XXXI

Domenica 29 aprile 2001, laboratorio di El Zurdo,

calle Parras, Siviglia


Falcón attaccò alla parete i fogli stampati mentre El Zurdo era occupato ad arrotolarsi e accendersi uno spinello. Proprio mentre aspirava il primo tiro, Javier gli batté una mano sulla spalla. El Zurdo si girò.

«Joder!» esclamò. «Chi è quella?»

«Quella?» sibilò Falcón. «Quella è mia madre.»

«Joder», ripeté El Zurdo, avvicinandosi affascinato. «È davvero un lavoro notevole.»

«Non è un lavoro notevole», disse Falcón, «è un lavoro schifoso.»

«Ehi! Io non sono coinvolto come te», ribatté El Zurdo, «io lo guardo…»

«Come un'opera d'arte?» domandò Javier incredulo.

«Tecnicamente. Voglio dire, è straordinario creare cinque pezzi a incastro, privi di significato e apparentemente senza un collegamento… non avevo nemmeno notato le linee di giuntura del puzzle, eppure, una volta messi insieme i pezzi…»

«Diventano l'espressione più abietta dell'odio di un uomo verso la moglie e la madre dei suoi figli, quale solo la mente di un mostro potrebbe produrre», affermò Javier.

I due uomini rimasero in silenzio mentre l'orrore di quell'opera riempiva la stanza. L'immagine ricostruita aveva rivelato una donna avvinghiata a due satiri che la stavano devastando, l'uno assalendola da dietro e l'altro riempiendole la bocca. Ma non era uno stupro. Nell'unico occhio visibile della donna si leggeva la partecipazione compiaciuta. Era nauseante. Javier passò davanti a El Zurdo, strappò i fogli dalla parete, li appallottolò e li scaraventò in un angolo vuoto del laboratorio.

«Che cosa mai può averlo indotto a creare una…?»

«Fatti un tiro di questo», suggerì El Zurdo.

«Non lo voglio.»

«Ti calmerà.»

«Non voglio calmarmi.»

«Senti… forse aveva scoperto che lei aveva una relazione con un altro.»

«Oh», esclamò Javier, «mentre lui era assolutamente innocente, vero? Lui non se ne andava in giro a sodomizzare ragazzini ogni volta che poteva…»

«Per le donne era diverso, a quei tempi», disse El Zurdo.

«E invece lui non era andato a uomini durante la notte di nozze, e prima che sua moglie morisse non aveva iniziato una relazione con la donna che poi avrebbe sposato.»

«Odiava le donne», affermò El Zurdo con aria sicura.

«Come? Non ho capito… che cosa?»

«Ho detto che odiava le donne.»

«Ma di che sta parlando, El Zurdo?»

«Di quello che ho detto… e non intendo quei genere di misoginia allora assolutamente normale, era un sentimento che si spingeva ben al di là di tutto ciò.»

«Si è sposato due volte, ha dipinto quattro nudi femminili tra i più sublimi che si siano mai visti e lei crede che odiasse le donne?» domandò Javier.

«Io non credo nulla», protestò El Zurdo. «Me lo ha detto lui.»

«Glielo ha detto lui? E da quando esisteva tra voi un'intimità tale da indurre mio padre a parlarle di una cosa del genere?»

«Da quando eravamo diventati amanti.»

Si creò un lungo silenzio durante il quale Javier si lasciò cadere su una poltrona malandata, accasciato, consapevole di essere lì a bocca aperta, le guance afflosciate, le braccia assolutamente prive di forza.

«Quando?» domandò alla fine a voce bassa.

«Dal 1972 per undici o dodici anni, finché non cominciò ad avere paura dell'AIDS.»

«Allora… quella volta che venni qui con lui…?»

El Zurdo annuì. Trascorsero altri minuti penosi.

«E non trova che non esista ironia più grande?» domandò Javier.

«Perché ha dipinto quei nudi? Quello era solo il suo lavoro… non voleva dire che fosse anche la sua vita.»

«Da dove scaturiva… quell'odio?» domandò Javier. «Non riesco a capire cosa abbia potuto generarlo.»

«Da sua madre.»

Il cervello di Javier cominciò a scandire il tempo come un metronomo che contasse i secondi che mancavano alla follia.

«Nei suoi diari accenna a un 'incidente'», disse. «Una cosa accaduta quand'era ragazzo e che lo aveva indotto ad andarsene di casa e a entrare nella Legione. Credo che possa averne parlato con qualcuno, con mia madre, per esempio, ma non l'ha mai scritto. A lei lo ha detto?»

«Sì, me lo ha rivelato», rispose El Zurdo. «Te ne parlerò, se vuoi. Voglio dire… certe cose, più si allontanano nel tempo, meno sembrano importanti. Solo che decidono quale direzione prenderà la nostra vita in quel momento.»

«Me lo dica.»

«Che cosa sai dei genitori di Francisco?»

«Praticamente nulla.»

«Be', avevano un albergo a Tetuán negli anni '20 e '30. Erano molto conservatori, sua madre era cattolica praticante e suo padre beveva. Quando succedeva diventava cattivo e si sfogava sui figli e sugli impiegati. Non ti serve altro per capire che cosa sia successo.

«Una mattina suo padre scoprì Francisco a letto con uno dei ragazzi della casa e perse completamente la testa. Mentre Francisco si rannicchiava in un angolo della stanza, suo padre ammazzò il ragazzo a randellate sotto i suoi occhi. Soltanto quando quella furia tremenda si fu placata l'uomo si rese conto del suo gesto. In qualche modo si liberarono del cadavere e Francisco dovette rimanere nella stanza finché non ebbe lavato ogni goccia di sangue e imbiancato le pareti.»

El Zurdo si distese sulla sedia, allargando le braccia.

«E che cosa c'entra sua madre?» si stupì Falcón. «Aveva detto che…»

«Sua madre non gli rivolse più la parola, gli fece mancare completamente l'affetto materno e si comportò come se il figlio non esistesse. Per lui non veniva nemmeno apparecchiato il posto a tavola. Per quanto la riguardava, con le sue idee meschine e bigotte, il figlio aveva commesso qualcosa che non poteva essere perdonato.»

«Glielo ha detto lui questo?»

«Molto tempo fa. Più di vent'anni, direi.»

«Quando eravate amanti?»

«Sì. Passò molto tempo prima che tornasse agli uomini dopo una cosa come quella. Soltanto a Tangeri, dopo la Seconda guerra mondiale, ricominciò a… anche se aveva avuto una passione per un altro legionario morto in Russia, Pablito… ma non era nato nulla tra loro e, naturalmente, fu una donna a tradire Pablito…»

«Parla di lui nei diari. Mio padre faceva parte del plotone di esecuzione che fucilò la donna», disse Falcón. «Aveva mirato di proposito alla bocca.»

«Sai perché la nostra relazione è durata così a lungo?» disse El Zurdo. «Perché non ho mai tentato di capirlo, non gli ho mai chiesto niente. Certe persone rifuggono dall'intimità e tuo padre era una di queste. Le donne vogliono capire, vogliono conoscere il loro uomo e, quando scoprono chi è e non ne sono contente, fanno una di queste due cose: cercano di cambiarlo oppure lo abbandonano. Sono parole di tuo padre, non mie. Io non sono mai stato con una donna, i miei gusti sono più particolari.»

Andarono a La Cubista per colazione. Javier ordinò tonno, El Zurdo scelse un piatto a base di carne di maiale e bevve vino durante il silenzio tormentato di Javier, incoraggiandolo a fare lo stesso fino all'arrivo delle portate.

«Sai per quale altro motivo io piacevo a tuo padre?» disse El Zurdo. «Questa è una cosa strana. Gli piacevo perché copiavo. Curioso, no? Ammirava il mio lavoro, gli piaceva il fatto che capovolgessi le tele, lo interpretava come una mancanza di rispetto per gli originali, anche se gli avevo detto che lo facevo solo perché non volevo essere distratto dalla completezza dell'opera, non dovendo fare altro che cercare di copiarla con la massima precisione. Sai, qualche volta pensava che le mie copie fossero, in effetti, migliori degli originali. Perciò due collezionisti americani hanno sulle pareti le mie copie firmate da lui. L'arte, mi diceva, era così. Niente è originale.»

Falcón sorseggiò il vino, prese coltello e forchetta e cominciò a mangiare.

«Quando lo ha visto l'ultima volta?» domandò poi.

«Circa cinque anni fa. Abbiamo pranzato qui, era contento, aveva risolto il suo problema di solitudine.»

«Si sentiva solo?»

«Tutto il giorno, ogni giorno. L'uomo famoso nella sua grande casa buia.»

«Aveva amici, no?»

«Mi aveva detto che non ne aveva. L'unico amico lo aveva perso nel 1975.»

«Chi era?»

«Raúl Jiménez… ho sentito che è stato assassinato di recente», rispose El Zurdo.

«E perché avevano smesso di vedersi?»

«È interessante. Io non riuscivo a capire perché mai fosse tanto furioso con lui. Mi disse che si era imbattuto in Raúl un giorno qui a Siviglia. A quanto pare vivevano nella stessa città, sulle due rive del fiume, ma non lo avevano mai saputo. Erano andati a pranzo insieme e tuo padre gli aveva chiesto notizie della famiglia e lui gli aveva detto che stavano tutti bene. Avevano parlato della fama di tuo padre e del successo del suo amico negli affari, insomma di tutte le cazzate di cui possono parlare due vecchi amici, se non che tuo padre non gli aveva chiesto come mai non avesse cercato di mettersi in contatto con lui. Voglio dire, data la celebrità di tuo padre, Raúl doveva aver saputo che viveva a Siviglia da più di dieci anni. Ma questo si spiega con quanto era successo. Alla fine del pranzo Raúl gli aveva detto una cosa del tutto inaspettata, che non aveva niente a che fare con la loro conversazione. Forse avrai letto nei diari che tuo padre aveva lasciato la Legione ed era venuto qui per fare il pittore. Aveva del denaro da parte, i risparmi della sua paga di combattente in Russia.»

«E qualcuno glieli aveva rubati», disse Falcón. «Per questa ragione mio padre finì per andare a Tangeri.»

«Giusto», confermò El Zurdo. «E proprio questo gli disse Raúl quel giorno alla fine del pranzo. Gli disse che era stato lui a rubargli quel denaro. E da quella volta non si sono più rivolti la parola.»

«Perché?»

«Tuo padre riteneva che Raúl Jiménez non avesse il diritto di modificare il corso della vita del prossimo. Ricordo la mia obiezione: se era per il meglio, che importava? Lui aveva fatto fortuna laggiù, era diventato famoso… ma non voleva ascoltarmi, girava infuriato per tutta la casa gridando: 'Mi ha rovinato! Quel cabrón mi ha rovinato!' E ti giuro, Javier, che non riesco ancora a capire di che rovina stesse parlando, visto quello che era riuscito a fare.

«Era anche infuriato perché Raúl glielo aveva detto. Non capiva assolutamente perché lo avesse fatto. Poi scoprì quello che era successo alla sua famiglia: la moglie si era suicidata, il bambino era morto, la figlia era finita in un istituto per malati di mente e il figlio maggiore aveva rotto i rapporti con lui. Un disastro totale, e allora tuo padre capì che a quel punto della sua vita l'ultima cosa che Raúl Jiménez voleva era un amico. Al contrario, voleva una nuova vita… una vita senza Francisco Falcón.»

«Prima ha detto che mio padre aveva risolto il suo problema di solitudine.»

«Mi aveva assicurato che non desiderava avere amici, ma anelava a una compagnia.»

«E Manuela?» domandò Javier. «Manuela non andava a trovarlo?»

«Sì, ma non gli era mai piaciuta molto, Manuela. Lei veniva a trovarlo qualche ora la settimana, ma non era questo che tuo padre voleva. Aveva bisogno di avere qualcuno che riempisse il vuoto della sua casa, qualcuno giovane e senza complicazioni, che guardasse avanti, che fosse sempre inesorabilmente allegro. E aveva fatto un accordo con l'università qui e a Madrid, per avere uno studente in casa per un mese alla volta. Per lui aveva funzionato. Io non lo avrei sopportato.»

«Non mi ha mai detto che si sentiva così solo.»

«Forse con te non voleva ammetterlo», disse El Zurdo. «Forse non voleva modificare il corso della tua vita.»


Era quasi buio quando Javier tornò a casa compiendo una lunga deviazione. Entrando, inciampò in due pacchetti sul pavimento; entrambi erano stati spinti dentro l'apertura dove il postino infilava le lettere e nessuno dei due aveva l'indirizzo, ma solo i numeri 1 e 2 scritti sull'involucro.

Li portò nel suo studio, dove teneva un paio di guanti di lattice, aprì il primo pacchetto e tirò fuori una busta sulla quale era scritto: «Lezione di vista n. 4». All'interno il cartoncino recava le parole: «La muerte trágica del genio».

Nel pacchetto c'era qualcosa d'altro, qualcosa di più pesante. Falcón distese un foglio di carta sulla scrivania e vi depose ciò che, a prima vista, gli era sembrato un pezzo di vetro ma che risultò essere la scheggia di uno specchio. La girò con la punta di una biro. Scritte con una sostanza che pareva sangue disseccato si leggevano le iniziali P.L.

Falcón si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Sapeva che cosa stava facendo Sergio. Sergio si stava impossessando del mito elaborato dai media, dicendogli che aveva usato la scheggia di specchio per distrarre Pepe nel momento in cui stava per uccidere il toro. Javier non lo credeva, non era possibile; ma la cosa lo interessava, perché aveva capito che finalmente aveva forzato la mano a Sergio. C'era disperazione in quello stratagemma arrogante e poco sottile.

Batté il dito sul cartoncino dove era scritta la lezione di vista. L'allusione al genio gli ricordò le parole che sua madre aveva usato quando Manuela le aveva chiesto che cosa contenesse l'urna di argilla. Tracce di ricordi premettero contro la membrana della sua coscienza, ma nulla filtrò. Spinse via il cartoncino e aprì il secondo pacchetto, che conteneva una serie di fotocopie. Dalla grafia capì che si trattava dei diari di suo padre.


7 luglio 1962, Tangeri

Ho quasi perso ogni traccia di Salgado da quando siamo tornati da N. Y., ma proprio mentre quel pensiero galleggia sulla calma piatta del mio orizzonte, arriva un ragazzo con un suo biglietto scritto sulla carta dell'hotel Rembrandt: mi prega di andare subito da lui nella camera 321, da solo. Il biglietto non mi sorprende gran che, non abbiamo il telefono qui. Soltanto mentre percorro il boulevard Pasteur comincio a essere inquieto. Che cosa può essere successo di tanto importante da fargli pensare di potermi disturbare nelle mie ore di lavoro? Sono perplesso e turbato. L'ascensore dell'hotel Rembrandt, pur avendo solo pochi anni, è uno di quegli arnesi sobbalzanti che ti fanno temere che il cavo si spezzi da un momento all'altro. Arrivo alla porta della camera 321 in preda a cupi presagi. Tra la porta principale e quella della stanza c'è un breve corridoio, una di quelle strutture moderne che lasciano perplessi, ma che sembrano fatte apposta per questo genere di occasioni. Significa che Salgado può tirarmi dentro e spiegarmi la gravità della situazione senza l'impatto immediato con l'orrore della cosa.

Versione breve: c'è un ragazzo morto nella stanza.

Salgado mi dice che è morto accidentalmente.

«Accidentalmente?» ripeto.

«È caduto e ha battuto la testa. Deve averla battuta in un punto brutto, ma comunque è certamente morto.»

«Come ha fatto a cadere?»

«È inciampato mentre andava in bagno… ma io l'ho rimesso sul letto.»

«Allora perché non chiamiamo la polizia e non spieghiamo come sono andate le cose?»

Silenzio da parte di Salgado.

«Vuoi che gli dia un'occhiata?» domando, ma non aspetto la risposta ed entro nella camera dove vedo un ragazzo nudo in un viluppo di lenzuola, un braccio penzoloni, la lingua che sporge dalla bocca e gli occhi fuori dalle orbite. Ci sono escoriazioni sulla gola.

«Non credo che abbia battuto la testa. Non è vero, Ramón?»

«È stata una disgrazia.»

«Non capisco come tu abbia fatto a strangolare qualcuno accidentalmente, Ramón.»

«Stavo cercando di fargli riprendere conoscenza.»

Ci guardiamo e Ramón all'improvviso si gira e comincia a battere la testa contro il muro, intonando qualcosa che a me sembra in lingua basca. Lo faccio sedere e gli chiedo di dirmi che cosa sia successo, ma lui si preme i pugni sulle tempie e continua a ripetere che è stata una disgrazia. Gli dico che chiamerò il capo della polizia e che potrà raccontare a lui quello che ha raccontato a me, con il ragazzo sul letto, sodomizzato e strangolato. Si alza e comincia a camminare avanti e indietro a grandi passi, gesticolando e declamando chissà che in quella lingua strana. Gli do uno schiaffo e lui si trasforma in una creatura patetica accovacciata sul pavimento, piangente, le spalle da uccello scosse dai singhiozzi. Un altro ceffone lo fa girare verso di me.

«Dimmi che cosa è successo», gli ordino. «Non sono il tuo giudice.»

«L'ho ammazzato», dice.

«Eri innamorato di lui?»

«No, no, no que no!» esclama con enfasi. Con troppa enfasi.

Lo fisso e leggo sulla sua faccia la corruzione, una depravazione così terribile che non riesce ad ammetterla nemmeno con se stesso. Ora so che Ramón Salgado ha ucciso unicamente a causa di ciò che quel ragazzo stava facendo a lui. Salgado è vanesio, con le donne è un grande adulatore, M. e lui si adorano, ha relazioni che non durano mai, è ormai ricco, famoso nel suo piccolo mondo e stimato, ma… gli piace sodomizzare i fanciulli e questo incrina l'immagine aulica che ha di se stesso. Perlomeno così la vedo io. Ha ucciso il ragazzo perché lo costringeva a vedere di sé una cosa per lui odiosa.

Pronuncia le fatali parole: «Non potevo affrontare uno scandalo».

Non lo disprezzo, nemmeno per questo. Chi sono io per poter disprezzare qualcuno? Mi siedo ai piedi del ragazzo e accendo una sigaretta a Salgado.

«Mi aiuterai?» mi domanda.

Gli racconto una storia che ho sentito da un amico di B.H. negli anni '40, su un ricco invertito che aveva rimorchiato un gruppetto di militari in un noto bar per omosessuali di Manhattan e li aveva portati a una festa in casa di sua madre sulla Quinta Strada. Erano tutti ubriachi e uno dei soldati aveva perso i sensi. Allora gli avevano sfilato i pantaloni, per scherzo avevano cominciato a radergli i peli del pube e accidentalmente, sottolineo accidentalmente, gli avevano mozzato il pene. Che cosa fanno a questo punto? (Salgado mi guarda come Javier quando gli racconto una storia prima di dormire, rannicchiato e con gli occhi sgranati.) Lo avvolgono in una coperta e lo scaricano su non so quale ponte. Il soldato era stato fortunato, perché lo aveva trovato un poliziotto che lo aveva trasportato all'ospedale prima che morisse dissanguato.

«Che cosa ne concludi, Ramón?» domando.

Batte le palpebre, disperato all'idea di dare la risposta sbagliata ed essere mandato fuori dall'aula.

«Se mi aiuterai, Francisco», dice, «non farò mai più una cosa del genere.»

«Che cosa? Uccidere qualcuno?»

«No, no, voglio dire… non andrò mai più con i ragazzi, condurrò una vita esemplare'.»

«Ti aiuterò», gli dico, «ma voglio sapere che cosa ne pensi della mia storia.»

Altro silenzio. È troppo spaventato per pensare.

«Avevano anche pagato il soldato perché non parlasse», aggiungo. «Quanto credi che lo avessero pagato?»

Scuote la testa.

«Duecentomila dollari e si tratta del 1946», dico. «A quel tempo si guadagnava molto di più perdendo il piffero che dipingendo quadri.»

Salgado si precipita in bagno a vomitare. Torna, asciugandosi la bocca.

«Non so come tu possa rimanere così freddo, Francisco.»

«Ho ucciso migliaia di persone, tutte quante non più colpevoli o innocenti di noi due.»

«Ma è stato in guerra1.» obietta lui.

«Sto solo spiegando che quando si sono visti i massacri ai quali ho assistito io, un ragazzo morto in una camera d'albergo non è una cosa tanto terribile. Su, ora dimmi che cosa ne pensi della mia storia.»

«È stata un'azione orribile», dice, aspirando il fumo della sigaretta.

«Peggiore di uccidere un ragazzo?»

«Avrebbe potuto morire, per quel che interessava a loro.»

«Giusto. E che cosa ti dice sulla gente che tu sei così ansioso di impressionare favorevolmente?» domando. «Il colpevole è ancora a piede libero, a proposito, e ancora amico di Barbara Hutton.»

Ramón è troppo stravolto per arrivarci da solo.

«Noi siamo i loro cagnolini ammaestrati», spiego, «siamo i loro giocattoli, sì, anch'io lo sono, Ramón. Ci accarezzano, ci danno qualche bocconcino, si divertono con noi, poi si stancano e ci buttano via. Noi non siamo niente per quella gente, assolutamente niente. Meno di giocattoli. Perciò, quando sorseggerai il loro champagne, ricordati che è per l'alta opinione di questi personaggi senza nessun valore che tu hai ucciso quel ragazzo.»

Le mie parole gli sfondano il petto come proiettili di grosso calibro. Si abbatte sulla sedia.

«Per loro?» domanda stupefatto.

«Hai ucciso il ragazzo perché non ti piaceva l'idea che quella gente sapesse di questo lato di te, l'hai ammazzato perché questa è l'unica cosa di te che trovi odiosa e credi che anche gli altri la giudichino così. E hai sbagliato completamente.»

Singhiozza. Io gli batto la mano sulla spalla.

«Francisco», dice, «dove sarei senza di te?»

«In un posto molto più piacevole», rispondo.

Non è stato difficile liberarsi del cadavere. Alle tre del mattino lo abbiamo trasportato nel giardino dell'albergo e sollevato al di là del muro. Lo abbiamo messo sulla macchina, lo abbiamo portato alla scogliera fuori città e lo abbiamo buttato in mare. Mentre tornavamo in città Ramón guardava fuori dal finestrino, incapace di pronunciare una parola, un uomo che doveva venire a patti con una realtà totalmente diversa, una realtà nella quale, a causa di un momento di cecità, niente sarebbe stato lo stesso mai più. Se si è costretti a uccidere. Se non c'è più niente da fare. Allora bisogna uccidere tenendo gli occhi ben aperti.


Falcón lasciò che i fogli fotocopiati gli cadessero dal grembo e si sparpagliassero sul pavimento. Era ipnotizzato dai suoi pensieri, dalla conferma del fatto che l'assassino avesse avuto accesso ai diari di suo padre; e ora, con le informazioni avute da El Zurdo, Falcón sapeva che doveva trattarsi di uno degli studenti d'arte che suo padre aveva ospitato in casa per sentirsi meno solo.

La Facultad de Bellas Artes era certamente chiusa, El Zurdo irraggiungibile. Sfogliò la rubrica di suo padre e trovò il nome di una persona dell'università con il numero di telefono di casa. Provò a chiamare, ma non ottenne risposta.

I suoi pensieri si rivolsero a Raúl Jiménez e alla rivelazione che aveva provocato la rottura con Francisco Falcón. Gli sembrava improbabile che suo padre non ne avesse fatto parola nei diari, poi si rese conto che era avvenuta in una data successiva a quella delle righe finali, nelle quali annunciava di essere ormai definitivamente annoiato.

Javier scostò bruscamente la sedia e corse al piano superiore, rallentando poi il passo quando fu nella galleria fino a fermarsi davanti allo studio di suo padre, lo sguardo fisso nella pupilla nera della fontana nel patio. Un'idea apparentemente priva di collegamento gli aveva attraversato la mente. Uno degli elementi insolubili del caso era ciò che Sergio aveva costretto Raúl Jiménez a vedere. Dove aveva preso quelle immagini? Gli scheletri nell'armadio di Salgado erano stati abbastanza facili da scoprire per gli investigatori, avevano trovato il baule nella mansarda e i film, ma con Raúl Jiménez non erano arrivati mai a niente; nonostante le interminabili ricerche alle Mudanzas Triana, non si era trovata nessuna prova che il materiale là conservato da tempo fosse stato manomesso.

Si staccò dalla parete della galleria ed entrò nello studio del padre. L'ultimo diario era nel ripostiglio. E là, una decina di pagine dopo quella che aveva creduto essere l'ultima, lesse:


13 maggio 1973, Siviglia

Sono così inferocito che ho dovuto ritornare a questo confessionale nella speranza di ritrovare un po' di calma.


La storia che Falcón aveva sentito da El Zurdo terminava così:


Non riesco a capire perché abbia voluto dirmelo ora ed esco ruggendo dal ristorante. Mi grida dietro: «Se non fosse per me, a quest'ora staresti dipingendo infissi a Triana!» È stato un insulto colossale e calcolato per il quale riceverà una punizione appropriata.


17 maggio 1975, Siviglia

Un poscritto al mio ultimo sfogo. Ho scoperto che il mio vecchio amico R. è già stato punito. Sembra che il figlio più piccolo sia morto ad Almería, che sua moglie si sia suicidata gettandosi nel Guadalquivir qui a Siviglia, che sua figlia, Marta, sia finita in un istituto per malati di mente a Ciempozuelos e che il figlio maggiore viva a Madrid e non voglia più avere rapporti con lui. Dopo queste tragedie, qualsiasi cosa io avessi in mente sembra nulla. Ora credo che l'abbia detto solo per liberarsi di me. Io ero per lui soltanto un altro reperto di quell'era sciagurata.


Falcón sfogliò le pagine vuote fino alla fine, poi tornò a ciò che aveva appena letto e lo rilesse. La parola «Ciempozuelos» lo colpì. Da quelle righe Sergio aveva forse saputo tutto, tutta la tragedia familiare, e gli si era presentata un'occasione: Marta a Ciempozuelos. Ma Marta non parlava o quasi. Falcón ricostruì mentalmente la sua visita laggiù. Il dottore che medicava la ferita di Marta. Ahmed che la riportava nella corsia, Marta che vomitava dopo il trauma della caduta. Ahmed che andava a prendere il carrello per pulirla. E a un tratto lo vide, con la chiarezza di un'idea creativa: il piccolo baule sotto il letto di Marta.

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