XXVI

Sabato 21 aprile 2001, galleria di Ramón Salgado,

calle Zaragoza, Siviglia


La galleria era aperta ma vuota. Al piano superiore Ramírez e Greta, seduti uno accanto all'altra, stavano scorrendo gli elenchi degli artisti rappresentati. La donna, a capo chino, guardava la lista e parlava, l'uomo ammirava i suoi capelli. Si scostarono bruscamente quando l'Inspector Jefe arrivò in cima alla rampa di scale. Falcón ebbe la certezza di aver colto il principio di un'intesa sessuale tra i due. Pregò Greta di lasciarli soli per qualche momento.

«Abbiamo trovato il sangue», esordì, suscitando subito l'interesse di Ramírez.

«Nella casa di Salgado?»

«Sul pavimento e in bocca.»

«In bocca?»

«Quando Sergio gli ha infilato i calzini in bocca per la seconda volta, Salgado lo ha morso.»

Ramírez si allungò sulla sedia e sorrise, allargando le braccia. «Ora dobbiamo soltanto trovarlo», disse. «Ma perlomeno il Juez Calderón sarà contento di sapere che, quando lo avremo trovato, avrà qualcosa di concreto in mano.»

«Lavori con Greta…»

«Con piacere.»

«… metta insieme una lista di tutti gli artisti che usino filmati o video nelle loro opere e abbiano un recapito di Siviglia o di Madrid.»

«Madrid?»

«Ci ha spedito qualcosa da Madrid; potrebbe avere ancora un'abitazione là.»

«In che fascia di età dobbiamo cercare?»

«Diciamo fino a quarantacinque anni, tanto per precauzione… purché sani e robusti», rispose Falcón. «Conosce nessuno alla buoncostume che esaminerebbe il materiale che abbiamo trovato sul computer di Salgado per darci un parere sulla provenienza?»

Ramírez annuì, da uomo che sapeva come farsi dispensare favori. Tornarono sul profilo di Sergio, poi Falcón si avviò all'uscita. Sulle scale, si girò.

«Se Greta conosce qualcuno su quell'elenco che abbia avuto un'istruzione francese e che abbia trascorso del tempo in Francia o in Nordafrica, mettete in evidenza il nominativo.»


Davanti alla casa di Salgado Falcón scavalcò il nastro della polizia ed entrò nell'abitazione, deserta e priva di vita ora che il trambusto della scena del delitto era cessato. Non comunicava nemmeno tristezza, solo la sterilità del suo proprietario, un uomo dai gusti presi in prestito. Al pianterreno le pareti erano state imbiancate di recente, non vi era traccia di ninnoli, nessuna fotografia, nessun oggetto fuori posto, la mobilia un insieme di linee pulite; in soggiorno solo un quadro, un acrilico astratto quasi privo di colore. Nello studio, al centro della libreria, l'unica foto esposta: Francisco Falcón e Ramón Salgado, sorridenti, le braccia l'uno sulle spalle dell'altro.

Salì nella mansarda affacciata sul piccolo terrazzo dal quale si pensava che fosse passato Sergio. Felipe e Jorge l'avevano lasciata esattamente come era stata trovata, perfino la chiave della porta era ancora sul pavimento come quando erano entrati. Falcón la fissò per un attimo, poi chiamò Felipe con il cellulare e gli chiese dove avesse lasciato la chiave.

«L'abbiamo rimessa nella serratura, era meglio che correre il rischio che venisse spostata di qua e di là sul pavimento.»

«In questo caso… è tornato», disse Falcón.

«Dov'era la chiave?»

«Per terra, accanto alla porta, dove è stata trovata la prima volta. Perché dovrebbe voler tornare sulla scena del delitto?»

«Perché si è dimenticato qualcosa?» suggerì Felipe.

«Sì, significa che ha lasciato qui una cosa», affermò Falcón e una palma alta nel giardino accanto ondeggiò nella brezza in un sonoro fruscio delle foglie. A Falcón si rizzarono i capelli in testa mentre si concentrava nell'ascolto. E se fosse stato ancora lì? No, non in pieno giorno. Iniziò una lenta e metodica ricerca in tutta la casa. Era vuota. Tornò nella stanza dove era stato trovato il corpo di Salgado e, fermo in piedi davanti alla scrivania, rivide la scena con l'immaginazione.

Mentre Sergio gli infilava di nuovo i calzini in bocca, Salgado aveva ripreso i sensi e lo aveva morso; l'altro aveva reagito colpendolo tre volte sulla faccia, poi aveva fatto un passo indietro, stringendosi il pollice o l'indice ferito. Dove sarebbe potuto andare? La cucina era la stanza più vicina. Perciò aveva raggiunto il lavello, si era sfilato il guanto di lattice e si era lavato il dito. Probabilmente si era fatto prendere dal panico, sanguinava ancora e non c'era niente per tamponare la ferita, niente cerotti in giro.

Il rotolo di carta da cucina. Aveva strappato un po' di carta dal rotolo, l'aveva premuto sul taglio ed era salito nel bagno al piano superiore. Probabilmente a quel punto era agitato, i nervi non più saldi come prima, e forse anche incollerito. Probabilmente aveva avuto fretta di finire quello che aveva cominciato per potersene andare. Perciò era tornato da Salgado, aveva sistemato il terribile cappio, aveva fatto la sua telefonata e lo aveva guardato morire. Poi era uscito in fretta.

Perché gli aveva telefonato proprio quella mattina? Era preoccupato? A che punto ha interrotto la comunicazione? si domandò. Quando gli ho chiesto del pollice. È stato questo a dargli la risposta? Sì, deve essere stato così. Sergio ha capito che io non sapevo di quale dito si trattasse.

Le immagini si susseguirono nel cervello di Falcón, rulli di memoria srotolarono i loro segreti. Sua madre che entrava in bagno per lavarlo, che gli insaponava la schiena. Era vestita come se dovesse andare a un ricevimento. Si era tolta gli anelli e li aveva appoggiati in una conchiglia sul bordo della vasca.

Falcón tornò al lavello della cucina. Ora capiva. Ecco perché Salgado aveva continuato a mordere resistendo ai tre pugni in faccia: l'anello gli aveva dato un appiglio. Probabilmente l'aveva trascinato oltre la nocca e, quando Sergio si era sfilato il guanto bucato, l'anello era caduto nel lavandino. O no? Era un lavello di acciaio inossidabile, cadendo l'anello avrebbe prodotto un rumore, Sergio se ne sarebbe accorto… a meno che non fosse caduto direttamente dentro il foro di scarico… Falcón vi infilò le dita e incontrò il rivestimento di gomma. Nessun rumore, l'anello sarebbe finito dritto nel sifone. Prese la torcia, ma nella cavità non si vedeva niente. Chiamò di nuovo Felipe e gli domandò del lavello, che era stato ispezionato soltanto superficialmente, ammise l'uomo della scientifica.

In un ripostiglio sotto le scale Falcón trovò una cassetta degli attrezzi mai usata e nel giro di quaranta minuti scollegò il sifone con tutto il dispositivo per triturare i rifiuti. Lo mise in macchina e tornò alla Jefatura dove Felipe e Jorge stavano ancora lavorando. Forzarono la chiusura del dispositivo e staccarono le lame del trituratore che sembravano bloccate. Tirarono fuori tutti i rifiuti di verdura mettendoli su una lastra di vetro, Jorge vi frugò con cura ed eccolo lì: un anello d'argento contorto e ammaccato.

«Deve aver cercato di estrarlo», disse Felipe, «non c'è riuscito e allora ha deciso di triturarlo, ma il dispositivo si è bloccato. A quel punto avrebbe dovuto smontare tutto, perciò se ne è andato.»

«Potete raddrizzarlo, per vedere com'è?» domandò Falcón.

Felipe si mise al lavoro e quasi immediatamente chiese a Jorge di guardare meglio tra i resti vegetali del sifone, perché nell'anello doveva essere stata incastonata una pietra, che in quel momento risultava mancante.

«Il particolare bizzarro», fece notare Felipe, «è che in origine si trattava di un anello da donna, ne sono sicuro. Guardi qui…»

Mise il gioiello sotto la lente del microscopio e mostrò a Falcón la fascetta.

«Per allargarla è stato usato argento di una qualità diversa», disse Felipe. «Si vede dove è stata tagliata per inserire il pezzo nuovo. Un lavoro ben eseguito, comunque. L'unica differenza sta nel colore dell'argento.»

«Che cosa sa sull'argento?»

Felipe scosse il capo. Jorge annunciò di aver trovato la pietra, un piccolo zaffiro. Montarono l'anello su un pezzetto di plastilina e rimisero la pietra al suo posto.

«È un anello da donna, non c'è dubbio», affermò Felipe.

«Perché un uomo dovrebbe portare un anello da donna?»

«Un'amante?» suggerì Felipe.

«Se una donna le regalasse un anello come pegno, lei lo porterebbe? Lo farebbe allargare e lo porterebbe?» domandò Falcón.

«Forse no. Penso che preferirei tenerlo così com'è», rispose Jorge.

«Credo piuttosto che si tratti dell'anello di una defunta», disse Falcón. «Questo è un cimelio di famiglia.»

«Ma non abbiamo ancora risposto alla domanda», intervenne Felipe. «Perché un uomo dovrebbe portare un anello da donna? Deve avere un significato importante.»

«Ramírez porta un anello da donna», disse Jorge. «Chiediamolo a lui.»

«Come lo sapete?»

«Non si è mai chiesto perché abbia quell'anello con tre brillantini montati in oro? Voglio dire… proprio uno come Ramírez. Così una sera che eravamo in un bar gliel'ho domandato», spiegò Jorge. «Era l'anello di sua nonna. Ramírez non ha sorelle, perciò l'ha fatto allargare. Era molto attaccato alla nonna.»

«Che cosa ci rivela questo di Sergio?»

«Che non ha sorelle», rispose Jorge e i due poliziotti della scientifica si misero a ridere.

«Conosciamo qualcuno che sia esperto di argento?» domandò Falcón.

«Ci siamo già avvalsi di un vecchio gioielliere di qui. Ora è in pensione, ma ha ancora un laboratorio in plaza del Pan. Però non so se ce lo troverà di sabato pomeriggio.»


Il laboratorio era chiuso e nessuno nei negozi vicini aveva l'indirizzo di casa o il telefono dell'orefice. Falcón provò da qualche altro gioielliere, ma erano tutti impegnati o poco competenti in materia. Allora tornò alla galleria per sentire se Ramírez avesse fatto progressi con Greta. La porta era chiusa a chiave. Gli altri negozi della via stavano chiudendo per l'intervallo.

Estrasse il sacchetto di plastica con l'anello e qualcosa gli balenò nella mente, rapido, simile al lampo dell'esca nell'acqua agli occhi di un pesce. Lo perse nell'oscurità, ricordando le parole di suo padre: erano quelle le idee importanti, quelle che venivano dal profondo e scomparivano. Rimise il sacchetto in tasca. La donna che stava chiudendo il negozio accanto alla galleria gli disse che Greta probabilmente era andata da El Cairo a mangiare qualcosa.

Ramírez e Greta, seduti a un tavolino, mangiavano tapas: calamari e peperoni rossi ripieni di nasello. Bevevano birra. Le loro ginocchia si toccavano. Falcón mostrò l'anello a Ramírez, che lo prese e lo sollevò alla luce mentre Falcón gli raccontava il ritrovamento.

«Non è tornato per il valore», disse, «argento e uno zaffiro, non è un anello tanto prezioso.»

«Dev'essere importante per lui», affermò Falcón. «Per questo mi ha telefonato stamani, aveva bisogno di sapere se lo avessimo trovato.»

«Crede che sia preoccupato all'idea che possiamo scoprire l'importanza di questo anello?»

«Chiaramente ha un passato. Basta il fatto che sia un anello da donna allargato in modo da poter essere portato da un uomo, a lasciar intendere che ha una storia.»

«Ma quale storia? E come o perché noi dovremmo comprenderla?»

«Ricorda quando mi ha telefonato per dirmi che aveva una storia da raccontare e che io non avrei potuto impedirglielo? Questo anello fa parte di quella storia e credo che noi lo abbiamo trovato troppo presto. Se riuscissimo a indovinare il passato dell'anello, sapremmo troppe cose su di lui, non so perché, ma è così.»

«Ma noi non sappiamo niente dell'anello», ribatté Ramírez, perplesso davanti all'importanza che Falcón stava attribuendo a quel piccolo elemento di prova.

«Ma lo sapremo», affermò Falcón, indietreggiando verso la porta. «Noi lo scopriremo.»

Uscì incespicando dal locale, le due facce impresse nella mente. Greta sembrava interessata, Ramírez evidentemente lo giudicava uno squilibrato.


Tornato in calle Bailén, andò dritto nello studio. Sapeva che nelle altre stanze non vi era più niente degli effetti personali appartenuti a suo padre, Encarnación aveva provveduto a tutto nelle prime settimane dopo la morte. Aprì le imposte e si mise a passeggiare avanti e indietro intorno ai tavoli ingombri al centro della stanza. Stava elaborando il ricordo di sua madre che lo lavava dopo essersi tolta gli anelli. Dov'erano finiti i suoi gioielli? Ma certo, li aveva Manuela! La chiamò sul cellulare, ma la sorella disse di non averli mai visti. Quando Mamá era morta lei era troppo piccola; in seguito aveva domandato a suo padre dove fossero, ma lui le aveva confessato di averli persi durante il trasloco da Tangeri.

«Persi?» si stupì Falcón. «Non si perdono i gioielli della propria moglie.»

«Lo sai com'era tra me e papà», disse Manuela, «era convinto che a me interessassero solo i soldi, perciò quando gli chiedevo qualcosa, mi costringeva a strisciare per averla. Ma con i gioielli della mamma non ho voluto dargli soddisfazione. A parte il fatto che non erano niente di speciale, per quanto ricordo.»

«Ma cosa ricordi?»

«Le piacevano anelli e spille, ma non i braccialetti e le collane, diceva che erano catene per rendere schiave le mogli e non si era nemmeno mai fatta forare i lobi, perciò portava solo orecchini a clip. Non le piacevano le cose costose e preferiva l'argento, perché era di carnagione scura. Credo che l'unico suo anello d'oro fosse la fede nuziale», continuò, come se si fosse aspettata la domanda. «Fratellino, come mai vuoi sapere queste cose, di sabato pomeriggio per giunta?»

«Ho bisogno di ricordare una cosa.»

«Che cosa?»

«Se lo sapessi…»

«Sto scherzando, Javier. Tu hai bisogno di calma, stai prendendo il lavoro troppo… personalmente. Devi mettere un po' di distanza tra te e il lavoro, hijo. Paco mi ha detto che ti eri scordato del pranzo di domani.»

«Vieni anche tu?»

«Sì, e porto con me Alejandro e sua sorella.»

Cercando di ricordare i particolari della dieta seguita dalla sorella di Alejandro, Falcón riagganciò. Nella stanzetta dove aveva trovato i diari frugò in tutte le casse. Non trovò nulla. Una sola cosa non aveva mai visto prima: un rotolo di cinque tele. Le srotolò e un piccolo diagramma cadde per terra tra le casse. Portò le tele nello studio, le distese, ma non le riconobbe. Non erano opera di suo padre. Strati su strati di pittura acrilica che dava un effetto di luminosità, come di un chiaro di luna offuscato da nuvole. Le arrotolò di nuovo.

Era ormai buio e Falcón si lasciò cadere sul pavimento, rendendosi conto di aver dimenticato di mangiare e di andare al funerale di Salgado. Sedette con la schiena appoggiata alla parete, le mani ciondolanti tra le ginocchia. Il suo comportamento cominciava a essere ossessivo; la massa di oggetti accumulati nello studio di suo padre gli stava ingombrando il cervello, un gomitolo impossibile da dipanare, come una lenza aggrovigliata. Telefonò ad Alicia, ma trovò la segreteria. Non lasciò nessun messaggio.

Tirò fuori un libro da uno scaffale e si accorse che rimaneva molto spazio tra i volumi e la parete. La sua ossessione riprese il sopravvento e cercò in tutti gli scaffali finché, dietro i libri d'arte, non ebbe trovato una scatola di legno che ricordava di aver visto sulla toletta di sua madre. Rammentò perfino di aver frugato con le piccole dita tra i gioielli in quello scrigno del tesoro da libro di avventure.

La scatola aveva un disegno geometrico moresco sul coperchio e sui lati. Non riuscì ad aprirla e non c'era traccia di serratura, ma, dopo aver provato e riprovato per più di un'ora, mosse un piccolo pezzetto di legno a forma di piramide e la molla scattò.

Davanti ai gioielli che le erano appartenuti, la figura di sua madre balzò davanti a lui con tale vivezza che Javier accostò la faccia allo scrigno, quasi sperando che, dopo tutti quegli anni, vi fosse ancora conservata una traccia del suo odore. Non trovò niente. Il metallo era freddo sotto le dita. Sparse i gioielli sul tavolo, gli orecchini, grappoli d'argento annerito, una spilla a forma di scimitarra con un'ametista, un grosso cubo di agata montato su una fascetta d'argento. Proprio come aveva detto Manuela, l'oro mancava. La fede era stata probabilmente sepolta con lei.

Fissò i gioielli e attese che il ricordo sacro riaffiorasse, come era stato sul punto di fare davanti alla galleria di Salgado, ma affiorò soltanto la conchiglia piena di anelli in una visione sobbalzante di se stesso nell'acqua del bagno, mentre la mano insaponata della mamma gli accarezzava il minuscolo torace.

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