31

Piove e fa freddo quando Kay Scarpetta posteggia davanti alla casa di Suzanna Paulsson. Resta qualche minuto in macchina con il motore acceso e i tergicristalli in funzione a guardare il vialetto di mattoni che conduce alla porta di casa e ripensa a Marino.

La storia che le ha raccontato è molto più significativa di quello che lui pensa. Le lesioni che le ha fatto vedere sono peggiori di quello che lui crede. Forse non le ha riferito tutto nei minimi dettagli, ma le ha detto abbastanza perché potesse farsi un’idea di come sono andate le cose. Spegne i tergicristalli e guarda la pioggia che cade sui vetri, così violenta che il parabrezza sembra una lastra di ghiaccio mezza sciolta. Suzanna Paulsson è in casa: la sua automobile è parcheggiata vicino al marciapiede e le finestre sono illuminate. Peraltro, con un tempaccio così, è meglio non uscire.

Kay Scarpetta non ha né un ombrello né un berretto.

Scende dalla macchina sotto la pioggia battente e corre sui mattoni scivolosi del vialetto verso la casa di Gilly Paulsson, morta a quattordici anni, e di sua madre, donna dalla sessualità malata. Forse Kay non è in condizione di poter giudicare la signora Paulsson, ma è arrabbiata. È molto più arrabbiata di quanto Marino sospetti. Probabilmente lui non si è accorto di quanto è furibonda. La signora Paulsson adesso vedrà che cosa vuol dire avere a che fare con Kay Scarpetta, quando è arrabbiata. Bussa con foga e pensa a che cosa farà se nessuno le aprirà la porta, se Suzanna Paulsson fingerà di non essere in casa, come Fielding. Bussa di nuovo, più lentamente e con maggior forza.

Sta scendendo la sera, rapida come una macchia di inchiostro, e Kay Scarpetta vede il fiato che le si condensa davanti alla faccia. L’acquazzone infuria sempre più violento. Bussa ancora. “Di qui non mi muovo” pensa. “Non te la caverai tanto facilmente. Non sperare che mi arrenda e me ne vada.” Prende il cellulare e un foglio di carta dalla tasca del cappotto e legge il numero che si è appuntata nel corso della sua visita di ieri alla signora Paulsson, quando era ancora gentile e simpatica, quando provava ancora pena per lei. Fa il numero e sente squillare il telefono dentro casa. Bussa con forza, sbattendo il batacchio a forma di ananas contro la porta. Se si rompe, pazienza.

Passa un altro minuto. Richiama, lasciando squillare a vuoto il telefono per un’eternità. Chiude la comunicazione appena prima che scatti la segreteria. “Sei in casa, lo so”, pensa. “È inutile che tu faccia finta di non esserci. Sai che sono io e non mi vuoi vedere, vero?” Si allontana di qualche passo e va a guardare dalla finestra. La luce filtra, calda e soffusa, attraverso le impalpabili tende bianche. Kay Scarpetta vede un’ombra guizzare rapida alla sua destra, fermarsi un istante vicino al vetro e sparire.

Bussa di nuovo alla porta e riprova a telefonare. Questa volta, quando la segreteria scatta, dice: «Signora Paulsson, sono la dottoressa Scarpetta. Sono qui fuori. Mi apra la porta, per favore: si tratta di una cosa importante. So che è in casa, signora». Chiude la comunicazione, bussa ancora e vede l’ombra di prima spostarsi dietro le tende della finestra a sinistra della porta. Dopo un attimo il portone si apre.

«Mio Dio» esclama la signora Paulsson, fingendosi sorpresa in maniera assai poco convincente. «Non sapevo che era lei! Che temporale, eh? Venga, si accomodi. Per abitudine non apro la porta, a meno che non aspetti qualcuno.»

Kay Scarpetta entra gocciolando nel salotto, si toglie il cappotto fradicio e si scosta i capelli bagnati dalla fronte: è come se fosse appena uscita dalla doccia.

«Non si buscherà una polmonite, bagnata com’è?» chiede Suzanna Paulsson. «Che sciocca! Dimentico che lei è una dottoressa! Venga in cucina, le offro qualcosa di caldo.»

Kay Scarpetta si guarda intorno nel piccolo salotto, soffermandosi sulla cenere ormai spenta nel caminetto, sul divano sotto la finestra, sulle due porte che conducono da una parte e dall’altra della casa. La signora Paulsson se ne accorge e si irrigidisce. Non è una brutta donna, solo un tantino ordinaria.

«Perché è qui, dottoressa?» le chiede, diffidente. «Che cosa è venuta a fare? Credevo volesse parlarmi di Gilly, ma non mi sembra sia questa la sua intenzione.»

«Forse anche oggi Gilly è solo una scusa» replica criptica Kay Scarpetta. È in piedi al centro della stanza e si guarda apertamente in giro.

«Non ha nessun diritto di trattarmi a questo modo» sbotta la signora Paulsson. «Se ne vada, la prego. La accompagno alla porta.»

«No, non me ne vado. Se vuole, chiami pure la polizia. Non me ne andrò finché non avremo parlato di quello che è successo ieri sera.»

«Sì, penso proprio che chiamerò la polizia. Quel mostro! Dopo tutto quello che ho passato, viene qui e approfitta di me… Le sembra giusto infierire su una poveretta già allo stremo delle forze? Avrei dovuto immaginarlo, comunque. Si vede subito, che è un bruto.»

«Chiami pure la polizia, signora Paulsson» la provoca Kay Scarpetta. «Io racconterò la mia versione dei fatti. Che sarà molto diversa dalla sua, immagino. Le spiace se do un’occhiata in giro? So dove sono la cucina e la camera di Gilly, quindi penso che camera sua sia uscendo da questa porta a sinistra.» Si incammina.

«Non si rende conto di quanto è invadente?» scatta la signora Paulsson. «Se ne vada! Non ha nessun diritto di farsi gli affari miei.»

La camera da letto di Suzanna Paulsson è più grande di quella di Gilly, ma non di molto. Ci sono un letto matrimoniale, due antichi comodini di noce, due comò appoggiati alla parete e due porte: una conduce al bagno e l’altra alla cabina armadio. Vicino a quest’ultima ci sono un paio di anfibi neri, di pelle. Kay Scarpetta prende dalla tasca un paio di guanti di cotone e se li infila, guardando fissa gli anfibi. Dà un’occhiata ai vestiti appesi nell’armadio, poi si volta ed entra nel bagno. Appoggiata sul bordo della vasca c’è una maglietta mimetica.

«Chissà che cosa le ha raccontato» dice la Paulsson, in piedi in fondo al letto. «E lei gli ha creduto, naturalmente. Be’, vedremo a chi crederà la polizia. Io penso che crederanno a me.»

«Giocava alla soldatessa anche quando sua figlia era in casa e la poteva vedere?» domanda Kay Scarpetta, guardandola negli occhi. «So che quel gioco a Frank piaceva molto. È stato lui a insegnarglielo o è lei l’inventrice? Lo facevate anche davanti a Gilly? E con chi? Coinvolgevate altre persone? E a costoro che si riferisce quando dice che le hanno portato via la sua bambina? A quelli che partecipavano ai vostri giochetti erotici?»

«Non mi parli in questo modo!» esclama, con una smorfia di rabbia e di disprezzo sul volto. «Non capisco a che cosa si riferisce.»

«Penso che lei capisca benissimo, signora» ribatte Kay Scarpetta avvicinandosi al letto e afferrando le lenzuola con le mani protette dai guanti. «Non le ha cambiate, vedo. Molto bene. Ci sono macchie di sangue. Scommetto che risulterà essere di Marino e non suo.» La fissa. «Marino è pieno di graffi e di morsi, lei no. Vorrà dire qualcosa, vero? Non dovrebbe esserci anche un asciugamano sporco di sangue, da queste parti?» Si guarda intorno. «Lo ha già lavato? Non ha importanza. Anche se è stato lavato, riusciremo comunque ad accertare quel che ci serve.»

«Lei è ancora peggio di lui, dottoressa. Infierire così su una povera donna in lutto!» La signora Paulsson protesta, ma ha cambiato faccia. «Da una donna mi sarei aspettata maggiore compassione.»

«E perché dovrei provare compassione per una donna che fa del male a un uomo e poi lo accusa di averla aggredita? Non ne vedo il motivo, in tutta sincerità.» Comincia a disfare il letto.

«Che cosa sta facendo? Non si permetta.»

«Mi permetto eccome, invece. Stia a vedere.» Toglie le lenzuola dal letto e le avvolge, assieme alle federe, dentro la trapunta.

«Non può farlo. Non è una poliziotta.»

«Sono peggio. Si fidi.» Posa il fagotto di biancheria sul materasso. «Vediamo.» Si guarda intorno. «Forse quando stamattina lo ha incontrato all’Istituto di medicina legale, non se ne è accorta, ma Marino ha ancora i pantaloni che indossava ieri sera. Non si è cambiato neppure la biancheria. Lei sa che quando un uomo ha un rapporto sessuale, poi dagli slip si vede. In certi casi, si vede anche dai calzoni. Invece sulla biancheria di Marino ci sono solo ed esclusivamente macchie di sangue. Inoltre, signora Paulsson, forse lei non si è resa conto che anche con le tende tirate da fuori si vede se lei è con qualcuno, se litiga o se ha un incontro amoroso. Naturalmente finché è in piedi. Perciò non escluda che qualche vicino si sia accorto che era in compagnia, visto che c’erano le luci e il caminetto accesi.»

«Potremmo aver cominciato bene e poi…» dice la signora Paulsson, che sembra aver deciso quale posizione assumere. «Non c’è niente di male, no? Un uomo e una donna si trovano bene l’uno con l’altra, fanno delle cose… Poi, però, se non si va avanti la donna rimane frustrata. Mi ha fatto vestire come voleva lui e poi… Capisce? Non ce l’ha fatta. Da un omone grande e grosso come lui non me l’aspettavo.»

«Gli ha dato da bere troppo bourbon, forse» rimarca Kay Scarpetta. A questo punto è abbastanza sicura che Marino non abbia fatto niente alla signora Paulsson. Il problema è che lui invece è tuttora convinto del contrario e l’idea di non esserci riuscito lo terrorizza, quindi è meglio non insistere.

Kay Scarpetta si china a prendere gli anfibi e li posa sul letto: sembrano enormi e minacciosi.

«Sono di Frank» precisa la signora Paulsson.

«Se lei li ha indossati, risulterà dalle tracce biologiche.»

«Mi stanno troppo grandi.»

«Ha sentito che cosa le ho detto, signora Paulsson? Possiamo fare la prova del DNA.» Va nel bagno a prendere la maglietta mimetica. «Suppongo che anche questa sia di Frank.»

La signora Paulsson resta zitta.

«Se la sua offerta è ancora valida, adesso potremmo accomodarci in cucina» dice Kay Scarpetta. «Un caffè mi farebbe molto piacere. Che bourbon avete bevuto ieri sera? Non starà granché bene neppure lei, oggi, a meno che non abbia riempito solo il bicchiere di Marino. Lui è a pezzi. Ha avuto addirittura bisogno di cure mediche.» Si dirige verso la cucina.

«Cure mediche?»

«Sì, ha avuto bisogno di un dottore.»

«È andato dal dottore?»

«È stato visitato. E gli sono state fatte alcune fotografie. È molto sofferente» spiega Kay Scarpetta. Entra in cucina e vede la caffettiera vicino al lavandino. Lì accanto, ieri, c’era lo sciroppo per la tosse, che adesso non c’è più. Si sfila i guanti di cotone e se li mette in tasca.

«È giusto che soffra, dopo quello che mi ha fatto…»

«La pianti con questa sceneggiata» la interrompe Kay Scarpetta, mettendo l’acqua nella caffettiera. «È inutile. Se le ha lasciato dei segni, me li mostri.»

«Se mai, li mostro alla polizia.»

«Dove posso trovare il caffè?»

«Non so che cosa le ha raccontato, ma di certo non la verità» ribatte la signora Paulsson, aprendo il frigo per prendere un sacchetto di caffè. Poi cerca i filtri di carta e li posa sul bancone.

«La verità è sempre difficile da scoprire» replica Kay Scarpetta. Apre il sacchetto, sistema un filtro nella caffettiera, e ci mette il caffè. «Mi chiedo come mai non riusciamo a scoprire che cosa è successo a Gilly e adesso nemmeno ad accertare come sono andate veramente le cose ieri sera. Qual è la sua verità, signora Paulsson? Sono qui per ascoltarla.»

«Non voglio denunciare Pete» dice lei con amarezza. «Altrimenti l’avrei già fatto, non crede? Il fatto è che credevo che a lui piacesse.»

«Credeva che gli piacesse?» Kay Scarpetta si appoggia al bancone e incrocia le braccia. Dalla caffettiera comincia a uscire un buon aroma di caffè. «Be’, se lo vedesse oggi, probabilmente cambierebbe idea.»

«Non so come sia, oggi.»

«Lei si muove bene, senza problemi. Da questo deduco che Marino non le ha fatto del male. Non credo che le abbia fatto niente di niente, se devo dire. Aveva bevuto troppo… E poi l’ha ammesso lei stessa, no?»

«Avete una relazione? È per questo che è venuta da me?» Lancia a Kay Scarpetta un’occhiata in tralice, incuriosita.

«Sì, abbiamo una relazione profonda, ma non come pensa lei. Le ho detto che sono laureata anche in giurisprudenza, a proposito? Vuole che le spieghi che cosa succede a chi accusa falsamente una persona di violenza carnale? È mai stata in carcere, signora Paulsson?»

«La sua è gelosia, si vede benissimo.» Sorride.

«Pensi quello che vuole. Ma tenga conto che rischia il carcere. Se lo accusa di averla violentata e le prove dimostrano che non è vero, verrà condannata.»

«Non accuserò nessuno, stia tranquilla» replica lei, assumendo un’espressione dura. «Anche perché io non sono una donna che si possa violentare. Chi ci prova, fa una brutta fine. Un bambino, ecco cos’è il suo amico: un bambino. Credevo che fosse una persona interessante, ma mi sbagliavo. Se lo tenga pure, dottoressa, avvocato o che cos’altro è.»

Il caffè è pronto. Kay Scarpetta chiede dove sono le tazze e la signora Paulsson le prende, assieme a due cucchiaini. Lo bevono in piedi. A un certo punto, la signora Paulsson si mette a piangere. Si morde il labbro e le lacrime cominciano a scorrerle sulle guance. Scuote la testa, sconsolata.

«Non andrò in carcere.»

«Certo, sarebbe meglio. Nessuno vuole che lei ci vada» dice Kay Scarpetta, sorseggiando il caffè. «Perché lo ha fatto?»

«È una cosa personale fra me e Pete.» Non la guarda in faccia.

«Se ci sono di mezzo lividi e lesioni, la cosa cessa di essere personale e diventa un reato. Lei fa sempre sesso in maniera così violenta?»

«Cos’è, una puritana?» ribatte la donna. Va a sedersi al tavolo. «Non ha molta esperienza, immagino.»

«Probabile. Mi spieghi i suoi giochi erotici.»

«Se li faccia spiegare da Pete.»

«Già fatto.» Beve un sorso di caffè. «Lei li fa spesso, vero? Li faceva anche con Frank, il suo ex marito?»

«Perché dovrei dirle certe cose, scusi?» protesta. «Non ne vedo il motivo.»

«La rosa nel cassetto di Gilly. Ha detto che forse Frank ne sapeva qualcosa. Che cosa intendeva?»

La signora Paulsson non vuole rispondere. Fa una smorfia rabbiosa, piena di odio, e stringe la tazza fra le mani.

«Signora Paulsson, lei pensa che Frank possa aver fatto qualcosa a Gilly?»

«Non so chi le ha regalato quella rosa» replica la donna, guardando il muro. Lo fissava anche ieri, quando erano sedute a quello stesso tavolo. «Io no. Non sapevo nemmeno che c’era, non l’avevo mai vista. Eppure metto spesso le mani nei cassetti di Gilly: li avevo aperti il giorno prima per riporre la roba stirata. Gilly era disordinatissima, lasciava tutto in giro. Non ho mai visto rose in camera sua. Gilly l’avrebbe lasciata a mezzo di sicuro: era disordinata da morire.» Si rende conto di quello che ha detto e tace, guardando il muro.

Kay aspetta di vedere se aggiunge qualcosa. Passa un minuto. Il silenzio è pesante.

«La cosa peggiore era la cucina» dice la signora Paulsson dopo un po’. «Ogni volta che si preparava un panino, lasciava tutto in disordine. Prendeva il gelato e non lo rimetteva nel freezer. Sa quanta roba mi è toccato buttare via?» Assume un’espressione cupa. «E il latte? Lo lasciava sul tavolo, così inacidiva.» Con voce stridula aggiunge: «Mi faceva venire un nervoso… Sa che cosa vuol dire?».

«Sì» risponde Kay Scarpetta. «È uno dei motivi per cui ho divorziato.»

«Be’, anche Frank non era da meno» continua la signora Paulsson, sempre senza guardarla. «Fra tutti e due, mi davano un gran daffare.»

«Ammesso che Frank abbia fatto qualcosa a Gilly, che cosa potrebbe essere stato?» chiede Kay Scarpetta, attenta a formulare le domande in maniera che la Paulsson non possa rispondere semplicemente sì o no.

La donna continua a guardare il muro, senza battere ciglio. «Qualcosa le ha fatto di sicuro.»

«Dal punto di vista fisico, intendo. Gilly è morta.»

La signora Paulsson sta di nuovo per piangere. Si frega gli occhi, sempre guardando lontano. «Non era qui, quando è successo. Non in casa, per quel che ne so.»

«Quando è successo cosa?»

«Quello che è successo quella mattina, mentre io ero fuori. Quando sono andata a comprare lo sciroppo per la tosse.» Si asciuga gli occhi. «Sono tornata e ho trovato la finestra aperta. Non so se l’ha aperta Gilly. Non dico che è stato Frank, dico che lui c’entra. Quell’uomo ha il potere di distruggere tutto ciò che tocca. E pensare che fa il medico! Non so se mi spiego…»

«Io adesso devo andare, signora Paulsson. So che non è stato un colloquio facile, da nessun punto di vista. Ha il mio cellulare: se le viene in mente qualcosa di importante, mi chiami.»

La signora Paulsson annuisce, in lacrime.

«Forse dovrebbe dirci chi bazzicava per casa, magari invitato proprio da Frank. Un conoscente, che so, uno con cui facevate i vostri “giochetti”.»

Va verso la porta. La signora Paulsson non si alza.

«Se le viene in mente qualcuno, me lo dica» conclude Kay. «Gilly non è morta per colpa dell’influenza. È importante che capiamo che cosa le è successo esattamente. E lo scopriremo, prima o poi. Immagino che lei preferisca prima che poi.»

La signora Paulsson continua a fissare il muro.

«Adesso vado» dice Kay Scarpetta. «Non esiti a chiamarmi, a qualsiasi ora. Anche se ha bisogno di qualcosa. Senta, ha mica qualche sacco per la spazzatura da prestarmi?»

«Sono sotto il lavabo. Se sono per quello che penso io, non ce n’è bisogno» mormora.

Kay Scarpetta apre lo sportello sotto il lavabo e prende quattro sacchi di plastica da una scatola. «Io prendo tutto comunque» dice. «Se non ce ne sarà bisogno, meglio.»

Va nella camera da letto di Suzanna Paulsson e infila dentro due sacchi di plastica le lenzuola, in un altro gli anfibi e in un altro ancora la maglietta. Va in salotto, si mette il cappotto ed esce nella pioggia gelida con i quattro sacchi in mano. Cammina in una pozzanghera e si bagna i piedi.

Загрузка...