XXII

Giovedì 19 aprile 2001, Edificio de los Juzgados, Siviglia


Falcón camminava nervosamente davanti all'ufficio di Calderón. Gli aveva telefonato dopo il suo incontro con Consuelo Jiménez e si erano accordati per vedersi alle sei. Erano già le sette e le segretarie che andavano avanti e indietro avevano ormai rinunciato alle occhiate di comprensione. Era contento di non dover fare anticamera davanti all'ufficio di un fiscal ai piani superiori del Palacio de Justicia nell'edificio adiacente, dove sarebbe stato tormentato da tutti quelli che lo avevano conosciuto tramite Inés. Lo avrebbero riportato con il pensiero a quelle sere invernali, quando la veniva a prendere e si trovava al centro di quel mondo movimentato, dove la sua bellezza l'aveva resa celebre e lui con lei. Era il suo amante. Il prescelto. Gli altri lo guardavano con occhi curiosi e ampi sorrisi, desiderando conoscere il suo segreto. Che cosa aveva mai Javier Falcón? Ma forse aveva immaginato tutto quanto? Il modo in cui le donne annusavano l'aria mentre passava, il modo in cui gli uomini gli lanciavano occhiate al di sopra dei bassi divisori degli orinatoi…

Passeggiando su e giù davanti all'ufficio di Calderón fu all'improvviso colpito dall'idea che, in fondo, si era trattato solo di sesso. Era stato travolto non soltanto dal suo desiderio, ma anche da quello di tutti gli altri. Aveva frainteso, come aveva frainteso Inés, avevano creduto che fosse una cosa vera, ma non lo era: una passeggera attrazione fisica era stata dirottata altrove dal bisogno generale di lieto fine romantico e ciò che avrebbe dovuto essere qualche mese di sesso scatenato era stato trasformato in un matrimonio riparatore, solo che a volerlo non era stato il padre armato di fucile: era stato il sentimento.

Il dottor Spinola, il Magistrado Juez Decano de Sevilla, uscì dall'ufficio di Calderón. Si fermò per stringere la mano a Falcón e parve sul punto di rivolgergli qualche domanda inopportuna. Ma cambiò idea. Calderón invitò l'Inspector Jefe a entrare, scusandosi per averlo fatto aspettare.

«Non è facile liberarsi del dottor Spinola», disse Falcón.

Calderón non lo stava ascoltando. Frugava nella sua scatola cranica in cerca di qualcosa e nel frattempo tendeva una mano verso una sigaretta, l'accendeva e inspirava profondamente.

«È la prima volta in assoluto che viene in uno dei nostri uffici per discutere di un caso specifico», disse infine alla parete al di sopra della testa di Falcón. «Normalmente sono io ad andare da lui per fargli un resoconto generale.»

«Che cosa lo preoccupa tanto?»

«Bella domanda», convenne Calderón. «Non lo so, sono confuso.»

«Se ha a che vedere con il nostro caso, allora forse posso aiutarla», suggerì Falcón.

In una frazione di secondo Calderón valutò la situazione. Riducendo il problema a una questione di istinto, guardò l'ispettore capo, pensando: posso fidarmi di quest'uomo? Decise di no, ma di stretta misura. Se avessero potuto condividere qualche altro momento come quello nel cimitero, si disse Falcón, Calderón si sarebbe confidato con lui.

«Che cos'ha per me, Inspector Jefe? Senza Ramírez, oggi?»

Falcón non aveva portato con sé Ramírez perché desiderava instaurare un rapporto personale con Calderón e al tempo stesso impedire l'accesso dell'ispettore alle informazioni, escluderlo dal quadro più vasto, per confinarlo nelle parti secondarie del rompicapo. Ora aveva di nuovo cambiato idea. L'incontro con il dottor Spinola gli suggeriva di procedere con cautela. Forse non era poi un'idea così buona lasciar circolare nei corridoi dell'Edificio de los Juzgados il nome di Carvajal. Il suo non era un ragionamento logico, si fondava solo sul tenue legame costituito dalla presenza di Spinola nelle foto delle celebrità di Jiménez insieme con León e Bellido e dal fatto che Carvajal fosse stato sul libro paga della MCA Consultores. Lasciar trapelare la notizia con Consuelo Jiménez era stato un rischio calcolato. In primo luogo aveva voluto vedere se lei ne fosse a conoscenza, cosa che non era riuscito ad accertare, e in secondo luogo era certo che la signora Jiménez lo avrebbe visto solo come un modo per allentare la pressione su di sé. Se Falcón avesse reso la notizia ufficiale tramite il Juez Calderón, forse vi sarebbero state ripercussioni imprevedibili, forse sarebbe arrivato tutto quanto sulla scrivania del Comisario León. L'unico problema era che adesso non aveva più niente da dire a Calderón, perché di quell'unica cosa che avrebbe dovuto riferirgli non voleva parlare.

«Lei aveva avuto un'idea prima che fossimo interrotti dal messaggio di Sergio», disse.

«Sergio?»

«Il nome che abbiamo dato all'assassino. Era quello che usava con Eloisa Gómez», spiegò Falcón. «Se ben ricorda, avremmo dovuto metterci in contatto con lui, fargli notare i suoi errori per irritarlo e indurlo a commettere altri errori più fatali.»

«Ha lasciato quel cellulare sul cadavere», disse Calderón.

«Però ha ancora quello di Raúl Jiménez.»

«Abbiamo saputo qualche altra cosa su Sergio, da quando ha preso questo nome?»

«Eloisa Gómez e sua sorella parlavano tra loro di lui come di un tipo fuori degli schemi, un forastero.»

«Uno straniero?»

«Forastero per loro stava a indicare un modo di essere, una persona che vedeva e comprendeva al di là dei limiti della vita normale, che sapeva come funzionavano veramente le cose, che sapeva leggere tra le righe senza esitazione.»

«Tutto piuttosto enigmatico, Inspector Jefe.»

«Non ai margini della società, dove la gente si è allontanata dalla vita normale, dove, per esempio, ogni giorno si vende il proprio corpo per il sesso o si spara a qualcuno perché non paga. All'altro capo della scala non è poi così diverso. Chi ha il potere, chi sa come avere di più e come mantenere la propria posizione, non vede la realtà come la gente normale, la gente che deve pensare al lavoro, ai figli e alla casa.»

«E crede che un artista, così lei ha definito l'assassino al cimitero, avrebbe questo stesso modo insolito di ragionare?» domandò Calderón.

«Si adatta al profilo del nostro uomo», disse Falcón. «Anche lei ha pronunciato la parola 'straniero'. Eloisa Gómez ha detto a sua sorella che Sergio, pur spagnolo in apparenza, aveva qualcosa dello straniero. Forse aveva sangue straniero nelle vene o era stato lontano dalle sue radici spagnole per lungo tempo.»

«In che modo questo potrebbe modificare il nostro approccio?»

«Credo che fargli notare i suoi errori sia un sistema troppo ovvio, lo troverebbe risibile. I forasteros lo capiscono quando sono manipolati.»

«Forse dovremmo fargli vedere che noi capiamo lui.»

«Ma come artista», insistette Falcón. «Non dobbiamo essere prosaici, dobbiamo incuriosirlo come lui incuriosisce noi. Non abbiamo ancora capito che cosa volesse dire con l'ultima 'lezione di vista'. Perché 'devono morire coloro che amano l'amore'?»

«Non ci stava solo dicendo che l'aveva ammazzata perché lo aveva visto? Il dono della vista perfetta?»

«Ma 'coloro che amano l'amore'? Ce la sta presentando come un emblema e per questo emblema ha scelto una prostituta. Cerca di modificare il modo in cui vediamo la realtà e noi dobbiamo fare la stessa cosa, dobbiamo tentare di fargli vedere qualcosa come se fosse la prima volta.»

«Questo significa che ci basta avere un genio tra noi», osservò Calderón. «Non dovrebbe essere difficile, sembra che questo edificio ne sia pieno, stando a quello che mi viene detto.»

«Prendiamo a prestito il genio dai classici», suggerì Falcón. «Lui è un poeta e un artista… questo è il suo linguaggio.»

«'Los buenos pintores imitan la naturaleza, pero los malos la vomitan.' I bravi pittori imitano la natura, i cattivi la vomitano. Cervantes.»

«Anche in questo modo potremmo irritarlo», disse Falcón.

«Ma che cosa vogliamo ottenere con una simile strategia?» domandò Calderón. «Che cosa vogliamo da lui?»

«Stiamo cercando di coinvolgerlo, di iniziare un dialogo, di indurlo a parlare. Vogliamo che cominci a fornirci qualche informazione.»

Falcón, perdendosi d'animo all'ultimo momento, digitò la frase di Cervantes sul suo cellulare e la inviò come messaggio, poi i due uomini rimasero lì seduti, sentendosi stupidi, il loro mondo investigativo ridotto all'assurdità di spedire frasi di Cervantes nell'etere.

Tornati alle loro risorse, non avevano però un punto di contatto, a parte il riconoscimento dell'intelligenza reciproca. Falcón non avrebbe parlato di calcio e Calderón non lo avrebbe costretto a farlo.

«L'altra sera ho visto un film in cassetta», disse Calderón. «Tutto su mia madre. L'ha visto? È un film di Almodóvar.»

«Non ancora», rispose Falcón e accadde una cosa strana, la sua memoria si spalancò per un attimo e per un secondo fu di nuovo a Tangeri: sguazzava nell'acqua bassa e poi strillava beato, sollevato in aria.

«Sa che cosa mi ha colpito di quel film?» riprese Calderón. «Nei primissimi minuti il regista crea questo rapporto incredibilmente intimo tra la madre e il figlio. Poco dopo il ragazzo viene ucciso. E… non ho mai avuto un'esperienza simile; quando il figlio muore è come se fossimo la madre, si è certi di non potersi mai più riprendere da quella perdita terribile. A mio parere questo è genio. Cambiare un mondo in pochi metri di celluloide.»

Falcón avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto reagire positivamente, perché, una volta tanto, non era semplicemente un parlare del più e del meno, c'era qualcosa di profondo, ma era troppo grosso, non riuscì a tirarlo fuori, a esprimerlo se non con le lacrime che gli riempirono gli occhi e che scacciò subito. Calderón, inconsapevole della lotta interiore di Falcón, scuoteva la testa stupito.

«È arrivato qualcosa», disse il magistrato, prendendo il cellulare.

Lesse le parole sul piccolo schermo. L'espressione accigliata si trasformò in una di sofferenza.

«Parla francese?» domandò, allungando il telefonino a Falcón. «Voglio dire, è semplice, ma… stranissimo.»


Aujourd'hui, maman est morte.

Ou peut-être hier, je ne sais pas.


Falcón si sentì quasi male, in preda a una forte nausea.

«L'ho capito», disse Calderón, «ma che significa?»

«'Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so'» tradusse Falcón. «E c'è di più: 'Non metterti più in contatto con me, cabrón, racconterò la storia'.»

«Ci ha risposto per le rime», ammise Calderón. «Ma che cosa ha voluto dire?»

«Non ha saputo resistere», spiegò Falcón. «Doveva dimostrarci di saper fare meglio di noi.»

«Ma in che modo?»

«Credo che abbia studiato il francese», disse Falcón.

«Quello viene da un testo letterario?»

«Non so, non posso esserne certo, ma se dovessi tirare a indovinare direi che è tratto dallo Straniero di Albert Camus.»


L'Edificio de los Juzgados era quasi vuoto a quell'ora della sera e i passi di Falcón rimbombarono attraverso le sue cavità mentre percorreva il lungo corridoio fino alle scale. Fu costretto ad aggrapparsi al corrimano per scendere le rampe, fermandosi sul pianerottolo per controllare il tremito delle gambe. Stava cercando di persuadersi che si trattava di una coincidenza, che non esisteva nessuna bizzarra telepatia tra lui e Sergio. La vita era piena di questi strani momenti, esisteva una parola precisa a questo proposito: sincronia. Non era una brutta cosa, agli esseri umani piaceva che le cose fossero sincronizzate. Ma questo no, non la discussione a proposito degli «stranieri», non Calderón che parlava di quel film dal titolo innominabile e Sergio che li atterrava con quella terribile citazione, una frase che lo scollegava dal mondo normale dei rapporti umani, dal profondo legame figlio-madre. Erano le parole dell'individuo più solo del pianeta ed erano penetrate in Falcón come una sega elettrica.

Quando i suoi riflessi si furono normalizzati si avviò all'uscita, al dispositivo di sicurezza. Dall'altra parte, Inés stava facendo passare la borsetta e la cartella attraverso la macchina. Era l'ultima persona che Falcón avrebbe voluto vedere e, mentre formulava tale pensiero, tutto quanto gli si precipitò addosso, la bellezza di lei, il sesso, la sua nostalgia, il loro fallimento. Inés aspettò di riprendere borsa e cartella, guardandolo dritto in faccia, quasi con ironia.

«Hola, Inés», salutò Falcón.

«Hola, Javier.»

L'odio nei suoi confronti era palese. Era condannato al ruolo dell'«individuo imperdonabile» e questo non riusciva a comprenderlo, perché non avvertiva in sé nessuna traccia di rancore. Avevano sbagliato, lo avevano riconosciuto, si erano lasciati. Ma lei lo detestava. L'addetto alla sicurezza le restituì le sue cose e Inés lo abbagliò con un sorriso. Le labbra tornarono una rossa linea dura per Javier. Falcón avrebbe voluto saper improvvisare qualcosa, una battuta che rasserenasse l'atmosfera all'istante, come accadeva nei film. Ma non ebbe nessuna ispirazione, non c'era niente da dire, il loro rapporto era ormai al di là perfino dell'amicizia. Lei lo disprezzava troppo.

Inés si allontanò, le spalle strette, la vita sottile, i fianchi sinuosi, il passo sicuro, i tacchi che scandivano la distanza.

L'uomo della sicurezza si morse un labbro, seguendola con lo sguardo, e Falcón comprese a un tratto perché Inés lo odiasse tanto. Lo odiava perché aveva distrutto la perfezione della sua vita. La bellissima e brillante studentessa di giurisprudenza che era diventata un pubblico ministero eccezionalmente giovane, adorata dagli uomini e dalle donne ovunque andasse, si era innamorata di lui, di Javier Falcón. E lui l'aveva rifiutata, non era riuscito a ricambiare il suo amore, aveva sciupato la sua perfezione. Per questa ragione pensava che Javier non avesse un cuore, perché era l'unica spiegazione possibile del suo fallimento.

All'esterno dell'edificio Falcón prese posizione accanto a uno dei pilastri del palazzo adiacente, un punto di osservazione che gli permetteva di vedere il portone principale dell'Edificio de los Juzgados. Qualche minuto dopo Inés ricomparve, seguita a breve distanza da Esteban Calderón. Lo attese, lo baciò sulla bocca, lo prese sottobraccio e si diressero lungo il colonnato verso la calle Menéndez Pelayo.

Si erano baciati davvero? Si trattava di un effetto della luce?

Il suo potere di dissuasione lo abbandonò. Era stato tutto troppo chiaro. E tra ombre oblique delle colonne neoclassiche Falcón si imbatté in un'altra anomalia della logica, nel difetto dell'impianto umano che poteva mandare in cortocircuito il più limpido dei pensieri. Non l'amava. Non provava nessun rancore verso di lei. Era impossibile riparare il loro rapporto. Allora perché sentiva il sangue, gli organi interni, i nervi, i tendini consumati da una gelosia mostruosa?

Tornato di corsa alla macchina, guidò fino alla Jefatura, stringendo il volante con una forza tale che ebbe qualche difficoltà a distendere le dita per scrivere il rapporto. Cercò di leggere quelli degli altri. Non riuscì, la sua concentrazione svolazzante tra il naufragio delle indagini e l'inesplicabile certezza delle insuperabili doti erotiche di Calderón.


Una porzione di tempo scomparsa. Una porzione di spazio perduta. Un attimo prima stava faticando con quei rapporti e un attimo dopo era seduto accanto ad Alicia Aguado, sul polso le sue dita leggere come piume.

«È turbato.»

«Ho avuto da fare.»

«Per lavoro?»

La risata uscì da lui come uno schizzo di vomito. Una manciata di secondi ed era già un riso isterico così irresistibile che non era più qualcosa che proveniva da lui, era lui. La donna lo lasciò andare e Falcón si gettò sul divano, piegato in due. L'accesso passò, Javier si asciugò gli occhi, si scusò e tornò a sedere accanto a lei.

«'Ho avuto da fare'… è un modo talmente assurdo, talmente riduttivo per descrivere la mia giornata», disse. «Non sapevo che la vita di un pazzo fosse tanto piena. Concentro un'intera esistenza in ogni minuscolo spazio che riesco a trovare, nessuno può dirmi qualcosa senza che un mondo intero risalga alla superficie. Mentre sono con un magistrato nel suo ufficio, mentre lui mi parla del suo punto preferito di un film, io corro su una spiaggia, sciaguattando tra le onde, vengo lanciato in aria e strillo.»

«Lanciato da sua madre?»

Falcón esitò.

«Be', questo è strano», disse.

Silenzio.

«Ho rivisto la scena con la chiarezza di un sogno», riprese Falcón. «Ora mi accorgo che mancava qualcosa, ma mi è tornata alla mente. Chi mi lanciava in aria era un uomo.»

«Suo padre?»

«No, no, uno sconosciuto.»

«Non l'aveva mai visto prima?»

«È un marocchino. Credo che sia un amico di mia madre.»

«Una cosa insolita?»

«No, no. I marocchini sono socievoli, amano chiacchierare, sono molto curiosi, fanno domande. Hanno una straordinaria facilità di…»

«Intendevo dire insolito per sua madre, una donna sposata, incontrare un uomo sulla spiaggia. Lasciare che il suo bambino fosse lanciato in aria da quell'uomo.»

«Non sono sicuro che fosse proprio uno sconosciuto. No. L'avevo già visto. Probabilmente il proprietario di un negozio dove mia madre andava a fare spese, qualcosa del genere.»

«Che cosa è successo nell'ufficio del magistrato?»

Le raccontò l'incontro, il tentativo di dialogo con Sergio, il film di Almodóvar, la terribile risposta di Sergio e la reazione che aveva scatenato in lui.

«Mi ha sconvolto il fatto che avessimo appena parlato di stranieri ed ecco che l'assassino usa una frase di quel libro, perché era Lo straniero, ne sono sicuro. Mi fa sentire come se stessi diventando pazzo.»

«Non ci pensi», lo rassicurò Alicia. «Sincronia, succede in continuazione. Si concentri sui risultati.»

«E cioè?»

Silenzio da parte di Alicia Aguado.

«Mia madre», disse Falcón. «Questo è un risultato.»

«Perché quella frase del romanzo di Camus ha avuto questo effetto terribile su di lei?»

«Non so.»

«Come è morta sua madre? Era malata?»

«No, no, non era malata. Ha avuto un attacco di cuore, ma…»

Un silenzio prolungato durante il quale Falcón batté le palpebre una volta ogni minuto.

«C'era qualcosa… un trambusto di non so che specie nella strada. Noi eravamo in casa, Paco, Manuela e io. E in strada, davanti alla nostra porta, c'era quel baccano, non ricordo perché. Dopo, però, mio padre venne a comunicarci che la mamma era morta. Ma non riesco a ricordare… quello che era successo.»

«Che accadde dopo la sua morte?»

«Ci fu il funerale. Ricordo soltanto le gambe della gente e la tristezza generale di quel giorno. Era febbraio e pioveva. Mio padre passò moltissimo tempo con noi, ci accudì durante tutto quel periodo.»

«Non rivide più lo sconosciuto della spiaggia?»

«Mai più.»

«Dopo quanto tempo si risposò suo padre?»

«Conoscevamo già Mercedes, era un'amica di famiglia. Aiutava molto mio padre, vendeva le sue opere negli Stati Uniti. Avevano una relazione prima della morte di mia madre… glielo avevo detto? L'ho scoperto da poco.»

«Vada avanti.»

«Mercedes era ancora sposata quando la mamma morì e in seguito morì anche suo marito, in America, di cancro, credo. Tornò a Tangeri sullo yacht del marito, e sposò mio padre un anno dopo la morte della mamma, mi sembra.»

«A lei piaceva Mercedes?»

«Le ho voluto bene immediatamente. Ho un vago ricordo del giorno in cui la vidi per la prima volta. Ero piccolissimo. Entrò nello studio di mio padre e mi prese in braccio. Credo di aver giocato con i suoi orecchini. Sì, le ho voluto bene fin da quel momento, ma è anche vero che secondo mio padre io ero un bambino molto affettuoso.»

«Come andò con Mercedes?»

«Fu un periodo molto bello, mio padre aveva successo, tutti parlavano dei nudi Falcón nel mondo dell'arte, lo indicavano come il nuovo Picasso, il che era assurdo, date le dimensioni e la qualità della sua opera. Poi, la tragedia. Fu dopo una cena di capodanno, andarono tutti al porto per vedere i fuochi d'artificio e alcuni di loro uscirono in barca di notte, il mare si ingrossò e Mercedes cadde fuori bordo. Il corpo non fu mai ritrovato.

«Ma… ma appena prima che tutto il gruppo uscisse, io scivolai fuori dalla mia camera e Mercedes mi vide», continuò Falcón, rivedendo il film attraverso la porta della sua mente. «Mi riportò a letto. Mi sono ricordato di questo l'altro giorno perché… ecco, sì, tutto torna. Nella mia indagine sul primo omicidio, la vittima, Raúl Jiménez, fumava quella marca di sigarette, le Celtas, e lei aveva quell'odore nei capelli. Ho scoperto solo recentemente che mio padre conosceva Raúl Jiménez fino dagli anni '40 e ora mi rendo conto che Jiménez doveva essere stato presente a quella festa… se non fosse per il fatto che a quell'epoca aveva già lasciato Tangeri.»

«Sono sicura che erano in molti a fumare quelle sigarette, allora.»

«Sì, certo», convenne Falcón. «Insomma, Mercedes mi rimise a letto, mi baciò e mi abbracciò forte. Mi strizzò dentro il suo affetto con tale veemenza che quasi non riuscivo a respirare. Aveva un profumo… ora so che era Chanel N° 5. Le donne non lo usano molto oggi, ma anni fa, quando lo sentivo per strada, subito ritornavo a quel momento. Nella stretta dell'amore.»

«E dopo che Mercedes se ne fu andata?»

Falcón provò una fitta di dolore e si portò la mano libera allo stomaco.

«Mi sembra ancora di udire…» disse, con sforzo, «di udire il rumore dei suoi tacchi allontanarsi lungo il corridoio e giù per le scale. Sento gli altri ospiti parlare e ridere, sento la porta che si chiude, i passi sul selciato. E ricordo che lei non tornò più.»

Le lacrime gli offuscarono la vista, aveva la bocca piena di saliva che non riusciva a inghiottire. Le ultime parole uscirono quasi soffocate dal muro tremante del suo stomaco.

«Niente più madri dopo di allora.»

Alicia preparò un tè. La tazza gli scottò le dita, il tè gli bruciò la lingua. La bevanda lo riportò alla realtà della stanza, con una strana, piacevole sensazione di nuovo, di pulito, come quando lui e Paco avevano scrostato e rimesso in ordine un vecchio stabbiolo alla finca, trasformandolo in un solido cubo bianco nel paesaggio color terra d'ombra bruciata. L'aveva fotografato, trovandovi in certo modo la semplicità di una grande opera d'arte.

«Non avevo mai ricordato tutto di seguito», disse. «In genere mi fermavo sempre prima del rumore dei tacchi che si allontanano.»

«E adesso, Javier, sa che non è stata colpa sua se non è ritornata, non è vero?»

«Avrei una domanda.»

«Quale domanda?»

Falcón rifletté per un lungo momento, poi scosse la testa.

«Lei sa che non è stata colpa sua», ripeté lei.

Falcón annuì.

«Sa che cosa ha fatto stasera, Javier?»

«Suppongo si possa dire che ho rivissuto un momento.»

«E l'ha visto nella sua luce normale», disse Alicia. «È così che funziona il processo. Se le neghiamo, le cose per noi dolorose non se ne vanno. Ci nascondiamo semplicemente da loro. Lei ha appena avuto il primo successo nella più grande indagine della sua vita.»


Tornò in macchina in calle Bailén, stranamente depurato, come se avesse corso e sudato, eliminando tutte le tossine dall'organismo. Parcheggiò e camminò nella casa silenziosa fino al patio, al suo centro e alla limpida pupilla di acqua nera e scintillante. Accese la luce sotto il porticato. Gli tremavano le mani entrando nel suo studio. Percorse con lo sguardo la scrivania, le fotografie sparse, il ritratto di sua madre con i bambini. Si diresse al vecchio armadietto grigio, lo aprì e tirò fuori una cartella marrone di pelle scamosciata contrassegnata dalla lettera «I». Sedette alla scrivania, consapevole del passo successivo che avrebbe fatto, scacciando il senso di colpa. Prese le quindici stampe in bianco e nero e le dispose capovolte sul piano. Domandò al riflesso sul vetro del quadro appeso alla parete: «Sei rimesso a nuovo davvero?»

Girò la prima foto. Inés giaceva bocconi, nuda, sul lenzuolo di seta del letto, il viso girato verso di lui, la testa appoggiata sulla mano stretta a pugno, i capelli sparsi dappertutto. Falcón chiuse gli occhi mentre lo spasmo di dolore si attenuava. Girò la seconda fotografia, aprì gli occhi, i muscoli del collo tremanti per la tensione. Impossibile deglutire. Inés era sostenuta dai guanciali, nuda anche qui, a parte un lembo di seta sulle spalle. Fissava l'obiettivo con intensità profondamente sensuale, le cosce aperte a rivelare il sesso rasato. Lui stava in piedi dietro la macchina fotografica, nelle stesse condizioni. Ah, la meravigliosa eccitazione mentre si rasavano a vicenda, le risatine, le mani tremanti. Non vi era stato niente di perverso, la gioia stava nell'innocenza della cosa. Rivide la luce brillante di quel giorno. Ritrovò il caldo torrido di quel pomeriggio pingue, vasto, le fessure abbaglianti delle imposte che illuminavano la penombra della stanza e rivelavano le loro immagini nello specchio, l'intimità di loro due soli nella grande casa, tanto che quando il caldo era diventato eccessivo lui l'aveva sollevata tra le braccia mentre erano ancora uniti, aveva disceso le scale, le cosce di Inés intorno alla vita, le caviglie allacciate, i talloni di lei premuti sulle sue natiche. Aveva scavalcato il bordo della fontana, immergendo i loro corpi nell'acqua fresca.

Una visione a tal punto intollerabile che dovette riporre la cartella e chiudere a chiave l'armadietto. Guardò quel contenitore di metallo grigio dove erano sepolti i suoi ricordi. Alicia aveva ragione. Non si poteva chiudere a chiave la memoria, non si poteva metterla ossessivamente in ordine, imballarla, classificarla sotto la «I» e sperare di farla rimanere al suo posto. Non c'era pignoleria che potesse impedire alla mente di lasciar filtrare qualcosa. Per questo la gente disperata si faceva saltare le cervella, l'unico modo sicuro per impedire la fuga di notizie dalla memoria era distruggere il deposito per sempre.

La domanda che avrebbe voluto rivolgere ad Alicia si ripresentò, anche questa volta senza forma. Non riusciva veramente a credere di aver ottenuto un risultato quella sera, come aveva detto lei, non era certo di non essere stato la ragione per cui Mercedes non aveva fatto più ritorno. Sì, sua era la responsabilità e questo pensiero lo proiettò nel suo impermeabile e sulla strada, bagnata ora, i ciottoli lucidi sotto la pioggia fine. Arrivò sulla plaza del Museo e trovò un curioso conforto nel passeggiare sotto gli alberi oscuri e gocciolanti.

Subito dopo l'una un taxi si fermò all'incrocio tra calle San Vicente e calle Alfonso XII. Inés scese e aspettò sul marciapiede mentre Calderón, dal sedile posteriore, pagava la corsa. Falcón uscì dal riparo degli alberi, i capelli bagnati, e si fermò sulla piazza, dietro il chiosco dei giornali. I due imboccarono la calle San Vicente e Falcón, attraversata di corsa la piazza, quasi piegato in due, si riparò sul lato buio della strada, opposto a quello degli amanti, camminando dietro le auto parcheggiate. I due si fermarono, Calderón estrasse le chiavi, Inés si girò e i suoi occhi lo incontrarono, paralizzato tra una macchina e il muro di un edificio. Si tuffò nel portone più vicino dove rimase immobile, il dorso premuto contro la parete, appiattito nel buio, il cuore e i polmoni in lotta tra loro come animali selvatici chiusi in un sacco. Inés disse a Calderón di salire, i suoi tacchi risuonarono sul selciato e si fermarono sul marciapiede davanti al portone.

«So che sei lì», disse.

Il sangue rombava nelle orecchie di Falcón.

«Non è la prima volta che ti vedo, Javier.»

Falcón strizzò le palpebre, bambino che stava per essere scoperto, punito.

«La tua faccia continua a sbucare dalla notte», proseguì lei, «tu mi pedini e io non intendo accettarlo. Hai distrutto la mia vita una volta, non ti permetterò di farlo ancora. Ti avverto, se ti vedo di nuovo, vado difilato dal giudice e ti faccio diffidare. Mi hai capito? Ti umilierò come tu hai umiliato me!»

I tacchi a spillo si allontanarono, poi tornarono indietro, più vicini questa volta.

«Ti odio», bisbigliò Inés. «Tu lo sai quanto ti odio? Mi stai ascoltando, Javier? Ora salirò quelle scale ed Esteban mi porterà a letto. Mi senti? Lui mi fa cose che tu non saresti nemmeno capace di sognare!»

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