Sabato 14 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia
Falcón rimise la lettera nella busta, la infilò nella scatola e spense le luci nelle due stanze, avvertendo che il buio inghiottiva con ingordigia il lavoro di suo padre.
I giardini di fronte al Museo de Bellas Artes stavano cominciando a riempirsi di giovani che fumavano marijuana e bevevano a collo dalle bottiglie da un litro di Cruzcampo. Alle undici di sera era ancora presto, ma, entro qualche ora, gli alberi oscuri sarebbero stati scossi dal frastuono di una festa di massa all'aperto. Si diresse verso il centro, lontano da luoghi dove poteva essere conosciuto.
Un certo ritmo si stabilì dentro di lui, un ritmo che non richiedeva il pensiero, solo la sensazione del selciato sotto la suola delle scarpe. Le parole della lettera di suo padre gli risuonavano fragorose nella mente come un interminabile treno merci che sussultasse a intervalli regolari sui binari. Sapeva che lo avrebbe fatto, sapeva che non avrebbe resistito e avrebbe letto i diari.
Mezz'ora dopo era in calle Jesús del Gran Poder, un nome altisonante per una strada di poche pretese. Tagliò per l'Alameda, dove le ragazze erano appostate tra gli alberi e le macchine parcheggiate nello spazio libero che la domenica mattina ospitava il mercato delle pulci. Dai bar e dai club in fondo alla strada giungeva una musica ritmata. Una ragazza si stirò la minigonna elasticizzata sul sedere e si avvicinò per domandargli che cosa cercasse. Aveva la faccia nera e bianca nelle luci gialle della via, i seni spinti in su nella scollatura geometrica di un top a rete, lo stomaco nudo arrotondato, le labbra nere e lucide: la lingua sembrava una creatura marina che si affacciasse tra gli scogli. Falcón era ipnotizzato. La ragazza suggerì qualcosa che funzionò, con sorpresa dell'uomo. Aveva voglia di sesso, ma non gli era mai venuto in mente di comprarlo. La prostituta aveva attirato la sua attenzione ormai, usava tutti i trucchi e Falcón sentiva qualcosa smuoverglisi dentro, ma nella posizione sbagliata, nel colore sbagliato, gli si torceva nello stomaco come le spire di un serpente nero, mostruoso, silenzioso, gli metteva idee nella testa, idee terribili che Falcón non aveva immaginato di poter avere. Dovette liberarsi con uno sforzo.
«Sono della polizia», disse irrigidendosi, «cerco Eloisa Gómez.»
La ragazza, immusonita, indicò con un cenno del capo un gruppo in mezzo alla piazza. Falcón uscì dagli alberi, turbato nel constatare che non poteva più fidarsi di se stesso, inquieto per l'imprevedibilità che si stava insinuando nella sua natura. Fu costretto a dirsi che lui era buono, che stava dalla parte dei buoni, perché quell'istantanea gli aveva appena rivelato che il lato oscuro del suo carattere era fremente di vita. Mentre calpestava il suolo disuguale dell'Alameda ebbe la strana idea di poter avere paura di se stesso, di ciò che aveva dentro e che non conosceva. L'assassino non aveva forse fatto questo a Raúl Jiménez, cioè mostrargli la cosa che aveva terrorizzato quell'uomo ogni giorno della sua vita?
Raggiunse il gruppo di ragazze in piedi di fronte a calle Vulcano, dove altre donne erano ferme sotto i lampioni della strada, gli stivali alti fino alla coscia evidenziati in controluce. Donne della fantasia, che con ogni loro gesto dicevano agli uomini di fare tutto ciò che volevano tranne baciarle sulla bocca. Il gruppo si divise senza una parola e aspettò che fosse lui a parlare, perché tutte sapevano che non era un cliente. Chiese di Eloisa Gómez. Una ragazza bassa di statura, grassa, con i capelli neri tinti e una faccia gonfia disse che non l'aveva vista in giro, non si era più vista da quando aveva preso la chiamata di un cliente la sera prima.
«Non è strano che non sia tornata qui?» domandò Falcón e le ragazze si strinsero nelle spalle.
«Devi essere un poliziotto», osservò una, «sei con quel cabrón che è stato qui ieri sera?»
«Sono della squadra omicidi», spiegò Falcón. «Eloisa è stata con un cliente mercoledì notte, giovedì mattina. Dopo che se ne è andata l'uomo è stato assassinato.»
«Che peccato.»
Recuperò il numero di Eloisa sul cellulare e lo chiamò. Nessuna risposta; lasciò un messaggio, fornendo il suo numero, pregandola di mettersi in contatto. Le donne stavano lì, in attesa di sviluppi interessanti, dandogli l'impressione di essere un animale dello zoo, finché una bionda dietro alle altre disse: «Se vuoi un pompino, ti facciamo il solito sconto per la polizia». Risate.
Risalì calle Vulcano, lasciandosi alle spalle le ragazze, fino a calle Mata, svoltando poi in calle Relator. Stava ricordando l'ultima volta in cui era stato in quella zona, probabilmente con suo padre, perché non ci veniva mai per bere qualcosa o per una tapa. In quel quartiere della città si trovavano ancora gli artigiani, sì, ricordava un corniciaio, e anche un pittore specializzato in copie, un tipaccio scuro di pelle che, secondo suo padre, faceva uso di eroina. Come si chiamava? Era un soprannome… Lo aveva visto un'unica volta e in quell'occasione era venuto alla porta indossando soltanto un paio di mutande di raso nero. Era magro, con una muscolatura da animale selvatico. Denti grandi. L'uomo lo aveva impressionato per il fatto che non si era preso la briga di vestirsi e perché parlava con suo padre tenendo una mano infilata nelle mutande.
Attraversò calle Feria fino alla vecchia chiesa con un nome latino, Omnium Sanctorum, accanto al mercato coperto, un angolo buio e quieto, tanto che il trillo del telefonino lo fece sobbalzare.
«Diga», rispose.
Silenzio a parte un sibilo etereo.
«Diga», ripeté, a voce più alta.
La voce suonò calma, sommessa, maschile.
«Dove sei?»
«Chi parla?» disse Falcón, irritato dalle persone che non dicevano il proprio nome.
«Siamo vicini?» riprese la voce e quelle due parole furono sufficienti a immobilizzare Falcón, a lasciarlo piegato, come se curvandosi potesse udire meglio.
«Non so. Lo siamo?»
«Più vicini di quanto pensi», rispose la voce e la telefonata si interruppe. Falcón si girò di scatto, controllò ogni portone e ogni angolo di strada, il vicolo buio tra la chiesa e le vie laterali. Una coppia con un cagnolino attraversò la strada per evitarlo, probabilmente lo avevano preso per pazzo vedendolo saltare di qua e di là dietro alle ombre, come un pugile suonato.
Falcón si fermò e fissò il selciato, incerto tra due possibilità. Se l'assassino non conosceva già Eloisa Gómez, allora aveva trovato il suo numero sul cellulare di Jiménez che aveva rubato nell'appartamento. La sera prima l'aveva chiamata e ora doveva avere il telefonino di lei… «perché ha trovato il mio numero nel messaggio. Io l'ho lasciato da poco, il che significa…» Il senso di colpa gli si installò nel petto. Quell'uomo l'aveva uccisa. Se invece conosceva già Eloisa Gómez… il risultato non cambiava.
Ci siamo mossi malissimo, pensò. Si mise a correre, tornando sull'Alameda sudato e senza fiato. Le donne lo circondarono.
«Dove abita Eloisa Gómez?» domandò. «Nessuna di voi sa dove sia andata dopo che ha ricevuto quella telefonata ieri sera?»
La ragazza grassa trotterellò con lui fino a una casa sulla calle Joaquín Costa, passando davanti a gruppetti raccolti nell'ombra di aree vuote e di androni, curvi su fogli di alluminio, a succhiare le cannucce di penne biro vuote e aspettare il colpo di coda del drago. Aprì il portone di un vecchio edificio malandato, con l'erba e i fiori che spuntavano dalle crepe dell'intonaco. Le scale di legno non erano illuminate e puzzavano di urina. Sul pianerottolo del primo piano la ragazza indicò una porta e quando Falcón, che aveva bussato, non ottenne risposta, andò a prendere una chiave di riserva dalla sua camera. All'interno nessuna traccia di Eloisa, solo un grosso panda di peluche nuovo di zecca sul divano mezzo sfondato.
«È per sua nipote», spiegò la ragazza. «Sua sorella vive a Cadice.»
Il panda sedeva a braccia aperte in un gesto rigido, gli occhi stupidi e tristi, e per un attimo Falcón contemplò la propria solitudine nel muso di quel giocattolo muto. Riprovò a chiamare il numero di Eloisa Gómez e gli rispose la voce della segreteria.
«Dove si trova?» lasciò come messaggio.
Fornì il suo biglietto da visita alla ragazza, le raccomandò le solite cose. Lei prese il biglietto con mano tremante: aveva capito.
Falcón provò rabbia per il suo fallimento. Si allontanò dall'Alameda risalendo la calle Amor de Dios a passo svelto, come se sapesse dove andare, ma in realtà senza una meta precisa, svoltando a sinistra e a destra nel disordine delle stradine finché non avvertì odore di urina di gatti. La via si stringeva per allargarsi poi davanti a una chiesa dedicata alla Divina Enfermera. Grossi blocchi di asfalto si accumulavano in plaza de San Martin. Era stato lì con suo padre quando erano andati dal pittore di falsi e, passando davanti alla chiesa della Divina Enfermera, suo padre aveva fatto una battuta volgare, mostrandogli le divine infermiere al lavoro: donne di sessantacinque anni sedute sulla soglia di casa a gambe aperte, nero corvino tra le cosce flaccide. Suo padre aveva iniziato con loro trattative interminabili a proposito di un pompino e Javier, sconvolto, non aveva resistito ed era scappato via, fermandosi in fondo alla strada sotto una pubblicità dell'amontillado fino e della manzanilla pasada su un pannello di piastrelle in ceramica.
I nomi delle vie scivolarono dietro di lui fino a San Juan de la Palma, affollata di gente che usciva dalla Cervezería Plazoleta e beveva birra intorno alle due palme svettanti al di sopra dei lampioni. Era facile sentirsi soli a Siviglia. Passò davanti alla dimora della Duquesa de Alba. Una volta c'era stato, fermo in piedi sotto le cascate torreggianti delle buganvillee a bere nettare con il bel mondo. Così si sentono i vagabondi? Sto cominciando a vagabondare, a fuggire da me stesso.
Una folata di brezza gli raffreddò il velo di sudore sulla fronte. Non pensava di essere assorto nel flusso dei pensieri, eppure le parole gli fluttuavano nella mente, sbucando dal nulla, non invitate. Andropausa. Quarantacinque. Uomo maturo. Un'altra stronzata delle riviste di Manuela. No. Qui si tratta semplicemente di età, senza mezzi termini, l'inizio strisciante della vecchiaia notato dalla mente e dal corpo, età avanzata significa disintegrazione delle possibilità e affermazione delle probabilità, probabilità favorevoli di giorno in giorno minori: Francisco Falcón, giugno 1996.
Si mise a correre, scattò come se potesse così sfuggire a ciò che gli stava crescendo nella testa. La gente si scostava all'avanzare sonoro dei suoi passi e quanti avevano un più forte istinto gregario cominciarono a seguirlo, convinti che sapesse dove stava andando. Idioti, grandissimi idioti. Arrivato a calle Matahacas aveva già venti persone dietro di sé e fu allora che vide la folla materializzarsi uscendo dal buio e avvertì il silenzio profondo che i sevillanos riservavano a due cose: la Virgen e los toros.
In fondo alla strada, all'altezza delle Escuelas Pías, al di sopra di un mare di teste nere e illuminata dalle candele, comparve la Madonna. La figura dalla testa china, la veste bianca tempestata di gemme, la guancia bagnata dalle lacrime, ondeggiò nelle volute d'incenso e il timore sacro le lambì i piedi salendo dall'umanità ammassata sotto di lei mentre il paso avanzava dondolando nel buio.
La gente alle spalle di Falcón lo spinse verso la stupefacente visione di bellezza che lo affascinò e lo disgustò al tempo stesso, lo riempì di rispetto reverenziale e di paura. La folla che gli veniva incontro si fece più numerosa, donnette che gli arrivavano alla vita mormorarono preghiere e baciarono rosari. Era intrappolato in quel bizzarro mondo parallelo, mentre l'Alameda con le sue prostitute e i suoi clienti, i suoi drogati in cerca di oblio armato di lancia, viveva una vita diversa, di sangue e di sudiciume, ben lontana da questa cattedrale alta di silenzio, con la sua bellezza mortificante che avanzava sull'onda della reverenza e dell'adulazione.
Possibile che apparteniamo tutti alla stessa specie?
La domanda gli si presentò inaspettata, ma lo indusse a pensare che forse il bene e il male potessero abitare nello stesso luogo, nella stessa persona. Perfino dentro di lui. Il panico lo ghermì, doveva assolutamente uscire dalla folla e l'unico modo era proseguire dritto.
La Vergine si fermò e sprofondò nel buio. La luce delle candele tremolò sul suo viso, colse le lacrime cristalline, gli occhi addolorati. Doveva superarla, lasciarsi indietro quel terribile emblema di lutto, quello sfolgorante esempio della capacità di barbarie del mondo. Si fece strada a forza tra le penitenti, lasciandosi alle spalle le madri tranquille, il bambino che dormiva in braccio al padre, la testa sul suo petto. Non resisteva più.
Lo colpirono con i pugni sulla schiena per fermarlo, ma Falcón procedette senza badare a niente, raggiunse la barriera, vi si infilò sotto e corse tra i nazarenos silenziosi vestiti di nero, con gli alti cappucci a cono, indistinguibili nella notte. I loro occhi erano su di lui, occhi sinistri nei volti incappucciati, gli Ordini silenziosi più imperiosi degli altri. Corse tra le file di uomini scalzi, allontanandosi dalla Madonna ondeggiante. Era disperato.
La folla si fece più rada e Falcón riuscì senza difficoltà a scavalcare la barriera, ma non rallentò finché non sbucò in calle Cabeza del Rey Don Pedro e soltanto allora si accorse che stava parlando da solo. Cercò di ascoltarsi, il che era ancora più folle. Continuò, riuscì a riprendere il controllo e si infilò in un vicolo che percorse fino alla calle Abades, fermandosi di botto in mezzo alla strada, perché là, girata verso l'edificio dal quale era appena uscita, stava la sua ex moglie, Inés. Rideva, rideva così forte che si era chinata, la testa e i lunghi capelli in avanti, le mani strette sulle cosce. Stava guardando la luce che usciva dalla porta del Bar Abades e Falcón sapeva che non rideva perché fosse ubriaca, a lei non piacevano le bevande alcoliche. Rideva perché era felice.
La porta del bar si aprì per far passare un gruppetto di gente che usciva. Inés prese per un braccio uno del gruppo e si allontanò insieme a lui. Portava tacchi molto alti, come sempre, e camminava sull'acciottolato con una tale sicurezza da lasciare strabiliati. Per Falcón muovere i piedi fu più problematico. Quel momento aveva spalancato dentro di lui un abisso tenebroso: su un lato dell'abisso la sua vita precedente, quando era sposato, più felice, e sull'altro quel sé attuale, solitario, oscuro. E nel mezzo? La voragine, il precipizio, il pozzo senza fondo di quei terribili sogni per i quali l'unica cura era svegliarsi di soprassalto in una realtà ancora più implacabile.
La seguì. Ascoltò la sua allegria. Si trattava di battute sui giudici e sugli avvocati difensori. Fu un sollievo per lui capire che quei suoi compagni erano colleghi di lavoro, ma ogni riconoscibile risata di Inés gli si conficcava dentro e rimaneva piantata lì con tutta la forza di un toro alle spalle. La spensieratezza di lei era quasi insopportabile accanto al tormento nuovo di zecca di lui. E quando la pietra focaia della sua immaginazione incontrò la sega circolare dei sospetti, scintille crepitanti gli turbinarono nella testa.
In avenida de la Constitución il gruppetto chiamò i taxi e Falcón, tenendosi in ombra, cercò di vedere con chi sarebbe salita in macchina. Montarono in quattro sullo stesso taxi. Osservò la sua caviglia, la punta di pelle della scarpa scomparire nell'auto, la portiera richiudersi. Rimase lì, derelitto, a seguire con lo sguardo le rosse luci posteriori allontanarsi nel traffico.
Camminò fino al fiume, rimanendo nelle vie principali, non avendo nessun desiderio delle viuzze di El Arenal, dei turisti e del loro buonumore; sul puente San Telmo si fermò a metà strada, colpito dalle pubblicità sui palazzi di appartamenti della plaza de Cuba. Tío Pepe, Airtel, Cruzcampo, Fino San Patricio: sherry, telefoni e birra, ecco la Spagna di oggi, non c'è bisogno di altro.
Il fiume s'increspava, si spandeva sotto di lui. Gli venne in mente la prima moglie di Raúl Jiménez: la tortura di non sapere era stata atroce, insopportabile per una madre. Si chiese se lo avesse fatto da lì, dal punto in cui lui si trovava, poi ricordò ciò che aveva detto Consuelo Jiménez: una notte era scesa sulla sponda e si era buttata via. Immaginò lei galleggiare sulla corrente, l'acqua aprirsi per lambirle il viso, sfiorarle gli angoli degli occhi e la bocca finché non l'aveva ricoperta tutta. Poi il buio che tanto aveva agognato si era richiuso sopra di lei.
Trillo del cellulare. La stupidità di quel suono fu la benvenuta in mezzo alle sue divagazioni morbose. Portò il telefonino all'orecchio, udì il sibilo dell'etere e capì che era lui.
«Diga», disse calmo.
Nessuna risposta.
Aspettò, non volendo rompere l'incantesimo con parole superflue.
«Tu stai pensando, Inspector Jefe, che questa sia la tua indagine, ma dovresti sapere che io ho una storia da raccontare e, che tu lo voglia o no, me la lascerai raccontare. Hasta luego.»