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Il Publix Supermarket, in Hollywood Plaza, è pieno di gente. Edgar Allan Pogue attraversa il parcheggio con le borse della spesa, guardando di qua e di là per vedere se qualcuno lo nota, ma nessuno sembra fare caso a lui. Anche fosse, non avrebbe importanza. Nessuno se lo ricorderebbe, nessuno farebbe attenzione. Come sempre. E poi lui sta facendo la cosa giusta, sta facendo un favore all’umanità. Evita la luce dei lampioni e riflette. Si tiene nell’ombra e allunga il passo. Non è in ansia, tuttavia.

La sua automobile bianca è uguale a ventimila altre automobili bianche del Sud della Florida. L’ha lasciata in un angolo del parcheggio, vicino ad altre due macchine bianche. Una di queste, la Lincoln che aveva a sinistra quando ha posteggiato, adesso non c’è più. C’è un’altra vettura bianca, però, una Chrysler. Quando succedono questi eventi magici, Edgar Allan Pogue sa che c’è qualcuno che lo guarda e lo guida, che l’occhio lo osserva. Si sente guidato dall’occhio, il potere supremo, il dio di tutti gli dei, quello che siede sulla vetta dell’Olimpo, maestoso e grande, incommensurabilmente più grande di una stella del cinema e di tutti gli arroganti che si credono di essere chissà chi. Come quella là, lei, il Pesce Grosso.

Fa scattare le serrature della macchina con il telecomando, apre il cofano e prende una borsa. Si siede al volante della sua automobile bianca, nella calda penombra, a riflettere se la visibilità è sufficiente per l’impresa che desidera compiere, La luce dei lampioni nel parcheggio sfiora appena la zona in cui è fermo lui. Aspetta che i suoi occhi si abituino alla penombra, infila la chiave nel cruscotto e accende la batteria per ascoltare la musica. Poi preme un pulsante al lato del sedile per abbassarlo al massimo. Ha bisogno di spazio per lavorare. Emozionato, apre la prima borsa di plastica e prende un paio di spessi guanti di gomma, una confezione di zucchero granulato, una bibita in bottiglia, alluminio e nastro isolante, pennarelli indelebili e chewing gum alla menta. Ha in bocca un sapore stantio di sigaro da quando è uscito di casa, alle sei di quel pomeriggio. Adesso non può fumare, però. Fumare gli toglierebbe dalla bocca quel sapore cattivo, ma è impossibile. Scarta un chewing gum, lo arrotola strettamente e se lo infila in bocca. Fa lo stesso con altri due e, quando li ha in bocca tutti e tre, aspetta ancora un istante prima di affondare i denti nella gomma. Si gode l’esplosione di saliva e inizia a masticare con foga.

Sta lì, al buio, e mastica gomma. Si stufa della musica rap e cambia canale finché non ne trova uno che trasmette quello che chiamano “adult rock”. Apre il vano portaoggetti e prende la parrucca di capelli neri dalla sua busta di plastica. Osserva il frutto delle sue fatiche e mette in moto.

Le case color pastello di Hollywood gli passano accanto come in un sogno e le lucine bianche che dondolano dalle palme gli sembrano galassie lontane. Sfreccia nella notte, euforico per ciò che ha predisposto sul sedile del passeggero. Svolta in Hollywood Boulevard e si dirige verso la AIA a una velocità di poco inferiore al limite, guardando l’Hollywood Beach Resort, imponente costruzione rosa e mattone, dall’altra parte della baia.

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