I

Giovedì 12 aprile 2001, Edificio Presidente,

Los Remedios, Siviglia


Era cominciato tutto nel momento in cui, entrando nella stanza, aveva visto quella faccia.

La chiamata era arrivata alle 8.15, nel momento preciso in cui stava per uscire di casa: un cadavere, sospetto omicidio, e l'indirizzo.

Semana Santa. Alla fine era giusto che si verificasse almeno un omicidio durante la Settimana Santa; non che ciò potesse sortire qualche effetto sulla folla che seguiva le quotidiane processioni delle Vergini trasportate verso la cattedrale sulle loro piattaforme.

Aveva guidato l'auto fuori dall'imponente casa che era appartenuta a suo padre nella calle Bailén e le gomme erano sobbalzate rumorosamente sui ciottoli delle viuzze deserte di una città sempre riluttante a svegliarsi in qualsiasi stagione dell'anno, ma particolarmente silenziosa a quell'ora, durante la Settimana Santa. Arrivato sulla piazza di fronte al Museo de Bellas Artes, le case imbiancate a calce e incorniciate in ocra silenziose dietro le palme, i due colossali alberi della gomma e le alte jacarande non ancora fiorite, aveva aperto il finestrino, permettendo all'aria del mattino di entrare, ancora fresca di rugiada. Era sceso fino al Guadalquivir e aveva percorso il paseo de Colón, fiancheggiato da alberi. Superando le porte rosse della puerta del Príncipe nella facciata barocca della Plaza de Toros — La Maestranza, che stava per vedere le prime corride nella settimana della Feria de Abril — aveva provato quasi un moto di soddisfazione.

Era la sensazione più vicina alla felicità che gli era consentito nutrire in quei giorni, un'impressione che aveva avvertito di nuovo mentre voltava a destra dopo la Torre del Oro e, lasciandosi alle spalle il centro storico della città, attraversava il fiume velato di nebbia tra i raggi del sole mattutino. Giunto alla plaza de Cuba aveva abbandonato l'abituale itinerario per andare al lavoro e aveva percorso la calle Asunción. In seguito aveva cercato di ritrovare quei momenti, perché erano stati gli ultimi di una vita fino allora tutto sommato soddisfacente, o almeno così aveva creduto.

Il nuovo, e giovanissimo, Juez de Guardia, il magistrato di servizio che lo aveva aspettato nell'ingresso ben tenuto, di marmo bianco, del grande e lussuoso appartamento di Raúl Jiménez al sesto piano dell'Edificio Presidente, aveva cercato di avvertirlo. Questo lo ricordava.

«Si prepari, Inspector Jefe», gli aveva detto il magistrato.

«A che cosa?» aveva domandato Falcón.

Nel silenzio imbarazzato che era seguito, l'ispettore capo Javier Falcón aveva studiato attentamente l'abito del Juez de Guardia. Di un sarto italiano, aveva pensato, o di un noto stilista spagnolo, qualcuno sul genere di Adolfo Domínguez, forse. Costoso per un magistrato giovane come Esteban Calderón, trentasei anni e nominato da appena un anno.

Vista l'apparente flemma di Falcón, Calderón aveva deciso di non apparire ingenuo di fronte al quarantacinquenne Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla, che vantava un'esperienza più che ventennale di gente assassinata a Barcellona, Saragozza, Madrid e, ora, anche a Siviglia.

«Lo vedrà», aveva detto, stringendosi nelle spalle con un gesto nervoso.

«Devo procedere, allora?» aveva domandato Falcón, attenendosi al protocollo poiché era la prima volta che lavoravano insieme.

Calderón aveva annuito e gli aveva detto che la Policía Científica se n'era appena andata: poteva procedere con il primo esame della scena del delitto.

Falcón aveva percorso il corridoio che portava dall'ingresso allo studio di Raúl Jiménez, cercando di prepararsi psicologicamente ma senza sapere come farlo. Davanti al soggiorno aveva aggrottato la fronte, perplesso: la stanza era completamente vuota. Si era girato verso Calderón che, in quel momento, gli voltava le spalle, intento a dettare qualcosa alla secretaria del Juez mentre il Médico Forense ascoltava. Falcón si era affacciato alla sala da pranzo e aveva trovato vuota anche quella.

«Stavano traslocando?» aveva domandato.

«Claro, Inspector Jefe», aveva risposto Calderón, «gli unici mobili rimasti nell'appartamento sono un letto nella camera di uno dei ragazzi e quelli dello studio del signor Jiménez.»

«Significa che la signora Jiménez si trova già nella nuova casa con i figli?»

«Non ne siamo sicuri.»

«Il mio assistente, l'Inspector Ramírez, sarà qui a minuti. Lo mandi subito da me.»

Falcón aveva continuato fino alla fine del corridoio, all'improvviso consapevole dell'eco prodotta da ogni passo sul parquet dell'appartamento vuoto, lo sguardo ipnotizzato da un gancio che spuntava dalla parete nuda all'estremità del corridoio. Sotto di esso un riquadro appariva più chiaro della superficie circostante, un dipinto o uno specchio tolto da poco. Falcón si era infilato i guanti da chirurgo, tirandoli su fino ai polsi e flettendo le dita, poi era entrato nello studio e, alzando lo sguardo, si era trovato davanti il viso orripilante di Raúl Jiménez che lo fissava.

Era cominciato tutto allora.

E non perché avesse ripensato a quel momento rendendosi conto solo in seguito che aveva rappresentato una svolta. Il cambiamento non era stato così sottile. Dentro di lui era scattato qualcosa che si era fatto sentire immediatamente. Il sudore gli aveva bagnato le mani all'interno dei guanti ed era comparso in un punto della fronte, proprio sotto l'attaccatura dei capelli; il battito rumoroso del cuore lo aveva paralizzato e l'ossigeno nell'aria aveva cominciato a scarseggiare. Iperventilazione per qualche secondo, un pizzico sulla gola per agevolare l'inspirazione: il corpo gli stava comunicando che doveva avere paura, mentre il cervello lo rassicurava affermando che non ne aveva motivo.

Un cervello che ora stava procedendo alle consuete osservazioni spassionate tipiche dei poliziotti di fronte ai cadaveri. Falcón notò che i piedi di Raúl Jiménez erano nudi, le caviglie legate alle gambe della sedia, qualche mobile fuori posto in contrasto con il resto della stanza. I segni sul costoso tappeto persiano indicavano qual era stata l'abituale posizione della sedia. Il cavo del televisore era teso, perché il mobiletto con le ruote si trovava a qualche metro di distanza dalla presa nell'angolo. Per terra, accanto alla scrivania, un pezzo di stoffa arrotolato, forse un paio di calzini sporchi di saliva e di sangue. Le finestre con i doppi vetri erano chiuse, le tende tirate. Sulla scrivania un voluminoso posacenere di steatite zeppo di cicche e di filtri interi, puliti, tagliati dalle sigarette del pacchetto posato lì accanto, sigarette marca Celtas. Economiche. Le più economiche. Solo il prodotto meno costoso per Raúl Jiménez, proprietario di quattro fra i ristoranti più frequentati di Siviglia, nonché di altri due a Sanlúcar de Barrameda e a Puerto Santa María, sulla costa. Solo ciò che di più economico si poteva trovare per Raúl Jiménez, nel suo appartamento da novanta milioni di pesetas nel quartiere di Los Remedios, con la vista sulla zona della Feria e con le foto delle celebrità alla parete dietro la scrivania dagli intarsi in pelle. Raúl con il torero El Cordobés. Raúl con la presentatrice TV Ana Rosa Quintana. Raúl, mio Dio, Raúl con un coltello da cucina in mano dietro un jamón che doveva essere un Pata Negra di prima qualità, visto che accanto a lui c'erano Antonio Banderas e una Melanie Griffith dall'aria sgomenta, con quel piede di maiale puntato contro il suo seno destro.

Il sudore intanto non si era arrestato, anzi, stava comparendo altrove. Sul labbro superiore, sulle reni, gli scendeva dalle ascelle alla vita. Falcón sapeva ciò che stava facendo: stava fingendo, voleva convincersi che nella stanza facesse caldo, che il caffè appena preso… Non aveva preso nessun caffè.

La faccia.

Per un cadavere quella era una faccia viva. Come i santi di El Greco, con gli occhi che non ti lasciavano mai.

Lo stavano seguendo anche quelli?

Falcón si spostò di lato. Sì. Passò dall'altra parte. Assurdo. Uno scherzo della mente. Si riprese, strinse il pugno fasciato dal guanto di lattice.

Falcón scavalcò il cavo teso tra la parete e il televisore e passò dietro la sedia del morto. Diresse lo sguardo al soffitto, poi tornò a fissarlo sui capelli lanosi di Raúl Jiménez. La nuca era una matassa aggrovigliata nera e rossa, là dove aveva sbattuto ripetutamente contro lo stemma in rilievo sullo schienale. La testa era immobilizzata con un cavo elettrico che inizialmente doveva essere stato serrato con forza, ma che Jiménez, dibattendosi, aveva allentato. Il cavo era penetrato profondamente nella carne sotto le narici e aveva addirittura tagliato la cartilagine del setto, raggiungendo la parte ossea: il naso staccato pendeva sulla faccia. Il filo elettrico aveva lacerato anche la carne sugli zigomi, perché l'uomo doveva aver agitato selvaggiamente la testa.

Falcón distolse lo sguardo da quel profilo ma si ritrovò di fronte il riflesso dell'intero volto nello schermo spento. Sbatté le palpebre con l'impellente desiderio di chiudere quegli occhi, penetranti perfino nell'immagine sul televisore. Lo stomaco gli si rivoltò al pensiero delle visioni d'orrore che avevano costretto quell'uomo a fare a se stesso ciò che aveva fatto: erano forse ancora là, incise a fuoco nella retina o ancora più profondamente nel cervello come in un computer?

Scosse il capo, Falcón, non abituato a permettere che idee così bizzarre interferissero con la freddezza richiesta in un'indagine. Si spostò di nuovo per affrontare la faccia grondante sangue, non del tutto visibile da quella prospettiva, perché il mobiletto del televisore era a contatto con le ginocchia della vittima. A quel punto Javier Falcón dovette affrontare il primo cedimento fisico. Non gli si piegavano le ginocchia: nessun ordine neurologico riusciva a superare il panico che gli montava nel petto e nello stomaco. Fece ciò che gli aveva suggerito il Juez de Guardia e guardó fuori dalla finestra. Notò lo splendore della mattina di aprile, ricordò l'irrequietezza provata mentre si vestiva nella semioscurità delle persiane chiuse, lo strascico del disagio lasciato da un inverno lungo e solitario, con troppa pioggia. Tanta che perfino lui si era accorto che i giardini della città erano diventati lussureggianti e fitti come una foresta, con un rigoglio da esposizione botanica. Rivolse gli occhi sull'area della Feria che, di lì a due settimane, sarebbe stata trasformata in una Siviglia accampata, gremita di casetas, di padiglioni, per i sette giorni dedicati a mangiare, bere e ballare la sevillana fino all'alba. Trasse un profondo respiro e si chinò per fissare Raúl Jiménez in faccia.

L'effetto terribile era prodotto dai globi oculari che sporgevano dalla testa come se l'uomo soffrisse di problemi alla tiroide. Falcón si girò ancora una volta verso le foto: in nessuna di esse Jiménez aveva quegli occhi sporgenti da insetto. La causa era… Sentì come una scossa percorrergli i nervi. La palla degli occhi scoperta, il sangue colato sulla faccia, coagulato sulla mandibola… E quelle? Che cos'erano quelle cose leggere sullo sparato della camicia? Petali. Quattro petali. Carnosi, però, esotici come orchidee, con quei sottili filamenti, proprio come pigliamosche. Dei petali… lì?

Falcón barcollò all'indietro, scalciando sul bordo del tappeto e sul parquet mentre inciampava nel cavo del televisore strappando la spina dalla presa sul muro. Agitò nel vuoto mani e piedi finché non andò a sbattere contro la parete e si ritrovò seduto a gambe larghe, i muscoli delle cosce contratti, la punta delle scarpe rivolta verso il soffitto.

Palpebre. Due superiori. Due inferiori. Niente lo aveva preparato a questo.

«Tutto bene, Inspector Jefe?»

«È lei, Inspector Ramírez?» domandò, rialzandosi lentamente, con gesti maldestri.

«La Policía Científica è pronta a intervenire.»

«Faccia venire il Médico Forense.»

Ramírez scivolò via, Falcón si ricompose, comparve il medico legale.

«Aveva visto che gli hanno ta… asportato le palpebre?»

«Claro, Inspector Jefe. Il Juez de Guardia e io ci siamo dovuti accertare che l'uomo fosse morto. Ho visto che le palpebre erano state asportate e… è tutto sul mio blocco per gli appunti. Se n'è accorta anche la secretaria. Difficile non accorgersene.»

«No, no, certo… ero solo sorpreso che non mi fosse stato riferito.»

«Credo che il Juez Calderón stesse per farlo, ma…»

La testa calva del medico dondolò sulle spalle.

«Ma che cosa?»

«Credo che fosse intimidito dalla sua superiore esperienza in questo genere di cose.»

«Si è fatto un'idea della causa e dell'ora della morte?» domandò Falcón.

«L'ora, verso le quattro, quattro e mezzo di questa mattina. La causa, be', vamos a ver, l'uomo aveva superato i settant'anni, era sovrappeso, fumava come un turco sigarette alle quali toglieva il filtro e, poiché era proprietario di diversi ristoranti, direi che non disdegnava certo uno o due bicchieri di vino. Anche un giovane in buona salute avrebbe fatto fatica a sopportare una cosa del genere, quella tortura fisica e mentale. È morto in seguito a un collasso cardiaco, ne sono sicuro. L'autopsia lo confermerà… oppure no.»

Il Médico Forense tacque, imbarazzato dallo sguardo duro di Falcón e seccato dalla sua stessa stupida battuta finale. Si allontanò dalla soglia, subito occupata da Calderón e da Ramírez.

«Cominciamo», disse Calderón.

«Chi ha chiamato la polizia?»

«Il conserje», rispose Calderón. Il portinaio. «Dopo che la domestica era…»

«Dopo che la domestica era entrata, aveva visto il cadavere, si era precipitata fuori dall'appartamento e aveva preso l'ascensore fino al pianterreno…?»

«… e aveva bussato come una pazza alla porta del conserje», terminò Calderón, irritato dall'interruzione di Falcón. «Ha impiegato alcuni minuti per farla ragionare, dopodiché ha telefonato allo 091.»

«Il portinaio è salito fin qui?»

«Solo dopo l'arrivo della prima pattuglia, che ha poi messo i sigilli alla scena del delitto.»

«La porta era aperta?»

«Sì.»

«E la domestica… ora?»

«È sotto sedativi all'hospital de la Virgen de la Macarena.»

«Inspector Ramírez…»

«Sì, Inspector Jefe…?»

Tutte le conversazioni tra Falcón e Ramírez cominciavano così. Era il suo modo per ricordare all'Inspector Jefe Falcón che era venuto da Madrid a rubare il posto che Ramírez aveva sempre ritenuto suo di diritto.

«Preghi il Subinspector Pérez di andare all'ospedale e appena la domestica… Ha un nome?»

«Dolores Oliva.»

«Non appena si sarà ripresa… dovrebbe domandarle se ha notato niente di strano… Be', le solite domande. E le chieda a quante mandate era chiusa la porta e quali sono stati esattamente i suoi movimenti prima di scoprire il cadavere.»

Ramírez ripeté le istruzioni.

«Avete già rintracciato la signora Jiménez e i figli?» domandò Falcón.

«Credo che siano alloggiati all'hotel Colón.»

«In calle Bailén?» domandò Falcón: l'albergo a cinque stelle dove scendevano tutti i toreri, a soli cinquanta metri dalla sua… dalla casa del suo defunto padre, una coincidenza che, in realtà, non era una coincidenza.

«È stata inviata una vettura a prelevarla», rispose Calderón. «Vorrei completare il levantamiento del cadaver il più presto possibile e far trasportare il corpo all'Instituto Anatómico Forense prima di far salire qui la signora Jiménez.»

Falcón annuì e Calderón li lasciò al loro lavoro. I due della scientifica, Felipe, cinquantacinque anni circa, e Jorge, sulla trentina, entrarono mormorando buenos días. Falcón guardò sul pavimento la spina staccata del televisore e decise di non farne menzione. Fotografata la stanza, cominciarono a ricostruire la vicenda, mentre Jorge prendeva le impronte digitali di Jiménez e Felipe controllava il mobiletto a ruote e le due custodie vuote posate sul televisore. Si trovarono d'accordo su quale doveva essere stata la sua normale posizione e sul fatto che Jiménez abitualmente guardava la televisione da una poltrona di pelle, la cui base girevole aveva lasciato un segno circolare sul pavimento. L'assassino, dopo aver stordito Jiménez, aveva girato la poltrona di pelle sulla quale era seduta la vittima e aveva avvicinato una sedia, più adatta al suo scopo, sulla quale avrebbe potuto spostare il corpo con un solo movimento rotatorio, una sedia dallo schienale alto destinata ai visitatori. Aveva legato i polsi ai braccioli della sedia, sfilato i calzini di Jiménez per ficcarglieli in bocca e gli aveva immobilizzato le caviglie, facendo poi ruotare il sedile fino a raggiungere la posizione desiderata.

«Le scarpe sono qui sotto», annunciò Jorge, accennando al pavimento sotto la scrivania. «Un paio di mocassini rosso scuro con la frangia.»

Falcón indicò un punto particolarmente consumato del parquet davanti alla poltrona di pelle. «Gli piaceva levarsi le scarpe e sedere davanti alla TV, sfregando i piedi sul pavimento di legno.»

«Mentre guardava filmetti pornografici», disse Felipe, intento a esaminare una delle custodie. «Questo è intitolato Cara o culo.» Faccia o culo.

«Perché la posizione della sedia?» domandò Jorge. «Perché spostare tutti questi mobili?»

Javier Falcón, che si era avviato verso la porta, si girò e spalancò le braccia guardando i due della scientifica.

«Massimo effetto.»

«Un vero intrattenitore», convenne Felipe annuendo. «Su quest'altra custodia è scritto con il pennarello rosso La Familia Jiménez e nel videoregistratore c'è una cassetta con lo stesso titolo, identica scrittura.»

«Non sembrerebbe una prospettiva così orribile», osservò Falcón e tutti contemplarono per un istante il terrore e il sangue sulla faccia di Raúl Jiménez prima di tornare al loro lavoro.

«A lui lo spettacolo non è piaciuto», commentò Felipe.

«Non guardare, se non sei in grado di sopportarlo», consigliò Jorge da sotto la scrivania.

«I film dell'orrore non mi sono mai piaciuti», sentenziò Falcón.

«Neanche a me», affermò Jorge. «Non sopporto tutta quella… quella…»

«Quella? Che cosa?» domandò Falcón, stupito di provare interesse.

«Non so… la normalità, l'aspetto minaccioso che può assumere la normalità.»

«Abbiamo tutti bisogno di un po' di paura per tirare avanti», disse Falcón, osservandosi la cravatta rossa, la fronte di nuovo imperlata di sudore.

Da sotto la scrivania venne un tonfo sordo: la testa di Jorge aveva sbattuto contro il fondo.

«Joder!» Cazzo. «Sapete che cos'è questo?» domandò Jorge, sbucando da dietro la scrivania. «Questo è un pezzo della lingua di Jiménez.»

Silenzio da parte degli altri tre.

«Lo metta in un sacchetto», disse Falcón.

«Non si troverà nessuna impronta», spiegò Felipe. «Le custodie delle cassette sono pulite, il videoregistratore, il televisore, il mobiletto, il telecomando sono puliti. Questo tizio si era preparato bene.»

«Un uomo?» domandò Falcón. «Questo non lo abbiamo ancora accertato.»

Felipe inforcò un paio di occhiali fatti su misura, forniti di lenti di ingrandimento, e cominciò a esaminare minuziosamente il tappeto.

Falcón era sbalordito dal comportamento degli uomini della scientifica. Di sicuro non avevano mai visto niente di così orrido in tutta la loro carriera, non lì, non a Siviglia, eppure eccoli che stavano tranquillamente… Sfilò dalla tasca il fazzoletto perfettamente stirato e piegato in quattro e si asciugò la fronte. No, Felipe e Jorge non c'entravano affatto, il problema era suo. I due si comportavano così perché così si comportava normalmente lui e perché così lui aveva detto che occorreva comportarsi in un'indagine su un omicidio. Freddi. Obiettivi. Spassionati. Nel lavoro dell'investigatore, sentiva la propria voce dire nell'aula delle conferenze di un tempo, all'accademia, non si devono provare emozioni.

Che cosa c'era dunque di diverso nel caso di Raúl Jiménez? Perché il sudore in quella fresca mattina di aprile? Sapeva che alla Jefatura Superior de Policía in calle Blas Infante lo avevano soprannominato El Lagarto. Il ramarro. Aveva creduto che fosse per via della sua impassibilità, delle sue fattezze inespressive, della sua tendenza a fissare intensamente l'interlocutore mentre lo ascoltava. Inés, la sua ex moglie, la moglie divorziata da poco, lo aveva disilluso in proposito. «Tu sei freddo, Javier Falcón. Sei gelido come un pesce. Non hai cuore.» Che cos'era quello che stava battendo così furiosamente nel suo petto, allora? Si premette il punto corrispondente della giacca con il pollice e si rese conto di avere la mascella contratta. Felipe, chino sul tappeto, aveva alzato su di lui occhi da creatura marina.

«Un capello, Inspector Jefe», disse. «Trenta centimetri.»

«Colore?»

«Nero.»

Falcón si diresse alla scrivania per controllare la foto della famiglia Jiménez. Consuelo Jiménez, in piedi, avvolta in una pelliccia lunga fino a terra, aveva i capelli biondi pettinati all'insù, stile torta nuziale, e i tre figli maschi in posa sorridevano all'obiettivo.

«Nel sacchetto», ordinò prima di chiamare il Médico Forense. Nella fotografia Raúl Jiménez era in piedi accanto alla moglie, i denti da cavallo scoperti in un sorriso, le guance flosce: lui sembrava un nonno e la moglie una figlia. Matrimonio in età avanzata. Quattrini. Conoscenze. Falcón osservò il sorriso brillante di Consuelo Jiménez.

«Gran bel tappeto», disse Felipe, «seta, mille nodi ogni centimetro, folto, in grado di sostenere i mobili molto bene.»

«Quanto crede che pesi Raúl Jiménez?» domandò Falcón al medico legale.

«Be', direi che ora pesasse tra i settantacinque e gli ottanta chili, ma a giudicare dal ventre afflosciato deve essere arrivato a più di novanta.»

«Le condizioni del cuore?»

«Se la moglie non le conosce, il suo medico curante ne è certamente al corrente.»

«Crede che una donna abbia potuto sollevarlo dalla poltrona dov'era sprofondato, per spostarlo sulla sedia con la spalliera alta?»

«Una donna?» domandò il Médico Forense. «Pensa che sia stata una donna?»

«Non era questa la domanda, dottore.»

Il medico legale si irrigidì all'osservazione, che lo aveva fatto sentire stupido per la seconda volta.

«Ho visto infermiere addestrate a sollevare uomini molto più pesanti. Uomini vivi, naturalmente, il che rende la cosa più facile… ma non vedo perché no.»

Falcón si voltò, aveva finito con lui.

«Dovrebbe chiedere a Jorge, se vuole sapere qualcosa sulle infermiere, Inspector Jefe», disse Felipe, il deretano in aria, il naso praticamente affondato nel tappeto.

«Sta' zitto!» ribatté Jorge, seccato.

«Per quel che ne so, è tutta una questione di fianchi», riprese Felipe, «e di contrappeso delle natiche.»

«È solo teoria, Inspector Jefe», disse Jorge, «lui non ha mai avuto la possibilità di farsi un'esperienza pratica.»

«E che ne sai?» replicò Felipe, rialzandosi sulle ginocchia per afferrare un sedere immaginario, mimando l'amplesso. «Sono stato giovane anch'io.»

«Non che riusciste a combinare un gran che ai vostri tempi», obiettò Jorge. «Erano serrate come ostriche, no?»

«Le ragazze spagnole, sì», convenne Felipe. «Ma io sono di Alicante e Benidorm era a un tiro di schioppo. Tutte quelle ragazze inglesi negli anni '60 e 70…»

«Te le sei sognate», concluse Jorge.

«Sì, ho sempre fatto sogni molto erotici», ammise Felipe.

I due uomini della scientifica risero e Falcón li guardò, chini con il naso sul pavimento come maiali in cerca di ghiande, le partite di calcio e la gara a chi scopava di più che occupavano i loro cervelli. Ne fu leggermente disgustato e si girò di nuovo per studiare le foto alle pareti. Jorge accennò con il capo a Falcón e pronunciò silenziosamente la parola mariquita. Frocetto.

Risero di nuovo; Falcón li ignorò. Il suo sguardo, proprio come gli accadeva quando osservava un quadro, fu attirato dalle immagini alle estremità dell'esposizione. Si scostò dalle immagini centrali dove Raúl era ritratto con le celebrità e ne trovò una dove teneva le braccia sulle spalle di due uomini entrambi più alti e più grossi di lui: alla sua sinistra il Jefe Superior de la Policía de Sevilla, Comisario Firmín León, e alla sua destra il procuratore capo, Fiscal Jefe Juan Bellido. Sentì un peso gravargli addosso e si aggiustò la giacca, raddrizzando le spalle.

«Aha! Ora sì che ci siamo», esclamò Felipe. «Ecco qui. Un pelo del pube, Inspector Jefe. Nero.»

I tre uomini si voltarono simultaneamente verso la finestra, perché avevano udito voci soffocate dietro i doppi vetri e un rumore meccanico simile a quello di un ascensore. Al di là della ringhiera del balcone comparvero lentamente due uomini in tuta blu, uno con i capelli neri e lunghi legati sulla nuca e l'altro con i capelli a spazzola e un occhio pesto. Stavano gridando qualcosa alla squadra che manovrava l'autoscala, diciotto metri più in basso.

«Chi sono quegli idioti?» domandò Felipe.

Falcón uscì sul balcone, facendo sobbalzare i due in piedi sulla piattaforma, sollevata fin lassù dall'autogru ferma sulla strada.

«Chi diavolo siete?»

«Siamo della ditta di traslochi», risposero gli uomini, girandogli la schiena per mostrare la scritta applicata sulla tuta: MUDANZAS TRIANA TRANSPORTES NACIONALES E INTERNACIONALES.

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