 1944

R. è deciso a dimostrare ad A. quanto denaro si può fare con un traffico ben organizzato con gli italiani. Abbiamo la barca piena di Lucky Strike, quasi non ci è rimasto un posto per dormire tanti sono gli scatoloni, le stecche, perfino i pacchetti sciolti. A. è preoccupato, ha messo tutti i suoi soldi in quest'unica partita. Scivoliamo verso il largo nel golfo di Napoli con il buio e restiamo in attesa nell'oscurità fredda di un mare liscio come l'olio. R. viene nella cabina dove me ne sto con il fucile mitragliatore sulle ginocchia. Mi dice di tenermi pronto e di non farmi vedere; al primo accenno di guai non devo mettermi a discutere, ma ammazzarli tutti. «Credevo che avessimo avuto il permesso», obietto. «Qualche volta prima bisogna far vedere chi siamo per ottenerlo. Non c'è mai niente di certo con questa gente.» Gli domando perché non l'abbia detto ad A. e lui dice: «Ognuno deve saper ragionare per conto suo. Se ci si affida agli altri si rischia».

Controllo che tutti e quattro i caricatori siano in ordine e il fucile mitragliatore pronto a fare fuoco. Sciabordio dell'acqua contro le murate. Dopo qualche minuto si sente il rumore di un motore che si avvicina. Spengo la sigaretta, salgo nella tuga e mi rannicchio al di sotto del vetro incrinato. Avverto un cambiamento in R., ma la barca ci è addosso e non ho tempo di pensare a questo. Mentre l'imbarcazione si affianca alla nostra, a bordo si accende una luce. I parabordi fatti con vecchi copertoni cigolano e stridono mentre le due barche si toccano. Odo voci italiane, musicali e per nulla minacciose. Sbircio dal vetro. A. e R. sono in piedi alla battagliola a circa tre metri da me. L'italiano capisce la nostra lingua. Due uomini scavalcano la nostra battagliola a poppa e si portano sul lato buio della tuga. So che qualcosa non va. Sento i due dietro la paratia, il fruscio della stoffa dei loro abiti. È questo il primo segno di guai? Si sente un grido e io non esito più e sparo attraverso la parete di legno. Mi precipito fuori e salto sulla barca degli italiani. Sulla nostra coperta non vedo nessuno. Perlustro la poppa della barca italiana. All'improvviso il motore si avvia e io sparo contro la tuga uccidendo due uomini. Rimetto il motore in folle e la barca si allontana alla deriva dalla nostra. Resto in ascolto, poi controllo il ponte e scendo sotto coperta. La cabina è vuota. La porta della stiva si apre sul buio puzzolente di nafta. Trovo una pila elettrica nella cabina e, con le spalle appoggiate alla paratia, illumino la stiva. Niente. Nessuno sparo. Un ragazzo, massimo diciassette anni, è rannicchiato in un angolo della stiva. Addosso gli trovo soltanto un coltellino. Trema dalla paura. Lo trascino in coperta. Nelle onde di oscurità è ancora visibile lo scafo bianco del peschereccio di A., poi si accende una luce nella tuga e il motore si avvia. R. è al timone. Il ragazzo italiano, in ginocchio, sta pregando. Gli dico di stare zitto, ma ha ormai trovato il ritmo della preghiera. R. mi lancia una cima. «Tutti morti?» mi domanda. Io indico il ragazzo ai miei piedi. R. annuisce. «Meglio ammazzare anche lui», dice. Il ragazzo geme. R., che è bagnato fradicio, mi accorgo, mi consegna una pistola.

«Ho bisogno di un motivo migliore per ucciderlo», dico.

«Ha visto tutto», risponde R.

«Forse è ora che ti sporchi le mani anche tu.»

«Me le sono già sporcate», ribatte.

Ho la pistola in mano. Trascino il ragazzo fino alla battagliola, la testa gli ciondola fuori bordo, il pianto gli si strozza in gola. Gli sparo dietro l'orecchio. Restituisco la rivoltella a R., pensando: di questo sono capace.

La stessa mano che ha premuto il grilletto guida ora le parole con la penna e io non sono più vicino di prima a capire come possa essere uno strumento di creazione e di distruzione al tempo stesso.

Facciamo rotta per la Corsica e durante la traversata buttiamo a mare i cadaveri. Porto la barca italiana ad affiancarsi all'altra, dobbiamo essere in due per sollevare ciascun corpo. Quando arriviamo a quello di A. io dico che dovremmo onorarlo con una preghiera. R. fa spallucce. Mi regolo come fosse stato un compagno della Legione e chiamo il suo nome, rispondendo: «Presente!» Mentre lo caliamo in mare, vedo che è stato colpito due volte, alla spalla e alla nuca.

Scarichiamo le sigarette e mettiamo le barche in cantiere ad Ajaccio, per sistemarle e ripitturarle usando i soldi guadagnati con le sigarette. R. scompare per un giorno intero e torna con i documenti per entrambe le barche a nome suo e mio. Salpiamo per Cartagena e registriamo le imbarcazioni come battenti bandiera spagnola, cambiando i nomi. Non abbiamo avuto il tempo di parlare di quanto è successo e, con il passare dei giorni, l'incidente si allontana sempre di più e ogni ricordo di A. svanisce. Constato che R. ha un vero talento per chiudere le porte dietro di sé. Il legame che ha con me deriva dal fatto che mi ha affidato l'unico ricordo importante per lui e cioè la morte dei suoi genitori. Credo sia stato allora che ha cominciato a ritenere la memoria non un fattore di chiarezza, ma un'interferenza inopportuna: offrendo solo nostalgia in cambio del vuoto che si ha dentro, non ha nessun valore.


14 marzo 1944

Conversazione con R.

Io: Che cosa è successo con gli italiani?

R.: Lo hai visto, c'eri anche tu.

Io: Non ho visto come è cominciato.

R.: Allora perché hai aperto il fuoco?

Io: Quei due non avrebbero dovuto salire a bordo della nostra barca. Ho fatto fuoco al primo segno di guai… come mi era stato ordinato.

R.: Tutto qui?

Io: Ho udito un grido… mi è sembrato un segnale.

R.: L'italiano era armato. Ho gridato. Lui ha sparato ad A. Io mi sono buttato in mare. Ho sentito il mitragliatore fare fuoco e da come si sono messi a correre lo hanno sentito anche gli italiani.

Io: A. è stato colpito due volte.

R.: Che vuoi dire?

Io: Gli hanno sparato alla spalla e alla nuca.

R.: Io ero in acqua. Forse l'italiano ha tirato due volte.

Io: Dove hai preso quella pistola?

R.: Perché questo interrogatorio?

Io: Voglio sapere che cosa è successo. Hai detto che ti sei sporcato le mani. Hai detto che bisogna far vedere chi siamo per ottenere il permesso da quella gente.

Lunga pausa durante la quale decido che non saprò mai che cosa passa per la testa di R.

R.: La pistola apparteneva a uno degli italiani che hai ammazzato.

Perlomeno ha risposto, anche se con una menzogna.


23 marzo 1944

Un'altra informazione su quella che ormai io chiamo «la notte brava». A Tangeri vado dall'americano e gli chiedo un altro caricatore per il fucile mitragliatore e altri proiettili per la pistola che ha venduto a R., e senza esitazione lui mi dà una scatola di proiettili calibro .45. Mi dice anche di sfuggita che la cosa migliore che gli alleati abbiano fatto per il commercio è affidare Napoli a Vito Genovese. Non conosco questo nome e l'americano mi rivela che è il capo della camorra, cioè, come apprendo in seguito, la versione napoletana della mafia siciliana.

Da quando ci siamo imbarcati in questo affare R. è cambiato, non è più simpatico come prima, usa il suo fascino a comando, quando gli serve. Il fatto è che R. è stato sguinzagliato nel mondo con un solo ricordo terribile, la morte dei genitori. Quando ho detto, senza riflettere, che erano stati ammazzati proprio a causa del suo acume negli affari è come se lo avessi infilzato con una baionetta incandescente. Il senso di colpa che ho creato in lui lo ha reso spietato e selvaggio. Ha fatto di me il suo socio, ma non so perché, dato che non sembra aver bisogno di nessuno.


30 marzo 1944, Tangeri

R. mi ha dato i miei cento dollari di paga. Mi dice di tenerli e di cambiarli solo per le pesetas che mi servono. Lo informo che intendo riprendere la pittura e lui mi dice che allora non ho imparato niente.

Io: È quello che devo fare.

R.: E io rispetto la tua scelta. (non è assolutamente vero)

Io: Come dici tu, ognuno deve pensare per sé.

R.: Scusa, ma quello che fai tu è non pensare.

Io: Voglio vedere fin dove posso arrivare.

R.: E tu credi che il talento abbia qualcosa a che fare con il successo nel mondo dell'arte?

Io: Aiuta.

R.: Allora sei un idiota.

Io: Non pensi che van Gogh, Gauguin, Manet e Cézanne avessero talento? Ma sai poi di che cosa sto parlando?

R.: Lo scemo pensa sempre che tutti gli altri siano scemi. Certo che so chi sono, quelli avevano il genio.

Io: E io no?

R. alza le spalle.

Io: E da quando sei un esperto d'arte?

Alza le spalle di nuovo e fa un cenno di saluto a qualcuno che passa. Siamo seduti a un tavolino all'aperto del Café de Varis in place de France.

Io: Come fa un ragazzino di campagna, figlio di contadini di un sudicio pueblo nei paraggi di Almería a sapere qualcosa di arte?

R.: Come fa un ex legionario a essere un genio? El Marroquí? È così che firmerai le tue opere?

Io: Il genio non fa preferenze.

R.: Ma chi decide che uno lo è? Gauguin e van Gogh erano forse famosi da vivi?

Io: Che cosa ti fa credere che io voglia diventare famoso?

R. non risponde, ma mi guarda con un'intensità tale che mi rendo conto di stare seduto di fronte a una persona che ha trovato il suo vero ambiente, una persona assolutamente sicura di sé e che vede in me qualcosa che non ho visto io stesso.

R.: Perché tieni un diario? Perché vuoi scrivere la tua vita?

Io: Scrivo solo quello che accade intorno a me e che accade a me.

R.: Ma perché?

Io: Non lo scrivo per gli altri.

R.: E a che ti serve?

Io: È un registro, proprio come i tuoi libri contabili.

R.: Serve a ricordarti dove sei?

Io: Precisamente.

R.: Non pensi che la gente leggerà i tuoi diari e dirà: «Che uomo straordinario»?

Qualche volta lo penso, ma non glielo dico.

R.: Chiunque conti qualcosa deve essere un po' vanitoso.


1o aprile 1944

Ci prendiamo la nostra prima vacanza, in modo che R. possa rendersi conto di come funzionano le banche. Stiamo al Residencial Almería. Vi si incontra gente di tutte le nazionalità e un sacco di donne sole che lavorano nelle centinaia di aziende che si sono impiantate qui dall'inizio della guerra.

R. si gode i suoi soldi. Si è fatto fare un abito su misura da un ebreo francese di Petit Soco. Se lo mette per andare nelle banche. Pranza in un ristorante tenuto da una famiglia spagnola nel Grand Hôtel Villa de France. Dopo mangiato fa una breve passeggiata lungo la rue Hollande e poi sale fino all'hotel El Minzah dove prende un caffè e un brandy. La sua vanità consiste nell'immaginarsi ricco e la cosa funziona, perché in quei posti conosce gente e conclude affari, essendo quelli locali frequentati da chi fa il mercato nero e cerca tipi come R. per trasportare le sue merci in Europa.

A me piace starmene seduto al sole al Café Central nella medina a guardare il caos del Soco Chico. La sera sono attirato dalla trasandatezza del porto. C'è un bar spagnolo che si chiama ha Mar Chica, con la segatura sul pavimento e una vecchia bagascia di Malaga che balla un flamenco passabile. Puzza, come se tutto il suo organismo fosse in disordine, e in realtà sudando si depura, liberandosi dai suoi malanni.


26 giugno 1944

Da quando gli alleati hanno invaso la Normandia abbiamo lavorato senza sosta. R. ha trovato un ubriacone scozzese che ha bisogno di soldi per pagare i debiti di gioco e così noi siamo i nuovi proprietari della «Highland Queen». Uno spagnolo, Miguel, che come lavoro portava i pescherecci fuori da Almuñecar, avrà il comando della nuova barca.


3 novembre 1944

In panne al largo di Napoli, alle prime luci dell'alba, siamo attaccati. Puntano sulla «Highland Queen», che si è staccata da noi. Durante il tempo che impiego ad avvicinarmi, M. è già in coperta con una pistola puntata alla testa. Non capisco quello che dicono. R. mi chiama per radio e mi dice di fare fuoco e io eseguo. Cadono tutti, compreso M. La barca dei pirati se ne va e io uso un Lee Enfield .303 inglese, molto preciso quando si spara a distanza, per abbattere l'uomo alla ruota. Sono greci. Rimorchiamo le due barche a Napoli. M. ha una brutta ferita alla gamba destra e dobbiamo lasciarlo lì. La nostra flotta è ora di quattro unità.


15 novembre 1944, Tangeri

R. sta cercando di affittare un magazzino al porto e uno fuori città. Il mio ruolo è garantire la sicurezza, il che significa trovare uomini fidati che impediscano ai ladri esterni di entrare e a quelli interni di rubare. Mi dice che la gente ha paura di me. Sono sorpreso. Si è sparsa la voce del modo in cui ho sistemato i greci e mi rendo conto che R. sta creando un mito su di me, ma sono incapace di impedirglielo.


17 febbraio 1945, Tangeri

R. ha trovato i magazzini. Parto subito per Ceuta e recluto veterani della Legione che mi conoscono. Ritorno con dodici uomini.


8 maggio 1945, Tangeri

Oggi è finita la guerra. La città è come impazzita, sono tutti ubriachi, tranne me e i miei legionari. I sobborghi sono affollati di berberi e gente del Riff scesa dalle sue montagne desolate per venire a vivere in chabolas fatte di assi e di casse da imballaggio. Non hanno niente da perdere e ruberebbero qualsiasi cosa. Siamo costretti a essere duri; le botte non li hanno dissuasi, perciò, se ora prendiamo qualcuno, la prima volta gli tagliamo un orecchio, la seconda gli rompiamo il naso o gli tagliamo il pollice o l'indice. Se ci riprovano, li portiamo fuori città e li buttiamo giù dalla scogliera.


8 settembre 1945, Tangeri

L'amministrazione spagnola si sta ritirando da Tangeri. In un primo momento R. si è preoccupato, ma sembra che la città ritorni al suo stato internazionale precedente e gli affari non ne risentiranno.


1o ottobre 1945, Tangeri

Abbiamo deciso di comprarci una casa. Io ho trovato una soluzione perfetta in una traversa appena fuori dal Petit Soco, una specie di labirinto costruito intorno a un cortile centrale dove cresce un grosso fico. La luce entra dai punti più sorprendenti. R. pensa che sia la casa di un pazzo. La sua è appena fuori dalla porta della medina in una strada del Grand Soco dove vivono molti spagnoli. Sono allarmato dal modo in cui mi parla continuamente della figlia tredicenne di un avvocato spagnolo che abita di fronte a lui. Come per miracolo il padre della ragazzina diventa il nostro avvocato ed è lui a stilare i contratti per l'acquisto delle proprietà. Io pago 1500 dollari e R. 2200 dollari e non dobbiamo prendere in prestito nemmeno un centesimo.


7 ottobre 1945, Tangeri

Ho ricominciato a dipingere. Disegno la casa e la dipingo in chiaroscuri astratti. Ogni tanto emerge un motivo all'interno di queste strutture in bianco e nero. Tenso ai miei lavori in Russia e capisco da dove mi viene questa ossessione monocromatica.


26 dicembre 1945, Tangeri

Durante la cena della vigilia di Natale R. mi domanda se io desideri sposarmi. «Con te?» gli domando, e ridiamo così forte che la verità comincia a divenire per me penosamente chiara. R. è una presenza massiccia nella mia vita (non così io nella sua). Controlla ogni mia mossa; siamo soci, ma comanda lui: pensa a pagare le mie spese, mi dà istruzioni sulle misure di sicurezza da prendere, elabora tutti i piani. Io ho compiuto da poco trent'anni, ne ho otto più di lui. Deve essere per via della Legione, di quella vita… ho bisogno di strutture ordinate per funzionare. Non sono padrone di me stesso… tranne quando mi ritiro nel mio cortile.

Questa casa è come la mia testa e la dice lunga su di me, se è vero, come dice R., che è la casa di un pazzo. Mi insedio in nuove stanze, una ha il soffitto molto alto e in cima alla parete c'è una finestra schermata da tralicci moreschi. Me ne sto seduto sul tappeto a fumare hashish e a contemplare ipnotizzato il disegno delle ombre spostarsi con il sole.

L'altro giorno P., il barman del Café Central di Petit Soco, mi ha indicato un «altro pittore spagnolo», un tipo dall'aspetto peggiore di quelli che vivono nelle chabolas della periferia. Si chiama Antonio Puentes. Dipinge, ma non vende e non espone. Io non capisco perché e cerco di discuterne con lui, ma lo trovo irremovibile. P. mi presenta a un musicista americano, un certo Paul Bowles. Conversiamo in arabo, dato che conosco poco l'inglese e il suo spagnolo è ancora peggio. Mi parla del majoun, una specie di marmellata di hashish di cui ho avuto notizia, ma che non ho mai provato. P. la prepara e ne compriamo un po'.


5 gennaio 1946, Tangeri

Fa freddo e piove. Un tempo troppo brutto per uscire con le barche. R. mi fa vedere il regalo che ha comprato per la giovane figlia del nostro avvocato: una bambola d'osso, un oggetto di una delicatezza straordinaria, ma un po' macabro. Più tardi vediamo la ragazzina che attraversa la strada con i suoi genitori, stanno andando verso la medina e la cattedrale spagnola. È molto bella, ma pur sempre una bambina. Le curve dei seni sono appena accennate e la linea del corpo è dritta dalle ascelle alle cosce. Non capisco che cosa lo attiri in lei fino a quando R. non mi rivela un'altra cosa della sua vita di un tempo. La figlia dell'avvocato gli ricorda una bambina del suo paese i cui genitori sono stati ammazzati come quelli di R., solo che la piccola non aveva voluto staccarsi da loro e nemmeno suo padre era riuscito ad allontanarla da sé. Esasperati, gli anarchici avevano sparato anche a lei. Che cosa rivela questo sull'infatuazione di R. per la figlia dell'avvocato? Quella ragazzina ha toccato in lui ciò che per lui ha più valore.


25 gennaio 1946, Tangeri

Ho un po' di majoun. Lo spalmo sul pane e lo mangio nella stanza strana dal soffitto alto, annaffiandolo con tè alla menta. Non faccio in tempo a posare il bicchiere sul vassoio che cado in un intontimento beato, poi, dopo qualche minuto, sento il mio corpo riprendere vita dalla punta dei capelli ai calli dell'alluce. Sto fluttuando in alto, a pochi centimetri dal soffitto e guardo fuori dal traliccio della finestra affacciata sui tetti della medina, sulle mura e sul mare grigio in lontananza. Un sole acquoso mi disegna la trama della finestra sulla camicia. Agito le mani e le gambe, preoccupato all'idea di essere a sette metri da terra senza un sostegno visibile. Chiudo gli occhi e mi rilasso. Comincio ad avere freddo, un freddo terribile, nemmeno in Russia ho sofferto così. Apro gli occhi e vedo il soffitto imbiancato a calce e su quella distesa bianca piccole macchie nere che sì rivelano mucchi di cadaveri congelati. Sono molto spaventato. Con uno sforzo di volontà cerco di uscire da quello stato, che tuttavia dura per ore. Quando mi sveglio è buio. Stamani ho visto chiazze di umidità sul soffitto, causate dalle piogge invernali. Grappoli. Spore. Morti viventi.

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