XX

Mercoledì 18 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia


Seduto a tavola, la forchetta a mezz'aria e il piatto ancora pieno, Falcón non pensava a Ramírez, ma al Comisario León, il quale non era certamente arrivato a occupare quella posizione senza possedere un notevole talento politico. Visto che era stato uno degli amministratori della società di consulenza, che cosa poteva significare il fatto che León si tenesse al corrente delle indagini attraverso Ramírez e permettesse che si facesse pressione su Consuelo Jiménez, la quale probabilmente non sapeva niente della MCA? Falcón posò la forchetta, assalito da un'ondata di paranoia che produsse su di lui un effetto simile a nausea. Alla prima occasione lo avrebbero allontanato dall'incarico. Mentre i documenti sulla MCA restavano a dormire in un cassetto, al Comisario León andava molto bene che si continuasse a bussare alla robusta porta della signora Jiménez: se fossero saltati fuori, per lui sarebbe stata la fine.

Dopo colazione si ritrovarono per esaminare i vecchi filmini di Raúl Jiménez che Pérez aveva prelevato alle Mudanzas Triana. Il poliziotto aveva riferito che il magazzino aveva un solo ingresso e che tutti i depositi a lungo termine si trovavano in un'unica area sul retro dell'edificio. Ogni cliente aveva a disposizione uno spazio chiuso a chiave per riporvi mobili e casse sigillate da un nastro adesivo sul quale era apposta la data del deposito, in modo da rendere evidente un'eventuale apertura delle stesse. Le casse lasciate da Raúl Jiménez erano là da lungo tempo. Tutto il personale delle Mudanzas Triana aveva accesso al magazzino, ma soltanto il capodeposito aveva le chiavi degli spazi privati e nessuno poteva accedervi senza che egli fosse presente. Le chiavi si trovavano in una cassaforte nel suo ufficio. Di notte il magazzino era sorvegliato da due guardie notturne con i cani. Negli ultimi quarant'anni avevano avuto luogo quattro tentativi di scasso, ma non era stato rubato niente di importante, dato che ogni volta i ladri erano stati interrotti a metà dell'opera.

Falcón fu contento che Pérez fosse presente per sostenere l'urto dei commenti di Ramírez. Non aveva previsto di lasciarsi emozionare tanto dalle tremolanti immagini in bianco e nero della vita precedente di Raúl Jiménez, un'esistenza più felice. Mai era arrivato a commuoversi nel buio di un cinema: le storie inventate non riuscivano a coinvolgerlo, ne aveva sempre avvertito l'inganno e si era ogni volta rifiutato di farsi prendere dalle emozioni a comando, tanto da non versare mai una sola lacrima.

Ora, però, avendo conosciuto i protagonisti in un modo tanto personale, nell'oscurità osservava con animo diverso José Manuel e Marta giocare sulla spiaggia mentre le onde tranquille si ripiegavano sulla sabbia. La moglie di Raúl, Gumersinda, entrò nell'inquadratura, si girò e tese le braccia. Sopraggiunse di corsa dietro di lei il piccolo Arturo, raggiunse le braccia che lo attendevano e la madre lo afferrò e lo sollevò in alto, al di sopra della sua testa, le gambette ciondolanti mentre il bambino, deliziato e felice, guardava il viso sorridente di lei. Arturo venne alzato verso il cielo e lo stomaco di Falcón si contrasse: ricordava quell'emozione. Dovette farsi forza per trattenere le lacrime, oppresso dal peso della tragedia che aveva fatto a pezzi quella famiglia.

Non riusciva a comprendere la sua emotività nei confronti di quella gente. Era venuto a contatto con altre famiglie devastate da omicidi o abusi sessuali, dalla droga o da episodi di violenza estrema. Perché la famiglia Jiménez aveva su di lui quell'effetto? Doveva assolutamente parlarne con qualcuno prima che la disperazione cominciasse a scaturire da lui liberamente, senza più freni. Alicia Aguado… avrebbe funzionato?

Nella stanza si riaccesero le luci. Ramírez e Pérez si girarono verso il loro superiore.

«C'è una quantità di questa roba», disse Ramírez. «Che cosa stiamo facendo esattamente, Inspector Jefe?»

«Stiamo aggiungendo qualcosa al profilo del nostro assassino», rispose Falcón. «Abbiamo di lui una certa idea per quanto riguarda il fisico grazie agli ingrandimenti delle riprese del cimitero. Ci è stato detto che è guapo e che ha belle mani. Fisicamente, perciò, sta prendendo forma. Psicologicamente: abbiamo detto che è creativo e che ama scherzare, sappiamo che si interessa di cinema e sappiamo che ha studiato a fondo la famiglia Jiménez…»

Scoprì a quel punto di non sapere come continuare. Perché mai stavano guardando quei filmini?

«La cassa dov'erano custoditi era sigillata», disse Pérez; e lo aveva già affermato nel rapporto. «Non hanno più visto la luce del giorno da quando sono stati chiusi là dentro.»

«Ma quale giorno!» riprese Falcón, parlando come un uomo che, sul punto di affogare, si aggrappasse a una canna galleggiante. «Il giorno in cui ha scacciato il ricordo di suo figlio dalla memoria.»

«Ma che cosa aggiunge questo al profilo dell'assassino?» domandò Ramírez.

«Stavo pensando alle terribili lesioni che si è inferto Jiménez», riprese Falcón. «Si era rifiutato di vedere qualcosa alla televisione ed è stato allora che gli hanno strappato le palpebre. Perché vedesse che cosa? Che cosa può aver indotto Raúl Jiménez a infliggersi un simile tormento?»

«Se qualcuno avesse tagliato le palpebre a me…» cominciò Pérez.

«Avete visto il bambino, quel piccolino inerme», continuò Falcón, «lo avete udito strillare e gridare contento tra le braccia di sua madre… Non credete che…?»

Si interruppe. I due uomini lo stavano fissando, le facce attonite, senza capire.

«Ma, Inspector Jefe», disse Pérez, «non c'era il sonoro.»

«Lo so, Subinspector…» Ma Falcón non lo sapeva e la sua mente si svuotò di colpo, assalita dal panico, tanto che non riuscì nemmeno a ricordare il nome del suo collega. Non riuscì a pensare a un'altra parola che potesse seguire quelle che aveva appena pronunciato; era diventato ciò che temeva di più, l'attore ormai capace soltanto di recitare la parte di se stesso nella sua propria vita.

Tornò alla realtà, come se la bolla nella quale si era rinchiuso fosse scoppiata e la vita vera fosse rifluita fino a lui. Gli altri due si erano alzati e stavano smontando lo schermo. Con sorpresa Falcón si accorse che erano quasi le nove di sera. Doveva uscire di lì, ma occorreva salvare qualcosa dal naufragio di quella situazione. Si avviò alla porta.

«Prepari un rapporto sui film, Subinspector…» il nome continuava a sfuggirgli. «E nel farlo voglio che usi l'immaginazione, voglio che pensi all'uomo che aveva in mano la cinepresa e al suo stato mentale a quel tempo.»

«Va bene, Inspector Jefe», disse Pérez, «ma lei mi ha sempre detto di riferire i fatti senza cercare di interpretarli.»

«Faccia del suo meglio», ribatté Falcón. Uscì.

Cercò di inghiottire una pillola di Orfidal, ma gli rimase appiccicata al palato tanto che dovette andare in bagno per spruzzarsi acqua in bocca e sulla faccia accaldata. Mentre si asciugava gli parve di non riconoscere i suoi occhi nello specchio: erano gli occhi di un altro, due cose cerchiate di rosso, velate, affondate nelle orbite, che cercavano di nascondersi nel suo cranio. Stava perdendo autorevolezza, nessuno avrebbe mai potuto rispettare occhi così.

Uscì dalla Jefatura nell'aria fresca della sera, guidò fino a casa e si avviò a piedi verso calle Vidrio e l'abitazione della dottoressa Alicia Aguado, dove arrivò poco prima delle dieci, l'ora del suo appuntamento. Passeggiò avanti e indietro davanti all'edificio restaurato da poco, nervoso come un attore prima di un'audizione, finché non ne poté più e si decise a suonare il campanello. La dottoressa aprì e Falcón salì una rampa buia fino alla luce che usciva dalla porta.

Falcón notò che sulle pareti celeste chiaro dello studio non era appeso nulla e che nella stanza c'erano solo un divano e un sedile a due posti a forma di S.

Una stanza stretta, tutta la casa piccola e contenuta, tanto da fargli sembrare assurda la sua; gli comunicò l'impressione di una testa piacevolmente ben organizzata, laddove la sua era diventata una follia bizantina, dispersiva, dalle mille stanze, a più piani, cavernosa, piena di balconi, barocca: era come un manicomio dove un unico internato si tenesse nascosto finché non fosse sceso il silenzio…

Alicia Aguado aveva capelli neri corti, il viso pallido senza alcuna traccia di trucco. Gli tese la mano, ma senza guardarlo in faccia. Le loro dita si toccarono e la donna gli disse: «Il dottor Valera non l'ha informata del fatto che sono ipovedente».

«Mi ha solo garantito che non si interessava di pittura.»

«Vorrei poterlo fare, ma sono in queste condizioni da quando avevo dodici anni.»

«Quali condizioni?»

«Retinite pigmentosa.»

«Non ne ho mai sentito parlare», ammise Falcón.

«Si tratta di cellule pigmentate anomale che senza una ragione definita si depositano a chiazze sulla retina», spiegò la donna. «I sintomi hanno inizio con la cecità notturna per concludersi, a grande intervallo di tempo, con la cecità completa.»

Javier, paralizzato, continuò a stringerle la mano finché lei non la liberò lentamente, indicandogli il sedile a forma di S.

«Bisogna che le spieghi alcune cose sul mio metodo», disse poi, sedendo accanto a lui ma allo stesso tempo di fronte, sul sedile appositamente realizzato. «Non posso vedere con chiarezza la sua faccia e le persone comunicano molto con il viso. Come forse sa, siamo 'programmati' per questo fin dalla nascita. Ciò significa che devo usare altri metodi per registrare le sue emozioni. È un metodo simile a quello dei medici cinesi che si affidano alle pulsazioni cardiache. Così noi stiamo seduti su questo strano divanetto, lei appoggia il braccio qui al centro, io le tengo il polso e lei parla. La sua voce sarà incisa per mezzo di un registratore posto nel bracciolo. È d'accordo su tutto questo?»

Falcón annuì, cullato dalla calma autorevolezza della donna, dal suo volto placido, dagli occhi verdi che non vedevano.

«Parte del mio metodo è che raramente induco a conversare, lei parla e io ascolto, questa è l'idea. Al massimo posso cercare di indirizzare i suoi pensieri o di farla ripartire nel caso arrivasse a un punto morto. Però sarò io a darle il via.»

Girò un interruttore sul lato del sedile, facendo entrare in azione il registratore, quindi posò la mano sul polso di Falcón e lo strinse, una stretta esperta ma gentile.

«Il dottor Valera mi ha riferito che lei mostra i sintomi dello stress e io sento che ora lei è ansioso. Valera ha detto che il cambiamento nel suo equilibrio emozionale è cominciato all'inizio di un'indagine su un delitto particolarmente brutale. Mi ha parlato anche di suo padre e della riluttanza che lei ha nei confronti dei terapeuti che possono conoscere le opere di Francisco Falcón. Riesce a pensare al motivo per cui quel primo incidente… che cosa c'è?»

«Come?»

«Quella parola, 'incidente', le ha provocato una forte reazione.»

«È una parola che ho visto scritta nei diari di mio padre, ho appena cominciato a leggerli. Si riferisce a un fatto accaduto quando lui aveva sedici anni e che lo ha indotto a scappare di casa. Non rivela di che cosa si sia trattato.»

Avendo constatato l'efficacia del metodo, Falcón dovette farsi forza per reprimere il desiderio di liberarsi dalla mano che gli teneva il polso: a quanto pareva Alicia Aguado non soltanto era in sintonia con l'anatomia umana, ma sapeva captare anche le contorsioni dell'anima.

«Crede sia stato per questo che ha scritto un diario?»

«Intende dire per liberarsi dell'incidente?» rispose Falcón. «Non credo fosse quella la sua intenzione. Non avrebbe nemmeno cominciato, io penso, se un suo compagno non gli avesse regalato un diario su cui scrivere.»

«Talvolta queste persone ci vengono inviate.»

«Come a me è stato inviato questo assassino?»

Silenzio, mentre le parole venivano assorbite.

«Tutto ciò che verrà detto in questo studio è materia di segreto professionale, incluse anche le informazioni di polizia. Le registrazioni su nastro vengono chiuse in cassaforte», lo informò la donna. «Ora voglio che mi parli di come è cominciato.»

Le raccontò della faccia di Raúl Jiménez, come l'assassino avesse voluto costringere Jiménez a guardare qualcosa che l'uomo si era rifiutato di vedere. Non le risparmiò nessun dettaglio nel descriverle la sensazione che la vittima doveva aver provato ritornando in sé dopo che le palpebre gli erano state asportate e le spiegò come questo, unito all'orrore di ciò che l'assassino gli stava mostrando, avesse indotto Raúl Jiménez a spaventose automutilazioni. Credeva che il proprio crollo nervoso fosse cominciato nel momento in cui aveva visto quella faccia e il terrore di un uomo costretto ad affrontare l'orrore supremo.

«Ritiene che l'assassino veda se stesso in una veste professionale?» gli domandò la donna. «Come uno psicologo o uno psicoanalista?»

«Ah», disse Falcón, «intende dire che io lo vedo così?»

«È la verità?»

Silenzio, finché Alicia non decise di prendere le redini in mano.

«Lei ha fatto un collegamento tra questo omicidio e suo padre.»

Falcón le parlò allora delle fotografie di Tangeri che aveva trovato nello studio di Raúl Jiménez.

«Anche noi abbiamo vissuto là nello stesso periodo», spiegò, «e ho pensato di poter trovare mio padre in quelle foto.»

«Niente altro?»

Javier allargò e piegò le dita della mano, a disagio al pensiero delle informazioni che stavano scorrendo nel suo polso.

«Ho pensato anche che forse vi avrei trovato mia madre», disse. «È morta a Tangeri nel 1961, quando io avevo cinque anni.»

«L'ha trovata?» domandò Alicia dopo qualche momento.

«No. Ho trovato invece sullo sfondo di un'istantanea mio padre che baciava la donna che poi è diventata la mia seconda madre… voglio dire, la sua seconda moglie. La data sul retro era precedente alla morte di mia madre.»

«L'infedeltà non è una cosa tanto insolita.»

«Mia sorella sarebbe d'accordo con lei. Ha detto che mio padre 'non era un angelo'.»

«Questa cosa ha avuto un effetto sul modo in cui lei vede suo padre?»

Falcón si sorprese a pensare attivamente: per la prima volta nella sua vita si stava realmente addentrando nelle strette vie lastricate della sua mente. Il sudore gli imperlò la fronte. L'asciugò.

«Suo padre è morto due anni fa. Gli era molto vicino?»

«Credevo di esserlo. Ero il suo preferito. Io… io… ora sono confuso.»

Le parlò del testamento, del desiderio espresso da suo padre che lo studio fosse distrutto e di come gli stesse disubbidendo a causa dei diari che aveva cominciato a leggere.

«Trova strano il desiderio di suo padre?» domandò lei. «In genere gli uomini famosi vogliono lasciare qualcosa per la posterità.»

«Una sua lettera mi avvertiva che avrebbe potuto essere un viaggio pericoloso.»

«Allora perché lo ha intrapreso?»

Falcón finì, nella sua mente, in una strada senza uscita, contro un muro bianco e piatto di panico. Il suo silenzio si fece più profondo.

«Che cosa ha detto di aver trovato così agghiacciante nella morte della vittima?» domandò Alicia.

«Che era stato costretto a guardare…»

«Ricorda chi cercasse lei nelle foto della vittima?»

«Mia madre.»

«Perché?»

«Non lo so.»

Nel silenzio che seguì Alicia si alzò, accese un bollitore elettrico e preparò una tisana, cercò a tentoni delle tazze cinesi, versò la bevanda e tornò a stringergli il polso.

«È interessato alla fotografia?» gli domandò.

«Lo ero fino a poco tempo fa», rispose Falcón. «In casa ho perfino una camera oscura. Mi piace la fotografia in bianco e nero, mi piace sviluppare le mie immagini.»

«Che cosa cerca, che cosa vede nella fotografia?»

«Vedo una memoria.»

Le disse dei filmini che aveva visto quel pomeriggio, di come lo avessero fatto piangere.

«Andava spesso al mare da bambino?»

«Oh, sì, a Tangeri la spiaggia era proprio attaccata alla città… voglio dire, era praticamente in città. D'estate ci andavamo tutti i pomeriggi. Mio fratello, mia sorella, mia madre, la nostra domestica e io. Qualche volta eravamo solo mia madre e io.»

«Lei e sua madre.»

«Si sta chiedendo dove fosse mio padre?»

Alicia non replicò.

«Mio padre lavorava, aveva uno studio affacciato sulla spiaggia. Ogni tanto io andavo a trovarlo nello studio. Lui ci osservava, però, questo lo so con precisione.»

«Vi osservava?»

«Aveva un binocolo. Qualche volta me lo lasciava usare, mi aiutava a individuarli… la mamma, Manuela e Paco sulla spiaggia. Diceva che quello era un segreto fra noi. 'E il mio modo di tenervi d'occhio.'»

«Tenervi d'occhio?»

«Le ho dato l'impressione che ci spiasse?» domandò Falcón. «Ma non ha senso! Perché un uomo dovrebbe spiare la sua famiglia?»

«In quei film di famiglia che ha visto oggi si vedeva il padre?»

«No, era dietro la cinepresa.»

Gli chiese perché avesse guardato quei film e Falcón le raccontò tutta la storia di Raúl Jiménez. La donna lo ascoltò affascinata, interrompendolo solo per cambiare il nastro.

«Ma perché ha guardato quei film?» gli domandò di nuovo alla fine del racconto.

«L'ho appena detto», rispose Falcón, «è quasi mezz'ora che…»

Si fermò per riflettere a lungo, minuti di una complessità interminabile.

«Le ho detto che per me la fotografia è memoria», disse. «Sono attirato dalle fotografie perché ho un problema di memoria. Le ho detto che andavo al mare con la mia famiglia, ma in realtà io non lo ricordo. Non lo vedo. Non si tratta di qualcosa che è dentro di me e che posso richiamare alla memoria. Ho dovuto inventare per riempire i vuoti. So che andavamo sulla spiaggia, ma non lo ricordo come una mia esperienza. Ha senso quello che dico?»

«Perfettamente.»

«Voglio vedere i film e le foto per stimolare la mia memoria», continuò Falcón. «Quando ho parlato con lui della sua tragedia familiare, José Manuel Jiménez mi ha detto di avere difficoltà a ricordare la sua infanzia Io ho provato a pensare al mio primo ricordo e sono stato preso dal panico, perché sapevo che non c'era.»

«Ora può rispondere alla domanda che le ho rivolto prima? Perché legge quei diari?»

«Sì, sì!» esclamò Falcón, come se qualcosa fosse scattato in lui. «Sto disubbidendo a mio padre perché penso che i diari possano contenere i segreti della mia memoria.»

Il registratore si spense. Nella stanza si diffusero i rumori distanti della città. Falcón aspettò che Alicia cambiasse il nastro, ma la donna non si mosse.

«Per oggi basta così», disse.

«Ma abbiamo appena cominciato!»

«Lo so. Ma non riusciremo a sciogliere i suoi nodi in una seduta. È un processo lungo. Non esistono scorciatoie.»

«Ma siamo… abbiamo cominciato a toccare i punti…»

«Proprio così. È stata una buona prima seduta», disse Alicia. «Voglio che lei rifletta un po', voglio che si interroghi sulle somiglianze tra la famiglia Jiménez e la sua, se ne vede qualcuna.»

«Entrambe le famiglie hanno lo stesso numero di figli… io ero il minore…»

«Non ne parleremo adesso.»

«Ma ho bisogno di fare progressi!»

«Li ha fatti, ma la mente umana può sopportare solo una certa quantità di realtà. È necessario che si abitui.»

«Realtà?»

«È ciò che ci stiamo sforzando di raggiungere.»

«Ma dove siamo ora, se non nella realtà?» domandò Falcón, spaventato da quel pensiero. «Non so chi sia immerso nella realtà più di me, sono un investigatore della squadra omicidi, il mio lavoro riguarda la vita e la morte, non si può essere a contatto con la realtà più di così.»

«Ma non è la realtà di cui stiamo parlando.»

«Mi spieghi.»

«La seduta è finita.»

«Mi spieghi solo questo!»

«Farò un esempio fisico», disse Alicia.

«Quello che vuole… Devo capire.»

«Dieci anni fa ruppi un bicchiere e, mentre stavo raccogliendo i pezzi, una minuscola scheggia mi entrò nel pollice. Non riuscii a estrarla, ma il medico preferì lasciarla stare per timore di ledere un nervo. Nel corso degli anni ogni tanto il dito mi faceva un po' male, ma niente di più, e nel frattempo il corpo si difendeva da quel pezzetto di vetro, avvolgendolo in strati di pelle fino a farlo diventare come un sassolino. Poi, un giorno, il corpo estraneo fu espulso dal corpo, il sassolino salì verso la superficie e, con l'aiuto di un po' di solfato di magnesio, uscì dal pollice.»

«E questa sarebbe la sua spiegazione sulla specie di realtà di cui stiamo parlando?»

«Le schegge di vetro possono entrare anche nella mente», ribatté Alicia e la sola idea diede la nausea a Falcón. «Talvolta queste schegge sono troppo dolorose per poterle affrontare e le cacciamo nel fondo del nostro cervello, pensando di poterle dimenticare, nascondendole sotto strati numerosi di… bugie. Così le teniamo a bada, finché un giorno accade qualcosa e, senza nessuna ragione apparente, la scheggia comincia a risalire verso la nostra parte conscia. La differenza è che non possiamo applicare il solfato di magnesio per far uscire la scheggia di vetro dall'inconscio.»

Falcón si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro nella stanza. L'idea di quelle minuscole schegge che affioravano alla superficie lo stava spaventando, quasi gli sembrava di sentirle scricchiolare nella testa come… come ghiaccio che si fendesse. Un'altra analogia fisica?

«Lei ha paura», disse Alicia. «È del tutto normale. Non è una cosa facile, richiede un grande coraggio. Ma la ricompensa finale è enorme, è la vera pace interiore e la rinascita a ogni possibilità.»

Falcón ridiscese le scale, allontanandosi dalla luce della porta di Alicia per uscire nella strada buia, riflettendo su quell'ultima frase: la psicoterapeuta aveva pensato, evidentemente, che la fine di ogni possibilità fosse per lui molto vicina, bisognava accettare questo fatto.

S'incamminò di fretta accanto a un gruppo di giovani diretti in centro. La maggior parte delle vie era deserta, ancora in preda ai postumi dell'estasi e degli eccessi della Semana Santa. I bar, chiusi, avrebbero riaperto soltanto l'indomani, i sevillanos tornati finalmente ai ritmi della vita normale. Si ritrovò a percorrere piazze in genere piene di gente anche durante la settimana e ora silenziose e buie, dove si udiva solo qualche voce staccata, come se fosse molto più tardi e gli addetti alla pulizia delle strade stessero commentando la partita di calcio della sera prima. Falcón aveva la sensazione che la sua mente fosse libera dalla dispersione della vita quotidiana, quando non si riusciva a riflettere con calma su nulla e ogni azione generava la successiva.

Le voci tacquero. Javier non provava nessun desiderio di tornare a casa e decise che avrebbe continuato a camminare così ancora per qualche ora. Cominciò a pensare alla famiglia Jiménez, confrontandola con la sua. Sì, anche la sua famiglia era stata distrutta… no, distrutta era un'esagerazione. La morte improvvisa di sua madre non li aveva distrutti, ma danneggiati sì, come quelle sottilissime crepe sulla superficie della porcellana. Rivide il viso sconvolto del padre mentre il suo sguardo passava da Paco a Manuela a Javier; e in certo modo rivide anche se stesso, l'espressione sgomenta, la bocca spalancata, incapace di ritrovare il respiro dopo che gli era stato portato via tutto il suo mondo. Quei pensieri fecero affiorare in lui qualcosa di oscuro e di terribile, tanto che accelerò il passo sul selciato rilucente come seta.

Gli vennero alla mente giorni migliori, il ricordo gioioso di Mercedes, la donna che sarebbe diventata la seconda moglie di suo padre. Javier le aveva subito voluto bene. E ora il suo sentimento era imbrattato dalla fotografia trovata nell'appartamento di Raúl Jiménez: suo padre aveva una relazione con lei da prima della morte della moglie. Un pensiero che smosse in lui qualcosa di più terribile ancora, e Falcón si mise quasi a correre attraversando la plaza Nueva, i tronchi e i rami degli alberi avvolti in luci magiche. Era Natale ogni giorno ormai. Fissò con aria assente le vetrine perfettamente illuminate di Max Mara, i modelli su manichini perfetti. Si augurò una vita meno complicata, dove non vi fossero quei pensieri e quelle emozioni che lo scorticavano dentro, lasciandolo esternamente quasi intatto, ma sanguinante dentro come dopo l'esplosione di una bomba.

Il sudore gli sprizzava dalla fronte mentre percorreva quasi di corsa calle Zaragoza; gli parve di avvertire un certo appetito e pensò di andare da El Cairo per una tapa di merluza rellena de gambas. Avrebbe preferito sangre encebollada, ma, in una sera come quella, per un piatto a base di sanguinaccio e cipolle sarebbe occorso uno stomaco più robusto. Passò davanti alla galleria di Ramón Salgado, con una sola scultura illuminata nella vetrina. Poco più in là, in una tipica casa sivigliana, era stato aperto un caffè con un ristorante di lusso al piano superiore, frequentato da uomini d'affari e da avvocati con le mogli e le amiche.

Illuminata di spalle, in piedi sull'ultimo gradino della scala, c'era Inés. Qualcuno la stava aiutando a infilarsi il cappotto. Aveva i capelli raccolti sulla nuca e si pettinava così soltanto quando voleva essere attraente e sexy, mai per occasioni di lavoro. Falcón non riuscì a vedere in faccia l'uomo che era con lei mentre i due uscivano dal locale e si avviavano lungo la strada buia, tenendosi a braccetto, in direzione della Reyes Católicos. Nessun altro con loro, era stata una cena per due. Inés si voltò, fermandosi un istante, e Falcón si immobilizzò, poi i tacchi alti risuonarono sul selciato mentre lei affrettava il passo per raggiungere il compagno. Javier li seguì tenendosi sull'altro lato della strada, la fame e la stanchezza scomparse ora che la mente aveva ricevuto quel nuovo combustibile.

La coppia attraversò la Reyes Católicos, passando davanti al bar La Tienda, chiuso, poi tagliò per i vicoli verso calle Bailén e girò dietro il museo sbucando sulla piazza, così che Falcón dovette tenersi a distanza finché non li ebbe visti scomparire nella calle San Vicente. Dopo qualche momento li seguì, ma la via era ormai deserta. La percorse avanti e indietro per un centinaio di metri, domandandosi se non avesse immaginato tutto quanto o se l'uomo non avesse un appartamento lì, in quella strada, a meno di un chilometro daña via in cui abitava Falcón.

Si ritirò in casa, la fame sparita, in preda allo sfinimento della sconfitta, in rotta come un intero esercito. La doccia non servì che a farlo sentire più pulito. Prese una pillola per dormire e si infilò sotto le coperte, rimanendo a fissare il soffitto che pareva arretrare all'infinito, ipnotizzato come se fosse stato al centro di una strada fra i bagliori accecanti dei fari. Si disse che doveva resistere, che era pericoloso addormentarsi al volante, non più in grado di capire dove fosse, tanto grande era la confusione nella sua testa. Protese una mano, aspettandosi che tutto quanto sfuggisse al controllo, che all'improvviso il suo campo visivo includesse uno sbarramento, una sponda, un albero fatale contro cui schiantarsi. Volò nel sonno come attraverso un parabrezza, dentro la notte.

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