XII

Sabato 14 aprile 2001, Jefatura, calle Blas Infante, Siviglia


Falcón e Ramírez erano seduti nella stanza degli interrogatori della Jefatura, la videocamera collegata al televisore mentre un poliziotto più giovane, che si intendeva di queste cose, provvedeva al funzionamento dell'intera apparecchiatura. Ramírez si informò sul vecchio signore incontrato al cimitero.

«Ramón Salgado. Era il gallerista di mio padre.»

«Non aveva l'aria di poter sollevare Jiménez dalla sedia», osservò Ramírez, «e nemmeno di riuscire ad arrampicarsi su un'autoscala.»

«È anche un critico d'arte che occasionalmente tiene all'università conferenze a cui non assiste nessuno. Ha una galleria in calle Zaragoza, vicino a plaza Nueva. È tuttora frequentata da gente importante, compresi la signora Jiménez e suo marito.»

«Ha l'aria di uno che sa tirar fuori i soldi dalle tasche altrui.»

«Abbiamo parlato di denaro sporco nel settore della ristorazione e ha perfino toccato l'argomento dell'Expo '92, cosa che credo abbia fatto poco volentieri, e c'è stata un'offerta di informazioni.»

«Ma non le ha detto niente?»

Falcón avvertì di nuovo la sonda in azione.

«Conosco Ramón Salgado», rispose. «Apparentemente è un uomo d'affari di successo, quattrini, macchina di lusso, casa a El Porvenir, clienti importanti, ma ai suoi occhi è un fallito. Non si è mai impegnato in prima persona come gli artisti che rappresenta, tiene conferenze alle quali non partecipa nessuno, ha scritto due libri di nessuna rilevanza, sia dal punto di vista accademico, sia dal punto di vista commerciale.»

«E che cosa voleva?» domandò Ramírez.

«In cambio di informazioni vuole qualcosa di personale… qualcosa che ha a che vedere con mio padre. Io non voglio concedergliela in cambio di semplici pettegolezzi.»

«Il mercato dei pettegolezzi è fiorente», osservò Ramírez.

«Lei non è mai stato all'inaugurazione di una mostra, Inspector? C'è sempre moltissima gente, persone che fingono di sapere più di quello che sanno, che credono di essere le uniche a capire le opere e che poi… cercano di tradurle in parole.»

«Quelle sono stronzate, non pettegolezzi.»

«Quel genere di persone vuole essere là dove si manifesta, vuole toccarlo, vuole parlarne.»

«Parlare di che?»

«Del genio», rispose Falcón.

«I ricchi non si accontentano mai di quello che hanno, no? Nemmeno quelli del barrio che hanno sfondato si accontentano. Vogliono tornare e ficcarti in gola il loro successo e per giunta rimanere amici.»

«Neanche mio padre lo ha mai capito, eppure era ricco anche lui», disse Falcón. «Lo disprezzava.»

«Che cosa?» domandò Ramírez, pensando che stessero ancora parlando di genio.

«Il desiderio di accaparrare, l'avidità.»

«Oh, certo», convenne Ramírez sarcastico, cercando le sigarette: sapeva bene che il vecchio Falcón aveva lasciato una fortuna in proprietà che si era «accaparrato». Se aveva disprezzato l'avidità, allora il vecchio cabrón aveva disprezzato se stesso.

L'attrezzatura era finalmente pronta; si girarono verso lo schermo. Dal ronzio del nastro si passò bruscamente alla prima immagine: il silenzio del cimitero, le ombre dei cipressi lungo il sentiero, i convenuti adunati intorno alla cappella.

La mente di Falcón indugiò su Salgado, su suo padre, sullo studio mai aperto e sulla strana richiesta. Era stato Salgado a creare per suo padre la possibilità di farsi conoscere e per questa ragione in privato Francisco Falcón riservava a lui un disprezzo speciale. Salgado aveva organizzato a Madrid la mostra in cui era stato venduto il suo primo nudo, all'inizio degli anni '60. Il mondo dell'arte europeo era impazzito, la casa di calle Bailén era stata comprata sull'onda di quel successo.

E sull'onda di quel successo, grande, ma domestico, Salgado aveva organizzato una mostra a New York. Erano corse voci di una montatura, che il quadro fosse già stato promesso all'ereditiera Woolworth e «regina» di Tangeri, Barbara Hutton, e che la mostra fosse solo un mezzo per creare eccitazione intorno al nome di Francisco Falcón. In ogni caso aveva funzionato. Barbara Hutton aveva effettivamente comprato il quadro e, alla mostra, era accorsa tutta la folla scintillante e mondana di New York. Il nome di Falcón era sulle labbra di tutti. Le due successive esposizioni nella stessa città avevano ottenuto un grande successo e, per un periodo di qualche settimana, alla metà degli anni '60, Francisco Falcón era stato famoso quasi quanto Picasso.

Parte di quel successo era dovuto al talento di Ramón Salgado, il quale conosceva fin dal principio i limiti del suo artista. Il fatto era, e in suo padre questo aveva causato grande amarezza, rabbia e frustrazione, che esistevano solo quattro nudi Falcón, tutti dipinti nello spazio di un anno, a Tangeri, all'inizio degli anni '60. Dopo il suo arrivo in Spagna quella particolare vena del suo genio si era esaurita. Il pittore non era mai riuscito a ricatturare quella qualità unica, misteriosamente proibita, presente in quei quattro quadri astratti. Suo padre gli parlava spesso di Gauguin, gli spiegava che Gauguin era già un pittore eccezionale prima di aver visto le donne delle isole dei mari del Sud, ma che, a quel tempo, nessuno lo sapeva. Quelle figure femminili avevano fatto riemergere il suo genio. Se non fosse stato per loro, sarebbe probabilmente finito a dipingere porte in Francia. La stessa cosa era accaduta a Francisco Falcón. La sua prima moglie era morta, la seconda anche e il pittore aveva lasciato Tangeri. I critici avevano scritto che il carattere particolare di quei nudi era una sorta di consapevole innocenza, una presenza intangibile e che forse era stato il trauma di quegli ultimi anni a Tangeri a interrompere il flusso ispiratore: le perdite che aveva subito gli avevano impedito di accedere nuovamente a quella purezza innocente. Non aveva mai nemmeno tentato di dipingere un nuovo nudo astratto.

Qualcosa attirò l'attenzione di Falcón. Una macchiolina nera comparsa brevemente sullo schermo bianco.

«Che cos'era?»

Ramírez sobbalzò sulla sedia. Quasi non lo stava guardando, quello stramaledetto filmato, solo una gran perdita di tempo, secondo lui.

«Ho intravisto qualcosa», disse Falcón. «Qualcosa sullo sfondo. In alto a destra. Possiamo tornare indietro?»

Ramírez si aggirò intorno allo schermo come un moscone intorno a un mucchio di letame. Il dito tozzo premette maldestramente il pulsante di riavvolgimento e le figure cominciarono a rincorrersi all'indietro. Un altro colpo e presero a muoversi a un passo più dignitoso.

Era dopo la cerimonia davanti al mausoleo, la gente si stava allontanando. Falcón osservò attentamente lo sfondo: il profilo frastagliato dei tetti delle cappelle di famiglia, la linea piatta delle strutture che ospitavano i loculi dove riposavano le ossa dei poveri. La videocamera cominciò una lenta panoramica da sinistra a destra.

«L'ha visto?» domandò Falcón, meno sicuro ora che si stava concentrando.

«Io non ho visto nulla», disse Ramírez, soffocando uno sbadiglio.

«Richiami quel giovanotto per fermare l'immagine.»

Ramírez andò a recuperare il giovane poliziotto, che fece scorrere le sequenze un'inquadratura dopo l'altra.

«Ecco», disse Falcón, «a destra in alto, contro la cappella bianca.»

«Joder!», esclamò Ramírez. «Crede che sia lui?»

«Lo ha colto proprio alla fine della panoramica.»

«Otto fotogrammi», annunciò il giovane poliziotto. «Vuol dire un terzo di secondo. Non so come abbia fatto a vederlo.»

«Non l'ho visto», spiegò Falcón, «ha solo colto il mio sguardo.»

«Sta filmando i presenti!» Ramírez era sbalordito.

«Deve aver visto lei e la sua videocamera, Inspector, e si è ritirato dietro il mausoleo bianco», disse Falcón. «Ma quello, ne sono quasi certo, è un terzo di secondo del nostro assassino.»

Guardarono il filmato tre volte, ma non notarono null'altro. Alla sezione informatica un operatore ancora al lavoro digitalizzò le immagini della cassetta e inserì nel computer gli otto fotogrammi, selezionò l'elemento vitale e lo ingrandì. A dispetto di una certa distorsione della figura, apparve chiara la cura che quella persona aveva riservato al suo aspetto. Portava un berretto da baseball nero senza segni distintivi della marca, la visiera girata nella posizione ore dieci in modo da poter tenere la videocamera ben ferma sull'occhio. Aveva i guanti e il collo di un maglione dolcevita che gli copriva la bocca e il naso. Era inginocchiato e il soprabito scuro arrivava fino a terra.

«Non possiamo nemmeno capire di che sesso è», si rammaricò Falcón.

«Posso ripulire l'immagine» disse l'operatore. «Dovrò lavorare nel weekend, ma posso farlo.»

Si fecero stampare il fotogramma e tornarono nell'ufficio di Falcón.

«Dunque, che cosa stava facendo al funerale?» si domandò Falcón, sedendosi alla scrivania. «Stava filmando qualcuno in particolare o solo la scena nel suo complesso?»

«Fumava la conclusione della sua opera», suggerì Ramírez, «il bastardo morto e sepolto. Questa è la mia ipotesi.»

«Avrebbe corso un tale rischio solo per una soddisfazione personale?»

«Non era un rischio poi così grande, in genere non filmiamo i funerali delle vittime», obiettò Ramírez.

«Potrebbe essere la fine di quel lavoro e l'inizio di un altro», disse Falcón.

«Non era questo che stava insinuando prima che arrivassimo al cimitero?»

«Non ricordo di aver insinuato niente.»

«Ha detto che una mente non disturbata avrebbe potuto diventarlo. Non è la stessa cosa?»

«Un pazzo con un movente perverso. O un pazzo perverso senza movente.»

Ramírez si guardò alle spalle, per vedere se fosse appena entrato qualcuno più intelligente di lui.

«Ma è questo il punto, no?» riprese Falcón. «Ancora non abbiamo niente su cui costruire un'indagine.»

Attaccò il fotogramma stampato alla parete.

«È come quel gioco nei giornaletti», affermò Ramírez, distendendosi sulla sedia. «Si deve indovinare l'identità di una pop star da un occhio, un naso o una bocca. I miei ragazzi pensano che io dovrei riuscirci perché sono un poliziotto, ma a quanto pare non capiscono che io non so chi siano quei tizi. Chi cazzo è Ricky Martin?»

«Il figlio di Dean Martin?»

«E chi cazzo è Dean Martin?»

La domanda fece perdere il controllo a Falcón, che fu preso da un attacco isterico. Forse era per via delle notti inquiete, degli strani sogni. Un fou rire silenzioso. Fino alle lacrime che Falcón asciugava contorcendosi sulla sedia, assalito da un'ondata di ilarità dopo l'altra. Ramírez lo fissava come un avvocato con un cliente inaffidabile chiamato a deporre in tribunale.

L'Inspector telefonò agli uomini sul campo, ascoltò i rapporti. Niente. Uscì per la pausa del pranzo e Falcón finalmente si riprese e andò a casa, ancora stordito da quell'esplosione d'ilarità, dal fatto che fosse capitato a lui di perdere il controllo. Mangiò qualcosa che Encarnación aveva lasciato sul fornello, senza rendersi conto di che cosa fosse, poi si coricò sul letto, sperando in un'ora di sonno. Si svegliò alle nove di sera nel buio pesto della sua camera, di colpo desto come se qualcuno avesse tirato qualcosa che gli annodava lo stomaco. Aveva visto gli ubriachi fare la stessa cosa, risvegliarsi all'improvviso in cella come se fossero stati scaraventati d'un tratto nella corrente della vita. Si sentiva incerto sulle gambe, aveva la lingua impastata e un brutto sapore in bocca, le membra irrigidite e le giunture bloccate.

In piedi sotto la doccia lasciò che l'acqua corrente si portasse via tutto quanto, con l'impressione che la testa e le viscere fossero frullatori muniti di lame che trituravano, schiacciavano, maciullavano.

Nello spogliatoio indossò un paio di calzoni grigi e una camicia bianca che emise una sorta di crepitio mentre la infilava. Nel guardarsi allo specchio non riuscì a sopportare la vista di se stesso. La camicia. Odiava quel bianco, non sopportava il… non colore. Se la strappò di dosso e, con un brivido provocato da quell'odio così violento, la fece volare in fondo alla stanza. Avvicinatosi allo specchio si esaminò il viso, premette la pelle più delicata sotto gli occhi, la vide raggrinzirsi ma non tornare elastica come prima. L'età. Forse il suo interno stava riempiendosi di rughe come l'esterno? Forse nel cervello si stavano formando tante grinze, così che lui andava a letto amando le camicie bianche e si svegliava detestandole?

Scelse una camicia verde.

Di ritorno in camera, mentre guardava il letto disfatto e le lenzuola blu scuro, lo assalì un ricordo improvviso. Inés aveva sempre voluto lenzuola bianche, ma lui non riusciva a dormirci. Un altro esempio della sua avversione per il bianco. Si erano accordati sul celeste. Falcón ebbe una curiosa percezione di se stesso come di un tipo eccentrico, simile a certi collezionisti inglesi che suo padre aveva conosciuto. No, quella era chiaramente una bugia suggerita subdolamente dal suo ego. Vide se stesso come Inés doveva averlo visto: un vecchio, con le sue manie e le sue abitudini; se non che un quarantacinquenne non poteva dirsi vecchio. Però a quindici anni un uomo di quaranta gli pareva decrepito, i quarantenni indossavano completi, portavano il cappello e avevano i baffi… A ben pensarci, lui vestiva sempre così, perfino il sabato e la domenica era in giacca e cravatta. Inés aveva cercato di convertirlo alle felpe e ai jeans, alle polo con le maniche lunghe e perfino ai dolcevita, un genere che lui non riusciva assolutamente a portare. Mancanza di sostegno. A lui piacevano camicia e cravatta perché lo tenevano insieme, lo facevano sentire contenuto. Non sopportava gli indumenti larghi e sformati, gli piacevano gli abiti su misura, amava la sensazione di guscio che gli suggeriva un completo di buon taglio. Lo faceva sentire piacevolmente protetto.

Protetto da che cosa?

Di nuovo quel senso di precipitazione interiore. Questa volta, invece di liberarsene con uno scossone, cercò di esaminarlo. Era come una proiezione accelerata di un film… ma non era proprio così, perché non c'era un avanzamento. Anzi. Ma non era nemmeno una regressione. Una stasi. Sì, era così. Rimase immobile mentre il passato lo raggiungeva. Il pensiero lì e subito dopo svanito, simile a un frammento che precipitasse in un lampo al di là del finestrino… E da dove veniva? Frammenti che precipitavano… Il sogno riaffiorò da un sonno che aveva creduto senza sogni; perciò si era svegliato di soprassalto. Conosceva l'origine di quell'incubo. Aveva letto il resoconto del disastro aereo del volo 103 Pan Am, a Lockerbie, in Scozia. Un uomo si era svegliato all'improvviso in casa sua e aveva trovato in giardino una fila di passeggeri ancora sui loro sedili che… tenevano tutti le dita incrociate. Quel particolare pietoso aveva trascinato nella mente di Falcón l'orrore dell'aereo esploso in aria, un orrore che gli era rimasto dentro e che ora la memoria aveva riportato alla superficie. Lo schianto; i componenti, i meccanismi fondamentali del velivolo che volavano via al di là del finestrino, pezzi di turbina, finiture di ali… e poi scagliati fuori nelle fauci sbadiglianti della notte, a precipizio attraverso il buio sottile, la mente annichilita, solo l'istinto a lottare per ritrovare momenti meno pericolosi, le montagne russe, la montagna magica. Oh, andrà tutto bene, dita incrociate. Il suolo invisibile che ti viene incontro a precipizio, il nero sempre più nero, del genere senza stelle. Oh, Dio, il mondo capovolto, non eravamo certo fatti per questo, a che serve ora ripetersi: «Tenersi forte! Tenersi forte»? Siamo proprio in classe economica. E avremo un tale ritardo! Tutti questi pensieri — riflessioni folli, piccole battute persuasive, desiderio feroce di normalità — e intanto stiamo precipitando giù, verso l'impatto.

Che non c'era stato. Si era svegliato. Nessun impatto. Sua madre gli aveva detto… la sua prima o la sua seconda madre? Una delle due gli aveva confidato che in un incubo, finché non si urtava il suolo tutto andava bene. Ridicolo. Si era nel proprio letto. Le cose che ti fanno credere!

Si inginocchiò e si allacciò le scarpe, strette, in modo che i piedi fossero al sicuro e stabili, affidabili. Non era quello il momento di ciabattare in giro nelle pantofole gialle di pelle che si era comprato perché gli ricordavano suo padre. Francisco Falcón le portava sempre quando lavorava: a piedi nudi o in pantofole, mai niente altro.

Quel riaffiorare continuo di ricordi era esasperante.

Uscì dalla stanza nella galleria che si affacciava sul patio. Faceva caldo, l'aria che spirava intorno alle colonne era morbida come una ragazza che fosse venuta a dargli un bacio. Inspirò profondamente e l'aria inebriante gli riempì all'improvviso la testa del profumo delle cose ancora possibili. La pupilla nera dell'acqua ferma nella fontana del patio fissava la notte. Falcón rabbrividì. Tutte queste case guardano solo se stesse, pensò. I muri le erodono. Devo uscire. Devo uscire da me stesso.

Si avviò giù per le scale, ma si voltò verso la galleria, in direzione dello studio di suo padre. Il cassetto delle chiavi non c'era più. Encarnación. Strano, pensò, un nome come quello, eppure la vedo così raramente. Sempre intenta ad assumere forma umana, immaginava, ma senza mai comparire. Io vedo soltanto le prove della sua attività. Risalì fino al cancello, perché aveva visto che nel lucchetto era rimasta una chiave e, appesa a un frammento di spago, un'altra. Si accarezzò il palmo della mano con i polpastrelli. Sudate. Aveva sempre avuto le mani asciutte e fresche, Inés glielo faceva notare. Quando erano amanti, gli bastava far scorrere le mani sulla sua schiena calda perché lei s'inarcasse premendo il ventre sul lenzuolo, offrendosi a lui. Quelle mani fresche e asciutte sulla sua pelle. Alla fine del matrimonio, sua moglie lo chiamava pescivendolo. «Non toccarmi con quei blocchi di ghiaccio!» lo ammoniva con disprezzo.

Girò la chiave. Un giro, due giri e mezzo. La serratura scattò, il cancello si aprì senza cigolare. Chi aveva oliato i cardini? La fantastica Encarnación? Sentiva il cuore battergli forte, come se intuisse che stava per accadere qualcosa. Sfilò la chiave dalla toppa, richiuse il cancello di ferro battuto.

Suo padre aveva fatto mettere le sbarre alle arcate di quel lato della galleria, ossessionato com'era dal problema della sicurezza. Falcón lo percorse tutto, l'acqua nera e piatta della fontana che si increspava nella sua mente. Poi tornò indietro fino alla porta al centro, la pesante porta di mogano con i pannelli sporgenti che diceva: «Vietato entrare» o forse, con ancora maggior esigenza: «Vietato entrare impreparati».

La seconda chiave scivolò nella serratura, girò facilmente. Incoraggiante. Gli occorse una certa forza per spingere il battente: la prima resistenza. La porta si aprì con un cigolio assurdo, il coperchio della bara di un vampiro. Falcón ridacchiò, nervoso come Leda quando aveva visto il famoso cigno dispiegare le ali. Una delle battute ironiche di suo padre sulle donne che tremavano al cospetto del suo carisma. Annaspò alla ricerca dell'interruttore.

Alla luce delle lampade alogene apparve un vasto muro vuoto, spruzzato di colore: la parete sul lato dove suo padre dipingeva, cinque metri per quattro di tracce di lavoro, le vestigia di quattro tele che sembravano galleggiare sotto le macchie di vernice sgocciolata e le pennellate. L'estremità del muro più vicina alla finestra era quasi completamente nera, la pittura spessa, come se suo padre avesse lavorato su idee gravate da un senso di imminente rovina. Sul resto della parete predominava il rosso, un colore che non aveva usato molto in nessuna delle sue opere dal tempo dei nudi di Tangeri, linee voluttuose distese su blocchi di colore del Marocco: blu tuareg, ocra deserto, terra di Siena pura, terracotta e poi i rossi, l'intera gamma dei rossi sangue, dal cremisi dei capillari al vermiglio delle vene, all'amaranto scuro delle arterie. Si diceva comunemente che stava tutto in quel rosso, il flusso della vita. Ma dopo Tangeri Francisco Falcón non aveva più usato il rosso. Nei quadri degli scorci di Siviglia non lo impiegava quasi mai, in quei paesaggi astratti verdi e grigi, marroni e neri e sempre soffusi da una luce misteriosa proveniente da una fonte invisibile. Luce che il critico di ABC aveva definito magica ed El País «disneyana». «Non si può insegnare agli altri a vedere», aveva commentato suo padre. «Ognuno vede soltanto ciò che vuole, la mente interferisce sempre con la visione; tu dovresti saperlo, Javier, dato il lavoro che fai. Testimoni che hanno visto tutto tanto chiaramente e che, una volta sul banco per il controinterrogatorio, quasi non ricordano nemmeno di essersi trovati sul posto. Un cieco saprebbe dire di più. Ricordi quel film, La parola ai giurati? La traduzione del titolo originale è Dodici uomini arrabbiati. Ma perché 'arrabbiati'? Perché la gente crede fermamente nella veridicità della propria visione. Se non ci possiamo fidare dei nostri occhi, degli occhi di chi dovremmo fidarci?»

Ricordando quelle parole Falcón si era arrestato di colpo, la gamba alzata, ridicolo come uno di quei mimi sulla calle Sierpes. I pensieri ruotavano vorticosamente intorno a quel punto cruciale, a una verità che gli permettesse di leggere nella mente dell'assassino di Raúl Jiménez. Quella che avrebbe costretto la vittima, evitando le interferenze della mente, a vedere l'inaccettabile realtà. Ma non riuscì a raggiungerla e si risvegliò sorpreso come un paziente anestetizzato, ridestatosi dopo quella breve vacanza dal mondo.

Girò intorno ai tavoli coperti da vasetti e barattoli pieni di pennelli induriti, incrostati di colore secco. Sotto i tavoli scatole di cartone e pile di libri, di cataloghi e riviste, oscuri periodici d'arte e risme di carta, rotoli di tela, fogli di cartoncino. Avrebbe impiegato un giorno intero solo per trasportare tutta quella roba al pianterreno, figuriamoci poi per esaminarla. Ma la questione era: non avrebbe dovuto nemmeno guardarla, avrebbe dovuto portarla via e bruciarla. Non buttarla via, ma distruggerla in modo radicale.

Falcón si passò le dita tra i capelli, più e più volte, impazzendo al pensiero dell'impresa in cui stava per imbarcarsi, consapevole di trovarsi li precisamente per disubbidire alle disposizioni di suo padre e di aver sempre rimandato quel momento dal giorno della sua morte, perché aveva avuto bisogno di prendere le distanze dalla fine di quell'epoca, per poter cominciare la propria. La propria? Si poteva parlare di un'epoca per le persone comuni come lui?

Si chinò e sfilò una rivista da un mucchio, il New Yorker. Suo padre aveva amato molto i disegni di quella rivista; più surreali erano, più gli piacevano. In particolare si era entusiasmato per il disegno di un pezzo degli scacchi posto accanto a un cactus del deserto con la scritta: «Pedone ad Albuquerque, Nuovo Messico». Aveva trovato nell'abbagliante splendore di quell'insensatezza uno sguardo perfetto nei confronti della vita, forse perché la sua era arrivata vicino all'insensatezza a causa della perdita di un genio abbagliante.

I ricordi si affollavano, urtavano violentemente l'uno contro l'altro.

Una discussione su Hemingway, sulla ragione per cui Hemingway si fosse sparato. Era stato nel 1961, l'anno in cui la madre di Javier era morta. Un uomo che aveva raggiunto un tale successo e che si era ucciso perché non sopportava l'idea di non riuscire più a ritornare a quel livello. Javier aveva sedici anni quando ne avevano parlato.

Javier: «Perché non si è ritirato e basta? Aveva più di sessant'anni, perché non ha appeso la penna al chiodo e non si è sistemato in una veranda al sole di Cuba a bere mojito?»

Padre: «Perché era sicuro di poter ritrovare ciò che aveva perduto, di doverlo ritrovare».

Javier: «Be', avrebbe potuto occuparsi di questo, la caccia al tesoro… un gioco che piace a tutti».

Padre: «Non è un gioco, Javier. Non è un gioco».

Javier: «Il suo posto nella letteratura era già assicurato, aveva vinto il premio Nobel. Dopo Il vecchio e il mare il suo lavoro era finito, non c'era altro da dire. Perché cercare di dire di più se…?»

Padre: «Perché aveva avuto quella cosa e l'aveva perduta. È come perdere un figlio… non si riesce mai a superarlo».

Javier: «Ma guarda te, papà. Anche a te è successo, eppure…»

Padre: «Non parliamo di me».

Falcón gettò via la rivista al pensiero della sua stupidità. Trascinò uno scatolone in mezzo alla stanza e lo aprì. Tutta quella roba accumulata in una vita, la vita di un artista che si attaccava a ogni oggetto capace di far scaturire una nuova idea! Compì qualche passo lungo gli scaffali di libri ai lati e in fondo alla stanza. «Devo bruciare anche questi?» si domandò. «È questo che vuoi? Vuoi che dia fuoco ai libri? Che li butti giù dalla galleria nel patio e accenda un falò di parole e di figure? Non è possibile che tu lo abbia voluto.» Ah, la capacità di persuasione dell'animo colpevole che sta per trasgredire!

Nella parete che dava sulla strada c'erano quattro finestroni; li aveva fatti aprire suo padre per ottenere il massimo di luce naturale, ogni finestra munita di un cancello retrattile di metallo. Lo studio era praticamente una fortezza.

Arrivò davanti alla parete di lavoro del padre e, attraverso una porta in un angolo, entrò in un locale senza finestre e illuminato da una lampadina appesa al soffitto. Lungo una parete quattro rastrelliere verticali, dove erano riposte tele e altro materiale, mentre il lato opposto era occupato quasi interamente da una cassapanca sulla quale le scatole si ammonticchiavano in pile alte quasi fino al soffitto. Un odore di muffa, di chiuso e, dopo il lungo inverno, di umido. Si avvicinò alle rastrelliere ed estrasse un foglio a caso. Era uno schizzo a carboncino di uno dei nudi di Tangeri. Ne prese un altro, un disegno a matita dello stesso nudo. Un altro e un altro ancora, ognuno una rielaborazione dello stesso soggetto, lo sviluppo di un particolare, lo studio di un angolo. Passò alle tele. Lo stesso nudo di Tangeri dipinto più e più volte, in grande, in piccolo, sempre lo stesso soggetto. Guardò nelle altre rastrelliere e scoprì che ognuna delle quattro corrispondeva a uno dei quattro famosi nudi Falcón. Centinaia di disegni e di carboncini, di oli e di acrilici.

Fu sopraffatto da una tremenda tristezza. Quei lavori, la parete di rastrelliere in quella stanza dalla luce fioca, ecco tutto ciò che restava del tentativo di suo padre di ritrovare il suo genio, di riappropriarsene, di farlo rivivere non fosse che una sola volta, non fosse che in un solo minuscolo dettaglio. Un'ondata di tristezza che faceva male, perché Falcón aveva visto, nonostante la luce patetica di quella misera lampadina, che nessuno di quei lavori conteneva qualcosa dell'eccezionale qualità degli originali. Era tutto perfetto, ma non vi era vita, né slancio, né fiamma, né vibrazione. Quelle cose erano mediocri. Erano migliori i suoi paesaggi astratti, erano migliori perfino le sue cupole e le sue finestre, le sue porte e le sue arcate. Quelle cose poteva bruciarle, poteva darle alle fiamme senza pensarci due volte.

Salito su uno sgabello, tirò giù una scatola. Pesante. Altri libri. L'aprì e frugò all'interno, tra i volumi rilegati in pelle, in tela, qualcuno di scrittori degli anni '60 e '70, altri di autori classici. Ne sfogliò uno e vide la dedica. Erano regali di ammiratori: aristocratici, ministri, registi teatrali, poeti. Aprì un'altra cassa e vi trovò porcellane accuratamente incartate. Una terza conteneva oggetti d'argento. Sigari… intatti. Portasigarette. Piccole sculture in legno. Statuette. Suo padre odiava le statuette di porcellana: ne trovò tre scatoloni pieni, le più vecchie avvolte in giornali dell'epoca, le più recenti in fogli di plastica a bolle. Si rese conto di che cosa stesse guardando. Omaggi a suo padre, piccoli doni che gli venivano offerti in qualche occasione mondana, piccole espressioni di gratitudine per il suo genio.

Altri ricordi. Viaggi con suo padre. Raramente aveva pagato un pasto o una camera d'albergo, dove trovava sempre mazzi di fiori. Se si fermavano in qualche casa privata, i proprietari lasciavano silenziose offerte di frutta per dimostrare quanto fossero stati onorati dalla visita del grand'uomo.

«Così va il mondo», diceva suo padre. «La grandezza è sempre premiata. Se io fossi un calciatore o un torero non sarebbe diverso. Si tratta sempre di genio, non importa con che cosa, con il piede, con la cappa, la penna o il pennello. Eppure… che cos'è mai? Grandi pittori possono dipingere quadri senza vita, brillanti toreri fanno disastri con magnifici tori, superbi scrittori scrivono pessimi libri, calciatori sublimi riescono a giocare da fare schifo. E allora che cos'è questo… questo volubile genio?»

Sì, l'idea lo aveva irritato moltissimo. Javier lo ricordava con la mano alzata, il pollice premuto contro l'indice con tale forza che la punta delle dita si era sbiancata. Aveva pensato stesse per dire che il genio non era nulla.

«Il genio è un interstizio.»

«Un che cosa?»

«Una breccia. Una minuscola fessura alla quale, se si è fortunati, si può mettere l'occhio per vedere l'essenza.»

«Non capisco.»

«Non puoi capire, Javier, perché tu hai la benedizione della normalità. Per il calciatore l'interstizio è il momento in cui sa esattamente, senza esserne conscio, dove si troverà la palla, come dovrà correre per raggiungerla, dove dovrà mettere i piedi, dove sarà il portiere, l'istante preciso in cui dovrà colpire il pallone. Calcoli evidentemente impossibili divengono magicamente semplici, il movimento è fluido, il tempismo sublime, l'azione così… rallentata. Lo hai notato? Hai mai notato il silenzio di quei momenti? O ricordi soltanto il ruggito mentre il pallone accarezza la rete?»

Un'altra conversazione interminabile con suo padre. Falcón scosse la testa per liberarsene. Guardò in tutte le scatole, vagamente a disagio nel constatare l'ordine metodico del padre. Francisco Falcón in genere lavorava in una grande confusione di colori, di hashish, di musica e, a Siviglia, quasi sempre di notte, eppure in quel ripostiglio regnava la pignoleria. Quasi a conferma di ciò, aprì una scatola piena fino all'orlo di banconote. Non dovette nemmeno contarle, perché un biglietto lo informò che si trattava di ottantacinque milioni di pesetas. Una grossa somma di denaro, sufficiente a comprare una piccola villa o un appartamento di lusso. Gli torno alla mente il discorso di Salgado a proposito di fondi neri. Avrebbe dovuto distruggere anche le banconote?

L'ultimo scatolone conteneva altri libri, rilegati in pelle, ma senza titolo. Anche il dorso era liscio. Ne aprì uno a caso. Le pagine erano coperte dalla scrittura nitida di suo padre. Una riga gli saltò all'occhio:

Sono così vicino.

Richiuse di scatto il volume per riaprirlo alla prima pagina: Siviglia 1970, Diari. Suo padre aveva tenuto un diario e lui non lo aveva mai saputo. La fronte era di nuovo imperlata di sudore e Falcón l'asciugò con la mano. Mano umida. Cercò di capire in che ordine erano stati riposti i diari e si rese conto che aveva tra le mani l'ultimo. Fece scorrere le pagine fino al dicembre 1972 e alle ultime parole del diario:

Sono veramente stufo ormai. Credo che smetterò.

Infilata nella cassa trovò una busta indirizzata «A Javier». Gli si rizzarono i capelli sulla nuca. L'aprì con dita tremanti. La data sulla lettera era: 28 ottobre 1999. Il giorno prima che suo padre morisse, tre giorni dopo il suo ultimo testamento.


Caro Javier,

se stai leggendo questa lettera, significa che stai pensando di disubbidire alle istruzioni e al mio preciso desiderio contenuto nel mio ultimo testamento del 25 ottobre 1999, nel quale, nel caso tu lo abbia dimenticato, è affermato in termini molto chiari che tutto ciò che è contenuto nel mio studio deve essere completamente distrutto.

Sì, esiste una scappatoia per te, Javier, che hai una mente logica da poliziotto. Puoi aver deciso di voler ispezionare, valutare, leggere e annusare le mie cose prima di distruggerle. Tu mi conosci meglio degli altri miei figli, noi due abbiamo parlato in un modo, con una confidenza che non sono mai riuscito ad avere con Paco o con Manuela. Sai che cosa intendo dire. Sai perché ho fatto così e ho affidato tutto a te.

Tanto per cominciare, né Paco né Manuela riuscirebbero mai a bruciare 85 milioni di pesetas, ma tu sì, Javier. So che lo farai, perché sai da dove proviene questo denaro e, cosa più importante, perché sei incorruttibile.

Forse pensi che la mia grande fiducia in te ti conferisca il diritto di leggere questi diari. Naturalmente non posso fare niente per impedirtelo e va bene così, ma devo avvertirti che il loro contenuto potrebbe essere devastante. Io non ne sarò responsabile. Devi decidere tu.

I diari non sono completi, sarà necessario un lavoro da investigatore. Tu sei perfetto per questo compito, ma non prenderlo alla leggera, Javier, specialmente se ti senti forte, contento, rinvigorito dalla tua vita attuale. Questa è una piccola storia di dolore e diventerà la tua. L'unico modo di evitarlo è non cominciare.

Il tuo affezionato padre,

Francisco Falcón

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