XIV

Domenica 15 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia


Falcón si destò con il cuore che gli martellava nel petto, ancora sotto l'effetto dell'adrenalina. Controllò il polso: novanta. Buttò le gambe giù dal letto, esausto ancor prima di aver cominciato la giornata. Gli scottava il viso e aveva i capelli bagnati di sudore come se avesse corso tutta la notte o, meglio, tutta la mattina. Si era coricato alle quattro, non aveva voluto tornare a casa prima.

Pedalò per un'ora sulla cyclette e si convinse di stare meglio. Fece la doccia e si vestì. Là dentro il mondo esterno sembrava morto. Bevve un caffè e mangiò del pane tostato insaporito con aglio e olio, la colazione di suo padre. Salì nello studio e mise i diari in ordine di data, osservando che la qualità dei volumi diminuiva con il passare degli anni: la carta più sottile, le rilegature non più cucite ma incollate e tutto quanto più malmesso, pagine staccate, perfino. Anche la scrittura era diversa. La mano dei primi diari quasi non era riconoscibile per quella di suo padre, le lettere ammassate, gli spazi disuguali, le righe sbilenche, accenti e tildi apparentemente sparpagliati a casaccio. Una scrittura insicura, instabile, quasi da squilibrato. Nei diari successivi la mano era più uniforme, ma si era trasformata nella bella grafia che Javier conosceva soltanto dopo il trasferimento in Spagna, negli anni '60.

E qui avveniva un salto: un diario terminava con l'estate del 1959 a Tangeri e il successivo cominciava con il mese di maggio del 1965 a Siviglia. Ma tutto era accaduto in quell'intervallo, sua madre e la sua matrigna erano morte, suo padre aveva dipinto i nudi Falcón, era diventato famoso e aveva lasciato il Marocco. Mancava il diario cruciale; ma in quale modo avrebbe dovuto usare le sue tecniche di poliziotto per ritrovarlo?

Era quasi l'una ed era atteso a colazione alla finca di suo fratello Paco a Las Cortecillas, a più di un'ora di macchina da Siviglia. Gli sarebbe piaciuto cominciare la lettura, ma sapeva che avrebbe dovuto smettere quasi immediatamente. Decise di leggere solo l'inizio a mo' di antipasto, un pincho prima del gran plato.


19 marzo 1932, Dar Riffen, Marocco

Oggi compio diciassette anni e Oscar mi ha regalato questo libro con le pagine bianche che mi ha detto di riempire. È passato quasi un anno da quello che ormai chiamo «l'incidente» e ho cominciato a pensare che, se non metto giù tutto mentre ancora è nella mia mente, finirò per dimenticare chi ero. Anche se, dopo dieci mesi di addestramento e di disciplina brutale nella Legione, sono già meno sicuro di ricordarlo. Per resistere alle giornate in caserma è meglio non pensare. Per resistere alle giornate sul campo è meglio non pensare. Durante l'azione io non riesco a pensare, accade tutto troppo in fretta. Quando dormo ho un solo sogno, al quale preferisco non pensare. E così non penso affatto. Lo spiego a Oscar e lui mi dice: «Non pensi, quindi non sei». Ammesso che significhi qualcosa. Mi dice che questo diario cambierà tutto e io spero che non sia troppo tardi, già la vita prima dell'«incidente» è meno definita. Ma non ha importanza ormai. La mia istruzione non significa nulla, se non che ho imparato a leggere e scrivere, il che è molto più di quanto sappia fare la maggior parte dei tontos della mia compagnia. I miei vecchi amici significano meno per me, la mia famiglia mi ha dimenticato, come se fosse morta. Chi sono io? Il mio nome è Francisco Luis González Falcón. Il primo giorno nella Legione il capitano ci ha detto che eravamo «novios de la muerte». Aveva ragione. Io sono fidanzato con la morte, ma non nel senso che intendeva lui.


Squillò il cellulare e sua sorella Manuela gli ricordò di passarla a prendere, lamentandosi subito dopo perché Paco l'avrebbe fatta lavorare prima di pranzo, e Javier le espresse la sua comprensione, ma senza ascoltare. Quante interferenze dalle inezie della vita!

Lasciarono la città con un sole splendente e si diressero a nord sulla strada di Mérida. Una volta sulla pianura ondulata e verdeggiante, la tensione di Javier si allentò; le pressioni della città, le vie strette, la folla, le orde di turisti, la difficoltà crescente delle indagini, si lasciò tutto alle spalle. Non aveva mai invidiato a Paco il suo amore per la vita semplice, gli spazi, i tori al pascolo nei prati, ma dall'assassinio di Raúl Jiménez in poi, la città, invece di affascinarlo, lo spaventava. Non era la prima volta che s'imbatteva in una processione notturna con la Vergine illuminata dalle candele, anzi, gli era capitato anche subito dopo essersi allontanato dalla scena di un delitto, ma la cosa non lo aveva turbato affatto. Non si era mai identificato con quella che giudicava la folle Mariolatria della città, eppure, due volte in due giorni, era rimasto sconvolto da ciò che in effetti era solo un manichino su una piattaforma portata a spalla; e la sera prima si era lasciato letteralmente prendere dal panico. Il bisogno di allontanarsi da tutto ciò o, meglio, di superarlo, era frutto dell'istinto, non vi era nulla di razionale nel suo comportamento. Scosse il capo e si rilassò sul sedile mentre l'auto attraversava il tranquillo paese di Pajanosas, di un bianco abbagliante.

Non appena arrivata alla finca, Manuela si cambiò d'abito, spogliandosi del vestito Elena Brunelli di lino rosso per indossare la tuta da veterinario. Paco prese il fucile e tre proiettili di sonnifero e tutti e tre salirono sulla Land Rover per andare a cercare uno dei retintos di Paco che era stato incornato da un altro toro.

Lo trovarono da solo sotto un leccio, un toro adulto che era stato già venduto per la Feria di quell'anno. Paco mise il proiettile in canna e lo colpì all'anca. Il toro partì al trotto tra gli alberi e l'auto lo seguì, finché l'animale non si fu sdraiato sull'erba in una radura soleggiata, confuso dalla debolezza che sentiva nelle zampe posteriori. Scesero tutti dalla macchina e, mentre si avvicinavano, il toro tornò ad alzare il muso, ritrovando un resto di forza nei muscoli del collo possente. L'occhio primordiale li fissò e per un istante Javier vide dentro la testa dell'animale: non riconobbe la paura, soltanto un'immensa percezione della propria potenza, consumata a poco a poco dal tranquillante.

La testa ricadde sull'erba. Manuela disinfettò la ferita, applicò un paio di punti, praticò un'iniezione di antibiotico e prelevò un campione di sangue. Paco, parlando in continuazione, teneva strette le corna dalla punta liscia e aguzza, guardandosi intorno per vedere se vi fossero tori aggressivi in giro. Javier batté qualche colpetto affettuoso sul fianco dell'animale intontito e all'improvviso desiderò possedere quel potente senso di sé che il toro gli aveva rivelato per un attimo. Era la complessità a rendere gli uomini così fragili. Se soltanto riuscissimo a essere concentrati come quel toro, così consapevole della sua potenza, pensò, invece di avere sempre davanti agli occhi le nostre assillanti, patetiche esigenze…

Manuela iniettò uno stimolante all'animale e tutti e tre si ritirarono sulla Land Rover. Il muso si rialzò e l'animale cominciò immediatamente a recuperare le forze, avvertito dall'istinto del pericolo che correva rimanendo in quella posizione. Sulle quattro zampe ora, si concentrò, si costrinse a muoversi e, al trotto, scomparve tra gli alberi.

«Un esemplare fantastico», disse Paco. «Sarà guarito completamente per la Feria, vero, Manuela?»

«Avrà ancora la ferita, ma saprà farsi valere.» «Non devi perderlo, Javier. Lunedì 23 aprile sarà a La Maestranza e non c'è nessuno, nemmeno José Tomás che possa avere la meglio su quel toro», disse Paco. «Pepe ha saputo qualcosa?»

«Ancora niente.»

«Avrà la sua occasione, tra qui e la Feria qualcuno dovrà essere sostituito per forza, è una questione di numeri.»

Consumarono un pranzo a base di agnello, arrostito nel forno di mattoni che Paco aveva restaurato nella proprietà e dove veniva cotto il pane. Gli invitati erano una vera folla, suoceri, zii, zie, la moglie di Paco e i quattro bambini. Javier dimenticò se stesso nella riunione di famiglia e bevve una gran quantità di vino rosso, più del consueto. Dopo pranzo andarono tutti a riposare e Manuela dovette svegliare Javier che dormiva, immobile come un idolo caduto.

Stava scendendo la sera quando si avviarono all'auto, Javier ancora intontito. Paco gli teneva il braccio intorno alle spalle. Gli addii furono prolungati.

«Lo sapevate che papà era stato nella Legione?» domandò Javier.

«Quale Legione?» chiese Paco.

«El Tercio de Extranjeros, in Marocco negli anni '30.»

«Non lo sapevo», disse Paco.

«Ah!» esclamò Manuela. «Stai sgombrando lo studio. Mi domandavo quando ti saresti deciso, fratellino.»

«Sto solo leggendo certi diari che ha lasciato, tutto qui.»

«Non ci ha mai parlato di quello… della Guerra civile», osservò Paco. «Non ricordo di avergli mai sentito dire nulla sulla sua vita prima di Tangeri.»

«Fa anche menzione di un incidente…» disse Javier. «Qualcosa che sarebbe successo quando aveva sedici anni e che lo avrebbe costretto ad andare via di casa.»

Fratello e sorella scossero la tesa.

«Ce lo dirai, vero, fratellino, se mai tu dovessi trovare un altro di quei nudi scivolato dietro una cassa o una cosa del genere? Voglio dire, sarebbe solo giusto, no?»

«Ce ne sono centinaia. Scegliete pure.»

«Centinaia?»

«Centinaia di ognuno.»

«Non sto parlando di copie», obiettò Manuela.

«Nemmeno io… sono tutti 'originali', tutti dipinti da lui.»

«Spiegati meglio, fratellino.»

«Non ha fatto altro che dipingerli all'infinito, cercando di ritrovare… non so, il segreto dell'opera originaria. Sono tutti senza valore e lui lo sapeva, per questo voleva che fossero distrutti.»

«Se è stato papà a dipingerli, non possono essere senza valore», protestò Manuela.

«Non sono nemmeno firmati.»

«A questo si può rimediare», affermò Manuela. «Come si chiamava quell'orrendo individuo di cui si serviva? Un eroinomane, mi pare. Abitava dalle parti dell'Alameda.»

I due fratelli la fissarono, Javier ricordando le parole della lettera di suo padre. Manuela restituì lo sguardo, gli occhi scintillanti.

«Eh! Que cabrones sois!» disse lei, con il peggiore accento andaluso. Gli altri risero.

Javier non provò nemmeno a domandare se sapessero come mai il loro cognome fosse Falcón, cioè il cognome della loro madre da ragazza, invece di González, come sarebbe stato corretto. I diari avrebbero chiarito anche questo, Paco e Manuela non sapevano nulla.

Guidò Manuela fino a Siviglia, con Javier sprofondato in un angolo del sedile, appoggiato alla portiera. Man mano che la città invisibile si avvicinava, la tensione andava crescendo in lui, la paura si apriva una strada nelle sue viscere. La vaga luminosità arancione comparve nel cielo e Falcón si ritirò dentro la sua testa, nelle vie strette della mente, negli oscuri vicoli senza uscita dei pensieri incompiuti, nelle avenidas affollate delle cose ricordate a metà.

Tornato a casa in calle Bailén, andò dritto in cucina e bevve a collo dalla bottiglia di acqua gelida presa dal frigo. Il campanello della porta. Erano le nove e mezzo di sera, nessuno veniva mai a trovarlo a quell'ora.

Andò ad aprire. La signora Jiménez era in piedi a due metri di distanza dal portone, come se ci avesse ripensato.

«Stavo andando a prendere il mio bagaglio all'hotel Colón», spiegò. «Mi sono ricordata che lei abitava da queste parti e ho provato a vedere se era in casa.»

Una coincidenza notevole, considerando che era rientrato in quel momento.

La fece accomodare. Gli parve pettinata in modo diverso, un'acconciatura meno strutturata. Indossava un tailleur di lino nero e ciabattine di raso rosso con i tacchetti che alleggerivano quella tenuta da vedova. La donna si diresse per prima verso il patio e Falcón si avviò dietro di lei, lo sguardo sui talloni nudi e sulle gambe dai muscoli che si contraevano a ogni passo.

«Vedo che conosce la casa», osservò.

«Conosco soltanto il patio e la stanza dove suo padre mostrava i suoi lavori», spiegò la signora Jiménez. «Non ha fatto cambiamenti, mi pare.»

«Perfino i quadri sono rimasti dov'erano», disse lui, «dove li aveva esposti l'ultima volta. Encarnación li spolvera. Dovrei staccarli… sistemare le cose.»

«Mi meraviglia che non l'abbia fatto sua moglie.»

«Ha tentato. Ma io non mi sentivo ancora pronto allora, capisce, non ero pronto a spogliare completamente la casa della sua presenza.»

«Una presenza formidabile.»

«Sì, qualcuno ne era intimidito, ma non lo avrei detto di lei, signora Jiménez.»

«Sua moglie, però, forse si sentiva in soggezione… o sopraffatta. Sa, a una donna piace sistemare la casa in modo da sentirla sua e soffre un po' se…»

«Vuole dare un'occhiata?» domandò Falcón, avanzando nel patio, poco disposto a permetterle intrusioni nella sua vita privata.

Il ticchettio sexy dei tacchi risuonò sulle vecchie lastre di marmo intorno alla fontana. Falcón aprì la porta a vetri e, accesa la luce, la invitò a entrare, notando l'immediato stupore allarmato sul suo viso.

«Che c'è?» domandò.

Consuelo Jiménez fece lentamente il giro della stanza, osservando ogni dipinto, dalle cupole e i contrafforti della Iglesia de El Salvador all'Ercole sulla colonna dell'Alameda.

«Sono tutti qui!» esclamò guardandolo, stupefatta.

«Che cosa?»

«I tre quadri che ho comprato da suo padre.»

«Ah.» Falcón non fece mostra d'imbarazzo.

«Mi aveva detto che si trattava di originali.»

«Lo erano… quando li ha venduti.»

«Non capisco», disse lei, stringendosi la giacca alla vita, seccata ora.

«Mi dica, signora Jiménez, quando mio padre le ha venduto i quadri… prima le aveva offerto qualcosa da bere, qualche tapa nel patio? E poi, che cosa? L'ha presa per il gomito e l'ha portata qui, non è vero? Le ha per caso bisbigliato, stando in piedi dietro di lei: 'In questa stanza è tutto in vendita… tranne quello'?»

«È esattamente ciò che ha detto.»

«E lei ci è cascata tre volte?»

«Certo che no. Ha detto così la prima volta…»

«Ma è stato proprio quello il quadro che ha comprato, no?»

La signora Jiménez lo ignorò. «La volta dopo mi ha detto: 'Questo è troppo costoso per lei'.»

«La volta dopo ancora?»

«'La cornice è assolutamente sbagliata… non potrei mai venderglielo.'»

«E ogni volta lei ha comprato i dipinti che secondo mio padre non avrebbe dovuto o potuto comprare.»

La donna batté il piede per terra, furiosa per l'umiliazione a posteriori.

«Non si inquieti così, signora Jiménez», cercò di consolarla Falcón. «Nessun altro possiede i quadri che le appartengono, lui non era né stupido, né sbadato. Era solo un giochetto che lo divertiva.»

«Gradirei una spiegazione», disse la donna e Falcón si rallegrò di non essere un suo dipendente.

«Io posso dirle soltanto come andavano le cose, non sono mai stato certo del perché lo facesse», rispose Javier. «Non partecipavo mai ai suoi ricevimenti, rimanevo in camera mia a leggere gialli americani. Dopo che gli ospiti se n'erano andati, mio padre, che a quel punto era regolarmente ubriaco, spalancava la porta della mia stanza, che io dormissi o no, e gridava: 'Javier!', sventolandomi un fascio di banconote in faccia. Il suo incasso della sera. Se ero già addormentato borbottavo qualcosa di incoraggiante, se ero ancora sveglio gli facevo un cenno col capo al di sopra del libro. Poi lui andava dritto nello studio e dipingeva lo stesso identico quadro che aveva appena venduto. La mattina dopo era già incorniciato e appeso al muro.»

«Che individuo strano!» commentò lei, disgustata.

«Una volta sono stato a guardare mentre dipingeva quello là, il tetto della cattedrale. Sa quanto tempo ha impiegato?»

La signora Jiménez osservò il dipinto, una serie enormemente complicata di contrafforti volanti, di mura, di cupole eseguite con energia cubista.

«Diciassette minuti e mezzo», disse Javier. «Mi aveva chiesto di cronometrarlo. Era ubriaco e sotto l'effetto della droga in quel momento.»

«Ma qual era il punto?»

«Il cento per cento di utile di quella sera.»

«Ma perché un uomo come lui avrebbe dovuto…? Voglio dire, è assolutamente ridicolo. Erano cari, ma non credo di aver pagato più di un milione per nessuno dei tre. Che cosa cercava di fare? Aveva bisogno di quei soldi o qualcosa del genere?»

Silenzio mentre un vento caldo faceva il giro del patio.

«Le piacerebbe riavere i suoi soldi?» domandò Falcón.

La donna distolse lentamente lo sguardo dal quadro, girandosi verso di lui e fissandolo.

«Non li ha mai spesi», spiegò Falcón. «Nemmeno una peseta. Non li ha nemmeno depositati in banca. Sono tutti in una scatola di detersivo vuota nel suo studio.»

«E che cosa significa tutto questo, Don Javier?»

«Significa… che forse non dovrebbe prendersela tanto con Francisco Falcón, perché, in fondo, ciò che faceva danneggiava prima di tutto lui stesso.»

«Posso fumare?»

«Certamente. Usciamo sul patio, le porto qualcosa da bere.»

«Un whisky, se ce l'ha. Ho bisogno di qualcosa di forte dopo questa sorpresa.»

Si accomodarono sulle sedie di ferro battuto davanti a un tavolino di mosaico sotto l'unica lampada, sorseggiando il whisky. Falcón le chiese notizie dei bambini, lei rispose, la mente altrove.

«Sono andato a Madrid venerdì», disse Javier. «A parlare con il figlio maggiore di suo marito.»

«Lei è molto scrupoloso nelle indagini, Don Javier», osservò la donna. «Non sono abituata a tanto rigore professionale dopo tutti questi anni di vita tra gli indigeni.»

«Sono particolarmente scrupoloso, quando il caso mi affascina.»

La donna accavallò le gambe, flettendo le dita del piede sotto la fascia di raso rosso della ciabattina puntata verso di lui. Gli suggerì l'impressione di una donna che ci sapesse fare a letto e fosse molto esigente, ma che sapesse anche ricompensare. Pensieri lascivi seguirono i pensieri oziosi ed egli la vide davanti a sé, in ginocchio, con la gonna nera tirata su fino alle anche, la testa girata per guardarlo al di sopra della spalla. Scosse la testa, poco abituato a quelle fantasticherie incontrollate che gli si scatenavano nella mente. Compì uno sforzo consapevole per dominarsi, concentrandosi sul ghiaccio nel bicchiere.

«Voleva sapere perché Gumersinda si è suicidata», disse la signora Jiménez.

«Mi interessava l'infelicità abietta di suo marito, come l'ha definita lei, che deve essere stata anche l'infelicità di Gumersinda al momento della sua morte. Volevo sapere che cosa aveva potuto causare una tale devastazione.»

«I poliziotti sono tutti come lei?»

«Siamo persone… ognuno di noi è diverso dall'altro», rispose Falcón.

«Ha trovato ciò che cercava?»

Ascoltando il resoconto della sua conversazione con José Manuel, Consuelo Jiménez perse la sua baldanzosa sensualità. La ciabattina, che era stata così vicina al ginocchio di Falcón, fu ritirata e andò a raggiungere la sua compagna sul pavimento di marmo del patio. Quando Javier ebbe finito, soltanto le spalline della giacca nera avevano conservato una forma precisa. Falcón versò altro whisky.

«Los niños de la calle», ripeté.

«Stavo pensando la stessa cosa», disse la signora Jiménez.

«La sua ossessione per la sicurezza.»

«Avrei dovuto scoprire ciò che Raúl aveva fatto, non avrei dovuto rinunciare. Avrei dovuto sapere tutto questo per capirlo, per capire i suoi… moventi.»

«E se avesse dovuto dedicare tutta la vita a questa impresa?»

La signora Jiménez si accese un'altra sigaretta.

«Crede che abbia qualcosa a che vedere con l'omicidio?»

«Ho chiesto al figlio di Raúl se, secondo lui, Arturo potesse essere ancora vivo», disse Falcón.

«E tornato per vendicarsi? È assurdo. Sono certa che quel povero bambino è stato ammazzato.»

«Perché? Io sono altrettanto certo che potrebbero averlo utilizzato… per annodare tappeti o qualcosa del genere.»

«Come uno schiavo? E se fosse fuggito?»

«È mai stata in un posto come Fez?» le domandò Falcón. «Immagini Siviglia senza i suoi edifici più importanti, senza le piazze e il verde, e comprima tutto quanto in modo che le vie divengano più strette, le case quasi si tocchino in alto e poi metta la città a rosolare in modo che ogni cosa si sgretoli, moltiplichi questo per cento, sottragga mille anni dalla data di oggi e questa è Fez. Si può entrare nella medina da bambini e uscirne vecchi senza averne percorso tutte le strade. Se mai fosse riuscito a fuggire senza essere ripreso, dove avrebbe potuto andare? Chi è? Dove sono i suoi documenti? Non appartiene a nessun luogo e a nessuno.»

Consuelo rabbrividì di fronte a quel pensiero terribile.

«Così è questo che sta cercando?»

«I poliziotti di alto grado, intendo dire i capi che amministrano i fondi per mandare avanti la polizia, hanno una vera avversione per la fantasia. Mi occorrerebbe ben più di una registrazione del colloquio con José Manuel per convincerli a dare il via a una caccia all'uomo», rispose Falcón. «Dobbiamo essere più terra terra, con meno immaginazione, perché tutto ciò che facciamo finisce davanti al magistrato e i magistrati detestano le storie fantasiose nei loro tribunali.»

«E allora che cosa farà?»

«Indagherò sulla vita di suo marito per vedere se salta fuori qualcosa. Lei potrebbe essermi di aiuto.»

«Questo mi depennerebbe dalla lista dei sospettati?»

«No, finché non avremo trovato l'assassino. Ma potrebbe farmi risparmiare molto tempo, dato che devo orientarmi in quasi settantotto anni di vita.»

«Posso aiutarla soltanto per gli ultimi dieci.»

«Be', questo comprende un periodo in cui era un uomo in vista… l'Expo '92.»

«La commissione per gli appalti», disse la signora Jiménez.

«C'è anche il fenomeno interessante delle pesetas 'sporche' che vogliono diventare euro 'puliti'.»

«Sono sicura che saprà già tutto sul settore della ristorazione.»

«Le frodi fiscali non mi interessano, Doña Consuelo. Quello non è il mio campo, io devo occuparmi di possibilità più drammatiche. Di cose, per esempio, che abbiano richiesto una grande fiducia e dove forse questa fiducia sia stata tradita e siano state perse delle fortune, siano state rovinate delle vite umane, lasciando gravi motivazioni per desiderare una vendetta.»

«Per questo lei si occupa di omicidi?» domandò Consuelo Jiménez, alzandosi.

Senza rispondere Falcón l'accompagnò alla porta, cercando di non ascoltare i tacchetti di lei battere in Morse la parola S-E-S-S-O sul pavimento di marmo.

«Chi l'ha presentata a mio padre?» domandò. Tattica diversiva.

«Raúl aveva ricevuto un invito e ha mandato me. Io avevo lavorato in una galleria d'arte, così ha pensato che me ne intendessi.»

«È lì che ha conosciuto Ramón Salgado?»

Il ticchettio si interruppe per un istante.

«Era stata la sua galleria a mandare l'invito, era stato Ramón ad accogliere gli invitati e a fare le presentazioni.»

«Le ha parlato lui della sua straordinaria somiglianza con Gumersinda?»

La donna batté le palpebre, come se avesse dimenticato la confidenza che le era sfuggita. Falcón aprì la porta sul corto vialetto d'accesso acciottolato e fiancheggiato da aranci, che immetteva sulla calle Bailén.

«Sì, è stato lui», rispose Consuelo. «Venire qui stasera mi ha fatto ricordare ogni cosa. Avevo suonato, ma Salgado stava parlando con qualcuno che aveva appena fatto entrare, perciò non si era girato verso la porta nell'aprirla, ma quando i nostri sguardi si sono incontrati io ho capito che era assolutamente allibito. Credo perfino che mi abbia chiamato Gumersinda, ma forse questa è un'esagerazione della memoria. Comunque sia, ricordo che al momento dei drink me l'aveva già detto, con il risultato di farmi bere troppo, tanto che ho parlato e parlato come un'idiota con Falcón che desideravo conoscere da una vita.»

«E così Ramón e suo marito si conoscevano dal tempo di Tangeri?»

Un'altra cosa che lei non ricordava di aver detto.

«Non ne sono sicura.»

Si strinsero la mano. Falcón seguì con lo sguardo le sue gambe che si allontanavano verso calle Bailén. Richiuse il portone e andò dritto nello studio.

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