Kay Scarpetta ha appuntamento alle undici e mezzo con Marino nel posteggio dell’Istituto di medicina legale, davanti all’auto che hanno noleggiato. Il cielo è coperto da nuvoloni grigi da cui ogni tanto spunta il sole. Soffia un vento forte e freddo.
«Fielding non viene?» chiede Marino aprendo il SUV. «Guido io? Dunque secondo te è morta soffocata perché l’assassino le si è seduto sopra. Bastardo: come si fa ad ammazzare una bambina? Dev’essere corpulento, se è riuscito ad ucciderla in quel modo, non credi?»
«No, Fielding non viene. Sì, guida tu. Quando non riesci a respirare, ti prende il panico e ti divincoli come un ossesso, quindi sì, per riuscire a tenerla giù l’assassino dev’essere abbastanza robusto e pesante. Penso che sia morta per asfissia meccanica.»
«Vorrei che quel bastardo che l’ha ammazzata facesse la stessa fine, te lo giuro. Vorrei che gli si sedessero sopra due marcantoni e non riuscisse più a respirare. Così impara.» Salgono in macchina e Marino mette in moto. «Oppure mi ci siedo sopra io, appena lo sbattiamo dentro. Guarda, lo farei proprio volentieri. Come si fa ad ammazzare una bambina, mi chiedo…»
«Questi discorsi non servono a niente» lo interrompe lei. «Occupiamoci di cose più utili. Sai niente della madre?»
«Visto che Fielding non viene, pensavo che l’avessi chiamata tu.»
«Le ho detto che avevo bisogno di parlarle, tutto lì. Mi è sembrata un po’ strana, al telefono. Dice che Gilly è morta per colpa dell’influenza.»
«Pensi di dirle che non è vero?»
«Non so che cosa le dirò.»
«Be’, una cosa è certa: i federali impazziranno, quando sapranno che hai ricominciato a fare visite a casa delle persone. Si sono immischiati in un caso che non dovrebbe riguardarli e, se scoprono che ci sei di mezzo anche tu… Vedrai!» Sorride, uscendo lentamente dal parcheggio.
A Kay Scarpetta non importa come reagiranno i federali. Guarda il Biotech II, l’edificio grigio in cui un tempo lavorava, l’obitorio che sembra un igloo. Ha l’impressione di non essere mai andata via da Richmond, ora che è tornata, e le sembra normalissimo andare a controllare la scena di un delitto. Non le importa cosa penseranno i federali, il dottor Marcus o chiunque altro.
«Mi sa che neanche il tuo amico Marcus sarà molto contento» continua Marino sarcastico, come se le avesse letto nel pensiero. «Gli hai detto che secondo te è un omicidio?»
«No» risponde Kay.
Non ha cercato Marcus dopo l’autopsia di Gilly Paulsson. Si è lavata, ha rimesso il tailleur ed è andata a controllare alcuni vetrini al microscopio. Può avvertirlo Fielding, se ritiene. Oppure lo aggiornerà lei in un secondo tempo. E comunque, Marcus può chiamarla sul cellulare. Ma non lo farà: cerca di tenersene fuori il più possibile. Probabilmente si è reso conto subito che la morte di quella quattordicenne era una faccenda delicata, molto prima di contattare lei in Florida. Deve aver capito immediatamente che si sarebbe trovato nei guai, se non avesse scaricato il barile a qualcun altro. Probabilmente ha sospettato sin dall’inizio che Gilly Paulsson non era morta per cause naturali e ha deciso di non sporcarsi le mani.
«Chi è l’ispettore incaricato delle indagini?» chiede Kay Scarpetta a Marino, che intanto cerca di immettersi nel traffico. «Lo conosciamo?»
«No. Quando lavoravo qui, non c’era ancora.» Appena vede un varco fra le automobili, Marino si infila nella corsia di destra. Adesso che è tornato a Richmond, guida di nuovo come ai vecchi tempi, quando lavorava ancora al Dipartimento di polizia di New York.
«Che tipo è? Lo sai?»
«Qualcosa so.»
«Pensi di tenerti quel berretto tutto il tempo?» gli domanda.
«Perché no? Ne hai un altro migliore da darmi? E poi a Lucy farà piacere sapere che me lo metto. Sai che la polizia ha cambiato sede? Non è più in Ninth Street, si è trasferita vicino al Jefferson Hotel, nel vecchio Farm Bureau Building. A parte questo, è tutto uguale. Anzi no: adesso gli agenti possono andare in giro con il berretto da baseball, come a New York.»
«Vedo che i berretti da baseball sono molto popolari.»
«Sì, infatti. Perciò non rompere.»
«Chi ti ha detto che ci sono di mezzo i federali?»
«L’ispettore incaricato delle indagini. Si chiama Browning e sembra un tipo a posto, anche se non si occupa spesso di omicidi e ha più esperienza di sparatorie, regolamenti di conti fra bande rivali e roba del genere.» Apre un bloc-notes e gli dà un’occhiata, guidando in direzione di Broad Street. «Giovedì quattro dicembre interviene a seguito di una telefonata in casa Paulsson, nel Fan, vicino a quello che prima era lo Stuart Circle Hospital e adesso è un complesso residenziale. Lo sapevi che l’hanno trasformato in un condominio di lusso? È successo dopo che tu ti sei trasferita. Tu andresti a vivere in un appartamento dove prima ricoveravano malati? A me farebbe venire i brividi.»
«Marino, sai perché è coinvolta l’FBI? Me lo vuoi dire?» domanda Kay spazientita.
«Ufficialmente li hanno interpellati qui da Richmond, ma io non ci credo: perché la polizia avrebbe dovuto chiamare l’FBI? E perché l’FBI avrebbe accettato prontamente di occuparsi del caso?»
«Browning cosa dice?»
«Niente di che. Non sembra molto interessato. Dice che Gilly deve avere avuto un attacco di cuore o roba del genere.»
«Be’, si sbaglia. E la madre?»
«Tipo strano. Poi ti spiego.»
«Del padre hai scoperto niente?»
«Dopo il divorzio è andato a stare a Charleston, nel South Carolina. Medico. Strano, eh? Un medico dovrebbe sapere cos’è un obitorio: ti aspetteresti che non ci lascerebbe mai la figlia in un sacco di plastica, solo perché non riesce a mettersi d’accordo con la ex moglie su dove seppellirla o come.»
«Io svolterei in Grace Street» dice Kay Scarpetta. «E poi proseguirei dritto.»
«Grazie, Magellano. Guarda che ho abitato a Richmond anch’io. Pensi che abbia bisogno di un navigatore?»
«Non so che cosa faresti senza di me, Marino. Parlami di Browning. Cos’ha trovato, quando è intervenuto in casa Paulsson?»
«La ragazza era a letto, supina, in pigiama, e la madre era in piena crisi isterica. Te lo puoi immaginare.»
«Era sotto le lenzuola o sopra?»
«Le lenzuola erano state tirate giù e ammucchiate per terra. La madre ha dichiarato che erano così quando è tornata a casa dalla farmacia, ma deve avere dei problemi di memoria. Oppure mente.»
«A che proposito?»
«Non lo so. Mi baso su quello che mi ha detto Browning al telefono. Voglio dire, io la interrogherei di nuovo.»
«C’erano segni di effrazione?» chiede Kay Scarpetta. «Browning ha pensato che fosse entrato in casa qualcuno?»
«Browning non ha visto niente. Ma, come ti ho detto, non si è particolarmente preoccupato di cercare indizi. E questo non va bene. Se chi dirige le indagini non cerca nemmeno di capire se c’è qualcosa che non va, vuoi che si accaniscano quelli della Scientifica? Se non pensi che sia stato un omicidio, cosa ti metti a rilevare impronte a fare?»
«Non dirmi che non hanno nemmeno cercato le impronte digitali.»
«Be’, possiamo farlo noi adesso.»
Nel frattempo sono arrivati in quello che si chiama Fan District, un quartiere che risale ai tempi della guerra civile e ha quel nome perché le sue stradine strette, dai nomi poetici come Strawberry Street, Cherry Street e Plum Street, si allargano a ventaglio. Le case del Fan sono state quasi tutte ristrutturate e hanno ampie verande, colonne neoclassiche e cancelli di ferro battuto. La casa dei Paulsson è meno eccentrica e lussuosa di tante altre e non è particolarmente grande: ha la facciata di mattoni, un piccolo portico e il tetto mansardato.
Marino posteggia davanti a un furgoncino azzurro. Lui e Kay Scarpetta scendono dalla macchina e imboccano una stradina di mattoni un po’ consumati. Il cielo è coperto, fa freddo e forse nevicherà. Meglio la neve che la pioggia, pensa Kay. Richmond non si è mai abituata agli inverni rigidi, e ogni volta che si prevedono nevicate i suoi abitanti corrono a fare incetta di generi alimentari, preparandosi al peggio. I fili della luce sono esterni e se cade un albero per il vento o la galaverna, interi quartieri rimangono senza energia elettrica. Anche per questo, Kay Scarpetta spera che non ci siano forti temporali mentre si trova lì.
Il batacchio sulla porta è di bronzo, a forma di ananas. Marino lo abbassa tre volte con forza. Tenuto conto del motivo della loro visita può sembrare ineducato bussare con tanta insistenza. Si sentono dei passi rapidi, poi la porta si apre e appare una donna minuta, con la faccia gonfia di chi mangia poco ma beve molto e piange in continuazione. Se non fosse sfatta, sarebbe una bella donna. Ha i capelli biondi, tinti.
«Prego, accomodatevi» dice con voce nasale. «Ho il raffreddore, ma non dovrei essere contagiosa.» Guarda Kay Scarpetta con gli occhi rossi. «Ma lei lo sa meglio di me, visto che è dottoressa. È lei la dottoressa con cui ho parlato prima, vero?» Non era difficile da intuire, visto che Marino è un uomo e ha il berretto del LAPD.
«Sì, sono Kay Scarpetta.» Le stringe la mano. «Condoglianze, signora Paulsson.»
Alla donna vengono le lacrime agli occhi. «Non entrate? Scusatemi per il disordine, vi prego. Ho appena fatto il caffè.»
«Grazie, lo prendiamo volentieri» dice Marino. Si presenta e spiega: «Ho parlato con l’ispettore Browning e pensavo di svolgere qualche altra indagine, se non le dispiace».
«Volete zucchero? Latte?»
Marino accetta entrambi.
«Io lo prendo nero, grazie» risponde Kay Scarpetta. Seguono la signora Paulsson lungo un corridoio con il parquet. Sulla destra c’è un salotto piccolo ma accogliente, con poltrone di pelle verde scuro e un caminetto; sulla sinistra c’è una cameretta che sembra poco usata e fredda. «Volete darmi i cappotti?» chiede la signora Paulsson. «Scusatemi: vi ho offerto il caffè e non vi ho fatto nemmeno togliere il cappotto. Abbiate pazienza, non ci sono con la testa.»
Kay Scarpetta e Pete Marino si tolgono i cappotti, che la signora Paulsson appende a un attaccapanni in cucina. Kay nota la sciarpa scarlatta appesa a un piolo e si chiede se era di Gilly. La cucina è vecchiotta, con il pavimento di piastrelle quadrate, bianche e nere, e mobili bianchi, fuori moda. La finestra dà su un cortiletto chiuso da una staccionata di legno, dietro cui si vede un tetto basso di ardesia, malconcio e coperto di foglie e di muschio.
La signora Paulsson versa il caffè nelle tazze e li fa accomodare a un tavolo di legno vicino alla finestra. Kay nota che la cucina è pulita e in ordine, con una fila di pentole appese con dei ganci sopra un grosso tagliere di legno, e il lavello perfettamente pulito. Sul bancone, vicino a una scatola di fazzoletti di carta, c’è una boccetta di sciroppo per la tosse. È un farmaco da banco, di quelli che si acquistano senza ricetta. Kay beve un sorso di caffè.
«Non so nemmeno io da che parte cominciare» dice la signora Paulsson. «Non ho capito bene neppure perché siete venuti. L’ispettore Browning mi ha chiamato stamattina per dirmi che erano arrivati due consulenti da fuori e che avevano bisogno di parlarmi. Be’, eccovi qui.» Guarda Kay Scarpetta.
«Allora Browning l’ha avvisata» dice Marino.
«Sì, è stato molto gentile.» La signora Paulsson guarda Marino come se lo trovasse interessante. «Sono tutti molto… Non so.» Le vengono di nuovo le lacrime agli occhi. «Dovrei essere contenta che vi diate tanto da fare. Sarebbe peggio, se a nessuno fregasse niente.»
«Stiamo lavorando tutti a questo caso con molto impegno» la conforta Kay. «Siamo intervenuti per questo.»
«Di dove siete?» La signora Paulsson guarda Marino e beve un sorso di caffè.
«Florida. Abitiamo poco a nord di Miami» risponde lui.
«Oh, credevo che lei fosse di Los Angeles» dice la signora Paulsson, lanciando un’occhiata al berretto.
«Lavoro molto con Los Angeles.»
«Stupefacente» dice lei. Ma non sembra per niente stupefatta e Kay Scarpetta intuisce che nasconde qualcosa. È come se dentro la signora Paulsson si celasse una donna completamente diversa.
«Il telefono squilla in continuazione: giornalisti, curiosi… L’altro giorno sono venuti con un camion gigantesco, pieno di antenne o cosa diavolo erano.» Si volta e indica la strada davanti a casa. «È uno scandalo, non vi pare? L’agente dell’FBI, che era qui quando sono venuti quelli della televisione, mi ha detto che fanno così perché non si è ancora scoperto che cosa è successo veramente a Gilly. Secondo lei, mi è già andata bene, perché certe volte i giornalisti si accaniscono molto di più. Non capisco come si faccia a dire che mi è andata bene così, sinceramente…»
«Forse l’agente dell’FBI si riferiva al fatto che a certi casi viene data molta più pubblicità» replica Kay con dolcezza.
«La mia è una tragedia!» esclama la signora Paulsson asciugandosi gli occhi. «Che cosa può esserci di peggio che perdere una figlia in questo modo?»
«Come è morta Gilly, secondo lei?» chiede Marino, passando il pollice sul bordo della tazza.
«Di influenza» risponde la signora Paulsson. «Dio l’ha voluta chiamare a sé, non so per quale motivo. Vorrei tanto saperlo…»
«Sembra che non sia morta di influenza» precisa Marino.
«Oggigiorno è sempre così. Sono tutti sospettosi, vogliono il dramma. La mia bambina aveva la febbre alta. Quest’anno l’influenza è micidiale.» Guarda Kay Scarpetta.
«Signora Paulsson, io non credo che sua figlia sia morta di influenza. Immagino che l’abbiano già informata che l’autopsia conferma la mia ipotesi. Ha parlato con il dottor Fielding, vero?»
«Sì, certamente. Mi ha chiamato subito. Ma come fate a stabilire che uno non è morto di influenza? Come potete esserne sicuri, se non l’avete sentito tossire, non gli avete misurato la febbre, non lo avete sentito lamentarsi?» Scoppia in lacrime. «Gilly aveva la febbre a trentotto, una tosse da far paura! Sono uscita a comprarle lo sciroppo. Ho preso la macchina e sono andata in Cary Street, in farmacia.»
Kay Scarpetta lancia un’occhiata alla boccetta di sciroppo sul bancone e pensa ai campioni di tessuto polmonare che ha esaminato al microscopio poco prima. C’erano tracce di fibrina, linfociti e macrofagi e gli alveoli erano aperti. La broncopolmonite di Gilly, complicanza dell’influenza abbastanza frequente nei bambini e negli anziani, era in via di guarigione.
«Signora Paulsson, è possibile stabilire se una persona è morta di influenza dalle condizioni dei polmoni» le spiega. Non vuole entrare nei dettagli e descriverle in che stato sarebbero dovuti essere i polmoni di Gilly se fosse morta di broncopolmonite acuta. «Sua figlia era sotto antibiotici?»
«Sì, li ha presi per una settimana.» Beve un sorso di caffè. «E infatti mi sembrava che stesse guarendo. Pensavo che ormai avesse solo un po’ di raffreddore.»
Marino spinge indietro la sedia. «Vi spiace se vi lascio sole?» domanda. «Vorrei dare un’occhiata in giro.»
«Non so a cosa, ma faccia pure. Non sarà né il primo né l’ultimo a guardare dappertutto. La camera di Gilly è in fondo.»
«Grazie.» Marino si allontana, pestando con gli scarponi pesanti sul parquet.
«Gilly stava guarendo» dice Kay Scarpetta. «L’esame dei polmoni lo conferma.»
«Però era ancora molto debole.»
«Signora Paulsson, Gilly non è morta di influenza» ripete con voce ferma. «È importante che lei se ne convinca. Se fosse morta di influenza, io adesso non sarei qui. Sto cercando di capire la dinamica dell’accaduto e ho bisogno di farle qualche domanda.»
«Non ha l’accento di qui, dottoressa.»
«Infatti sono di Miami.»
«Oh, e continua a vivere lì? Non sono mai stata a Miami. Mi piacerebbe andarci. Specie quando qui c’è questo tempaccio.» Si alza a prendere la caffettiera. Si muove con difficoltà, con le gambe rigide. Kay Scarpetta prova a immaginarla seduta sulla schiena di Gilly: non esclude che sia successo, ma le pare assai improbabile. La signora Paulsson pesa poco più della figlia che, cercando di divincolarsi, si sarebbe procurata più lesioni di quelle che presenta il suo cadavere. Ma l’ipotesi che sia stata la madre a ucciderla, per quanto remota e raccapricciante, non va scartata completamente.
«Mi sarebbe piaciuto andarci con Gilly. A Miami e anche a Los Angeles. Mi sarebbe piaciuto viaggiare con lei» dice la signora Paulsson. «Ma io ho paura di volare e soffro la macchina, perciò non siamo mai andate da nessuna parte. Sa quanto rimpiango di non essermi fatta più forza, adesso?»
La caffettiera le trema nelle mani. Kay Scarpetta gliele osserva, alla ricerca di eventuali lividi o graffi o abrasioni. Non ne nota, ma sono passate due settimane. Si ripromette di chiedere ai poliziotti che l’hanno interrogata subito dopo la morte della figlia in che condizioni avesse mani e braccia allora.
«Sono così pentita! A Gilly sarebbe tanto piaciuto andare a Miami, vedere le palme, i fenicotteri…» insiste.
Versa il caffè nelle tazze e ripone la caffettiera. «Quest’estate sarebbe dovuta andare via con suo padre.» Si siede sulla sedia di rovere. «O forse sarebbero restati a Charleston, non lo so. Comunque, non era mai stata neanche a Charleston.» Poggia i gomiti sul tavolo. «Gilly non è mai stata al mare. Non l’ha mai visto, se non in fotografia o alla TV. Però io non le lasciavo guardare tanta televisione, sa? Facevo male?»
«Il padre di Gilly abita a Charleston?» domanda Kay Scarpetta, pur conoscendo già la risposta.
«Si è trasferito l’estate scorsa. Fa il medico. È andato a stare in una grande casa, sul fiume, che è citata persino sulle guide turistiche. Si figuri che la gente paga per visitare il suo giardino. E naturalmente lui non lo cura, non si mette certo a tagliare l’erba… Pagherà qualcuno che lo faccia per lui. Frank non fa niente, se non gli interessa. Come il funerale di Gilly, per esempio. Ha messo tutto in mano agli avvocati e così è venuto fuori un gran pasticcio. È una manovra contro di me, capisce? Perché io voglio che Gilly resti qui a Richmond. E allora lui, per ripicca, vuole che vada a Charleston.»
«Che tipo di medico è?»
«Generico. È abilitato a rilasciare l’idoneità al volo ai piloti e, siccome a Charleston c’è una base dell’aeronautica, ha la coda di pazienti davanti allo studio. Si dà un sacco di arie: settanta dollari a certificato, e ha la coda davanti allo studio… Chissà quanto guadagna.» La signora Paulsson continua a parlare a raffica, quasi senza prendere fiato tra una frase e l’altra, dondolandosi leggermente sulla sedia.
«Signora Paulsson, mi racconti che cosa è successo giovedì quattro dicembre. Cominci da quando si è svegliata la mattina.» Kay Scarpetta capisce che, se non prende in mano la situazione, non concluderà niente: la signora Paulsson continuerà a parlare d’altro, a essere evasiva e a perdersi in dettagli privi di importanza, dando sfogo all’astio che prova per l’ex marito. «A che ora si è alzata?»
«Alle sei, come sempre. Non ho neppure bisogno di mettere la sveglia, ne ho una qui dentro.» Si tocca la testa. «Forse perché sono nata alle sei di mattina, mi sveglio sempre alle sei. Quindi anche quella mattina, certamente…»
«Che cosa ha fatto quando si è svegliata?» Kay non ama interrompere la gente, ma si rende conto che, se non fa così, la signora Paulsson continuerà con le sue digressioni. «Si è alzata?»
«Be’, certo. Mi alzo sempre, vengo in cucina a fare il caffè, poi torno in camera mia e leggo la Bibbia per un po’. Se Gilly deve andare a scuola, devo farla uscire di casa per le sette e un quarto, con il pranzo pronto e tutto. Di solito le dà un passaggio la mamma di una sua compagna. È una bella fortuna, così va in macchina.»
«E giovedì quattro dicembre?» insiste Kay Scarpetta. «Si è alzata alle sei come al solito, ha fatto il caffè, è tornata in camera a leggere la Bibbia, e poi?» La signora Paulsson annuisce. «Si è messa a letto a leggere la Bibbia? Per quanto tempo?»
«Una mezz’oretta.»
«È andata a vedere come stava Gilly?»
«Prima ho pregato per lei. L’ho lasciata dormire e ho pregato per lei. Verso le sette meno un quarto sono andata in camera sua e ho visto che dormiva, bella tranquilla sotto le coperte.» Scoppia in lacrime. «Le ho detto: “Gilly, bambina mia, svegliati che la mamma ti prepara la colazione”. E lei ha aperto gli occhi, quei suoi bellissimi occhi azzurri, e mi ha detto: “Mamma, ho tossito tutta la notte, mi fa male il petto”. Così mi sono accorta che avevamo finito lo sciroppo.» Si interrompe di colpo e fissa Kay con gli occhi lucidi. «Lo strano è che la cagnetta abbaiava, abbaiava come una matta. Mi viene in mente adesso. Strano.»
«La cagnetta? Avete un cane?» Kay Scarpetta prende un appunto sul notes, con la sua grafia illeggibile.
«Stavo per dirglielo» risponde la signora Paulsson con voce rotta e le labbra tremanti. «Sweetie è scappata… Oh, Signore.» Singhiozza e si dondola sulla sedia. «Era in giardino mentre parlavo con Gilly e quando sono scesa non c’era più. Quelli della polizia o dell’ambulanza devono aver lasciato aperto il cancello. Come se non bastasse… Come se non me ne fossero già capitate abbastanza…»
Kay Scarpetta chiude lentamente il notes e lo posa sul tavolo assieme alla penna. Poi guarda la signora Paulsson. «Di che razza è Sweetie?»
«Era di Frank, che se ne è sempre fregato. Se n’è andato di casa sei mesi fa. Il giorno del mio compleanno, pensi un po’. Le sembra una cosa carina da fare? E mi ha detto: “Tienitela tu, Sweetie, se non vuoi che finisca al canile”.»
«Di che razza è?»
«Se ne è sempre fregato di quel cane, e sa perché? Perché lui se ne frega di tutto e di tutti, pensa solo a se stesso. Gilly invece è affezionata a Sweetie. Oh, se sapesse che è scappata…» Piange e si lecca le labbra. «Quanto le dispiacerebbe, se lo sapesse…»
«Signora Paulsson, di che razza è il cane? Ha denunciato la sua scomparsa?»
«E a chi?» esclama lei, ridendo amareggiata. «Alla polizia che ha lasciato il cancello aperto? Non so che cosa intenda lei per denunciare, dottoressa, ma alla polizia comunque l’ho detto. Non mi ricordo più a chi, ma l’ho detto.»
«Quando ha visto Sweetie l’ultima volta? Signora Paulsson, lo so che è sconvolta, mi dispiace, ma la prego di rispondere alle mie domande.»
«Cosa c’entra il cane, comunque? Cosa interessa a lei, se la mia cagnetta è scappata? A meno che non sia morta, naturalmente. Ma anche in quel caso, non credo che potrebbe fare molto.»
«A me interessa tutto, signora Paulsson. Tutto quello che mi sa dire può essere importante.»
Marino appare sulla soglia. Kay Scarpetta non lo ha sentito arrivare e rimane sorpresa. «Marino, tu sapevi niente del cane?» gli chiede, guardandolo negli occhi. «Sweetie, la loro cagnetta, è scappata. È… di che razza è, signora Paulsson?» La guarda.
«Un bassotto. Cucciolo» singhiozza la donna.
«Puoi venire un momento di là?» le dice Marino.