Benton Wesley passeggia da una finestra all’altra della sua casa di Aspen. La voce che gli sta parlando al cellulare va e viene.
«Come hai detto? Scusa, puoi ripetere?» Fa tre passi indietro e, nel sentire più chiara la voce di Marino, si ferma.
«Ho detto che non è tutto. La situazione è molto più complicata. Secondo me, quel bastardo voleva farle fare una figura di merda. Non ci è riuscito, naturalmente, però…»
Benton osserva la neve che si è raccolta sui pioppi e sugli abeti. È la prima bella mattina di sole da diversi giorni e le gazze volano di ramo in ramo. Benton ne segue i movimenti e cerca di capire il motivo di tanta attività, sforzandosi di trovare un rapporto di causalità biologica in quello svolazzare apparentemente senza senso. Come se la cosa avesse importanza… Ma forse il suo è un riflesso condizionato.
«Lo immagino» risponde con un sorriso. «Ma non credo che l’abbia provocata per scelta: deve aver ricevuto ordini dall’alto. C’è dietro il commissario alla Sanità.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Dopo che mi ha detto dove andava, ho fatto una telefonata.»
«Peccato che non sia potuta venire ad Asp…» Marino si zittisce improvvisamente.
Benton si avvicina all’altra finestra, dando le spalle al caminetto acceso, e guarda fuori: stavolta si concentra sulla casa dall’altra parte della strada, forse perché il portone si sta aprendo e stanno uscendo un uomo e un ragazzo in tenuta da sci, con il fiato che gli si condensa nell’aria.
«Penso che ormai se ne sarà accorta» osserva Benton. «Che la stanno sfruttando, intendo dire.» Conosce Kay Scarpetta abbastanza bene da prevedere le sue reazioni. «Ti assicuro che conosce la politica e capisce quando certe mosse sono politiche. Purtroppo non si tratta solo di questo. Mi senti?»
Osserva l’uomo e il ragazzo che si allontanano lentamente con gli sci in spalla, le racchette in mano e gli scarponi mezzi slacciati. Benton non va a sciare, in questo periodo: ha troppo da fare.
«Eh?» Marino ha preso l’abitudine di dire spesso “Eh?”, e lui lo trova irritante.
«Mi senti?» ripete.
«Sì, adesso ti sento» risponde Marino, e Benton capisce che si sta spostando in cerca di un punto in cui ci sia più campo. «La tratta come una pezza da piedi, manco non l’avesse chiamata lui per farsi dare una mano. Non so dirti altro, per adesso. Appena ne so un po’ di più ti richiamo. Della ragazza, intendo dire.»
Benton sa di Gilly Paulsson. Della sua morte misteriosa non si è parlato sulla stampa nazionale, ma lui sa navigare in Internet e può accedere a informazioni molto riservate. Qualcuno sta sfruttando anche Gilly Paulsson. Certa gente, oltre che dei vivi, approfitta anche dei morti.
«Ti ho perso di nuovo… Uffa!» esclama. Riuscirebbero a parlare molto meglio, se potessero usare il telefono fisso. Ma non si può.
«Io ti sento, capo» dice la voce di Marino, improvvisamente chiarissima. «Perché non mi chiami dal fisso? Almeno ci sentiremmo…» dice, come se gli avesse letto nel pensiero.
«Meglio di no.»
«Pensi di avere il telefono sotto controllo?» Marino non scherza. «Puoi accertarlo, se hai questo dubbio. Chiedi a Lucy.»
«Grazie del suggerimento.» Benton non ha bisogno dell’aiuto di Lucy per questo tipo di cose, e non è di cimici e microspie che ha paura.
Segue con lo sguardo l’uomo e il ragazzo che vanno a sciare e pensa a Gilly Paulsson. Il ragazzo in tenuta da sci deve avere l’età che aveva Gilly quando è morta: tredici, quattordici anni. Solo che Gilly non è mai andata a sciare. Non è mai stata in Colorado, né da nessun’altra parte. È nata, vissuta e morta a Richmond e nella sua breve vita ha sofferto molto. Benton nota che si sta alzando il vento, che soffia via la neve dagli alberi come sbuffi di fumo.
«Vorrei che le dicessi questo» continua. Sottolinea il “le” perché Marino capisca che si riferisce a Kay. «Il suo successore, se vogliamo chiamarlo così…» Si interrompe. Non vuole fare il nome di Marcus o entrare nei dettagli, ma gli dà fastidio definire quel verme di Joel Marcus “il successore” di Kay Scarpetta. «… è una persona interessante» dice criptico. «Quando mi raggiungerà, le spiegherò più diffusamente perché. Per ora, raccomandale la massima prudenza.»
«A proposito di “raggiungerti”, ti avverto che secondo me ne avremo per un bel po’.»
«Dille di chiamarmi.»
«Perché tutte queste raccomandazioni?» si preoccupa Marino. «Perché “massima prudenza”?»
«Stalle vicino ovunque vada, mi raccomando.»
«Eh?»
«Resta con lei, mi hai capito?»
«Non sarà tanto contenta…» gli fa presente Marino.
Benton guarda i ripidi pendii innevati spazzati dal vento e punteggiati dagli alberi tutto intorno al paese e si sofferma sulle nuvole grigie che stanno coprendo il cielo. Prima di sera nevicherà di nuovo, pensa.
«Lo so.»
«Mi ha detto che hai da fare, che stai lavorando.»
«Sì.» Benton non vuole approfondire.
«Be’, è un peccato che tu stia lavorando e lei anche. Cosa fai, resti lì, anche se hai da fare?»
«Per il momento, sì» risponde Benton.
«Dev’essere una cosa grave, se te ne occupi in vacanza» lo sonda Marino.
«Non te ne posso parlare.»
«Eh? Maledetto telefono…» impreca Marino. «Bisogna che dica a Lucy di inventare un aggeggio che impedisca di intercettare le telefonate. Se ci riuscisse, guadagnerebbe una fortuna.»
«Lucy guadagna già una fortuna. Non ha bisogno di inventare niente.»
«Lo so.»
«Allora, mi raccomando» conclude Benton. «Se non ci sentiamo nei prossimi giorni, tu stalle sempre vicino. Stai attento a lei e anche a te. Non scherzo, Marino.»
«Lo so benissimo» ribatte Marino. «E tu sta’ attento a non farti male sciando.»
Benton chiude la comunicazione e torna a sedersi sul divano di fronte alla finestra, accanto al camino. Sul tavolino di noce davanti al divano ci sono un blocco di appunti scritti con la sua grafia quasi indecifrabile e una Glock calibro .40. Prende gli occhiali dal taschino della camicia di jeans, si appoggia al bracciolo e comincia a sfogliare il blocco. Ogni pagina è numerata e nell’angolo in alto a destra c’è una data. Si gratta il mento e si accorge di avere una barba di due giorni. Circoletta le parole “paranoia collettiva” e piega la testa da una parte.
A margine del foglio scrive: “Lacune da colmare. Grosse. Siamo vicini al limite. Vera vittima = L. non H. H. = personalità narcisista”. Sottolinea tre volte la parola “narcisista”. Poi scrive “istrionica” e la sottolinea due volte. Gira pagina. Il titolo è “Comportamento post trauma”. Sente un rumore di acqua che scorre e si meraviglia di non averla sentita prima. “Massa critica. Natale = limite. Tensione insostenibile. Prox omicidio entro Natale” scrive. Poi alza gli occhi, percependo la presenza della donna prima di sentirne i passi.
«Chi era?» domanda Henri, diminutivo di Henrietta. È in fondo alla scala, con la mano appoggiata sulla ringhiera, e lo guarda.
«Buongiorno» la saluta Benton. «Di solito fai la doccia. Il caffè è pronto.»
Henri Walden si chiude la vestaglia di flanella rossa intorno alla vita sottile. Ha gli occhi verdi ancora assonnati e un po’ reticenti. Osserva Benton con l’aria di chi è in credito per qualcosa. Ha ventotto anni ed è attraente, anche se non propriamente bella. I suoi lineamenti sono tutt’altro che perfetti, perché ha il naso grosso e i denti non proprio drittissimi, ma è molto affascinante, anche quando cerca di non esserlo. In questo preciso momento, però, si sente bruttissima e Benton non prova a convincerla del contrario perché sarebbe troppo pericoloso.
«Ho sentito che parlavi al telefono» dice Henri. «Era Lucy?»
«No» risponde lui.
«Ah.» È chiaramente delusa e infastidita. «Ho capito. E chi era, allora?»
«Era una conversazione privata, Henri» risponde Benton, togliendosi gli occhiali. «Abbiamo stabilito dei limiti, ti ricordi?»
«Sì, lo so» risponde lei, sempre tenendo la mano sulla ringhiera. «Ma se non era Lucy, chi era? Sua zia? Lucy parla sempre di sua zia.»
«Sua zia non sa che sei qui, Henri» spiega Benton paziente. «Lo sanno soltanto Lucy e Rudy.»
«Tu e la zia di Lucy state insieme, vero?»
«Solo Lucy e Rudy sanno che sei qui» ribadisce Benton.
«Allora era Rudy? Che cosa voleva? So che gli piaccio.» Sorride e assume un’espressione che Benton trova inquietante. «Rudy è un bellissimo ragazzo. Mi sarei dovuta mettere con lui. Ci sarebbe stato. Avrei potuto sedurlo quando eravamo fuori con la Ferrari. Quando ero fuori con la Ferrari potevo sedurre chiunque. Non ho mica bisogno di Lucy, per poter andare in giro in Ferrari.»
«Ricordati i limiti, Henri» dice Benton. Gli è difficile accettare la sconfitta, per quanto ce l’abbia davanti agli occhi: da quando Lucy ha portato Henri ad Aspen e gliel’ha affidata, si sente avvolto da una nube oscura.
“Tu non le farai del male” gli ha detto Lucy. Come a dire che sarebbe stato facilissimo fare del male a Henri, approfittare di lei e della situazione per scoprire un sacco di cose a proposito di loro due.
“Non sono uno psichiatra” le ha risposto Benton.
“Henri ha bisogno di qualcuno che la aiuti a superare il trauma. Tu sei uno psicologo, è il tuo mestiere. Cerca di capire che cosa le è successo. Dobbiamo scoprire come sono andate le cose” gli ha detto Lucy. Era fuori di sé, in preda al panico. Lei, che non si lascia mai prendere dal panico. È convinta che Benton possa fare miracoli, ma non è vero. Sarà anche bravo a capire le persone, ma questo non vuol dire che sia in grado di aiutarle a superare i loro problemi. Henri non è un ostaggio, può andarsene quando vuole. E lo turba vedere che, nonostante ciò, non se ne va. Come se stesse bene lì con lui, si divertisse.
Ha scoperto molte cose nei quattro giorni che ha trascorso con lei. Henri Walden ha una personalità disturbata, ce l’aveva anche prima di essere aggredita. Se non ci fossero le fotografie, Benton penserebbe che Henri abbia inscenato tutto quanto. Teme che in questo momento sia solo lievemente più disturbata di come è normalmente e questo pensiero lo turba. Non riesce a capire che cosa avesse in testa Lucy, quando ha cominciato a frequentarla. Probabilmente è stata impulsiva, o forse era obnubilata.
«Lucy ti lasciava guidare la Ferrari?» chiede a Henri.
«Quella nera no.»
«E quella grigia metallizzata?»
«Non è grigia, è azzurra. Su quella ci andavo quando volevo.» Lo guarda, sempre con la mano sulla ringhiera delle scale, i lunghi capelli scompigliati, gli occhi assonnati, come se posasse per una foto sexy.
«La guidavi, Henri?» chiede Benton, perché vuole essere sicuro. È importante capire come ha fatto il suo aggressore a puntarla. Benton non crede che Henri fosse una vittima casuale, scelta a caso, solo perché è una donna giovane e bella e si è trovata al momento sbagliato nella casa sbagliata o sulla Ferrari sbagliata.
«Te l’ho già detto» ribatte lei seccata, con la faccia inespressiva. Solo lo sguardo è vivo, attraversato da ombre inquietanti… «Quella nera non la lascia prendere a nessuno.»
«E quando è stata l’ultima volta che hai guidato la Ferrari azzurra metallizzata?» le chiede Benton con il tono pacato di sempre, cercando di raccogliere più informazioni che può. Non importa se Henri è seduta, in piedi o in giro per casa, se è in vena di parlare, è importante cogliere l’attimo e cercare di farsi dire più cose possibili. Indipendentemente dagli effetti che questo può avere su di lei, Benton vuole scoprire come è stata aggredita e perché. Per certi versi, di Henri poco gli importa. A lui interessa Lucy.
«Faccio la mia figura, su quella macchina» risponde lei con lo sguardo acceso e il volto inespressivo.
«La guidavi spesso, Henri?»
«Tutte le volte che volevo.» Lo fissa.
«Tutti i giorni, per andare al campo?»
«Quando mi pareva.» Lo fissa imperturbabile, ma con una luce rabbiosa negli occhi.
«Ti ricordi quando l’hai presa l’ultima volta?»
«Non lo so. Prima di stare male.»
«Prima che ti venisse l’influenza, intendi dire? E cioè? Due settimane fa?»
«Non lo so.» Sta opponendo resistenza. Benton sa che non gli dirà più niente a proposito della Ferrari ed evita di insistere, perché anche le resistenze e le difese hanno un loro significato.
Benton è bravo a capire ciò che non viene detto e Henri gli ha ribadito che poteva prendere la Ferrari tutte le volte che voleva, che faceva una bella figura quando la guidava e che questo le piaceva perché ama attirare l’attenzione. Henri adora essere al centro dell’universo, creatrice di caos, protagonista di drammi folli. Anche solo per questo, viene spontaneo pensare che si sia inventata tutto e nessuno abbia mai tentato di ucciderla. Ma non è vero: l’aggressione è avvenuta sul serio. È questa la cosa strana: quel dramma, assurdo e pericoloso, è reale e Benton ha paura per Lucy. È sempre stato preoccupato per lei, ma adesso lo è in maniera particolare.
«Con chi parlavi prima al telefono?» Henri ritorna sull’argomento. «Rudy sente la mia mancanza? Mi sarei dovuta mettere con lui. Ho perso troppo tempo.»
«Vogliamo riprendere il discorso dei limiti, Henri?» dice Benton e ripete le stesse cose che ha già detto il giorno prima e quello prima ancora, quando ha scritto quegli appunti sul blocco.
«Va bene» replica Henri dal fondo delle scale. «Ha chiamato Rudy. Non me lo vuoi dire, ma era lui.»