Il dottor Joel Marcus le rivolge un sorriso formale e Kay Scarpetta gli stringe la mano piccola e ossuta. Sa di essere prevenuta nei confronti del nuovo direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia, ma cerca di non lasciarsi suggestionare e di mantenersi indifferente.
È venuta a sapere di lui alcuni mesi fa, per caso, come sempre. Era in aereo, leggeva “USA Today”, e le è caduto l’occhio su un trafiletto dal titolo Nominato il nuovo direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia. Dopo che per anni l’istituto era stato diretto da un “facente funzioni”, il governatore aveva finalmente nominato un nuovo direttore, senza interpellarla. Nessuno le aveva chiesto consiglio, né un parere sul candidato.
Se lo avessero fatto, lei avrebbe detto di non aver mai sentito nominare il dottor Marcus. E avrebbe aggiunto, diplomaticamente, che forse l’aveva incontrato a qualche convegno, ma non lo ricordava: doveva senza dubbio essere un anatomopatologo di tutto rispetto, se era candidato a ricoprire una carica tanto importante…
Stringendogli la mano e guardandolo negli occhi, piccoli e freddi, si rende conto di non averlo mai visto prima. Il dottor Marcus non deve essere mai stato membro di nessuna commissione di rilievo e non ha mai parlato a nessun convegno a cui lei ha partecipato, altrimenti se lo ricorderebbe. A volte dimentica i nomi, ma le facce no.
«Finalmente ci conosciamo, Kay» le dice Marcus, di nuovo chiamandola per nome. Quell’uomo è veramente offensivo e, se per telefono ha cercato di fare finta di niente, lì, nell’atrio del Biotech II dove un tempo regnava incontrastata, non riesce a non restarci male. Marcus è minuto, basso, con la faccia sottile e pochi capelli. Sembra minuscolo, uno gnomo. Ha una camicia bianca da quattro soldi che gli fa difetto intorno al collo, una cravatta fuori moda, pantaloni grigi sformati e un paio di mocassini. Sotto la camicia, si vede che porta una canottiera di cotone.
«Prego, si accomodi» le dice. «Purtroppo stamattina abbiamo un sacco di autopsie in programma.»
Kay Scarpetta non ha ancora fatto in tempo a dirgli di Marino che questo sbuca dalla toilette degli uomini finendo di abbottonarsi i calzoni neri. Ha il berretto del LAPD calato sugli occhi. Kay fa le presentazioni in tono molto formale e aggiunge: «L’ispettore Marino è molto in gamba. Ha lavorato anche per il Dipartimento di Richmond».
Il dottor Marcus è indispettito. «Non mi aveva detto che sarebbe venuta accompagnata» ribatte sgarbato. Kay Scarpetta è irritata: è arrivata venti minuti fa, ha firmato il registro ed è stata lì impalata nell’atrio di granito e cristallo ad aspettare che qualcuno venisse a prenderla. «Le avevo detto che si trattava di una questione delicata.»
«Non si preoccupi, sono abituato alle situazioni delicate» risponde Marino a voce alta.
Marcus si irrigidisce, e Kay Scarpetta si accorge che è furibondo.
«Anzi, le dirò: sono più che abituato. Abituatissimo. Non faccio altro, nella vita, che occuparmi di questioni delicate» aggiunge. Poi vede entrare una guardia e gli urla: «Ciao, Bruce! Tutto bene? Giochi sempre a bowling?».
«Mi dispiace» dice Kay Scarpetta a Marcus. «Mi sembrava di averle detto che l’ispettore Marino sarebbe venuto con me.» Sa benissimo di non averlo fatto e non è per nulla dispiaciuta. Il dottor Marcus le ha chiesto una consulenza e lei ha il diritto di portarsi dietro chi vuole. E poi è arrabbiata con lui perché la chiama Kay.
Bruce guarda Marino senza riconoscerlo, poi si avvicina sorridendo. «Marino! Per la miseria, non mi aspettavo di vederti qui! Da quanto tempo…»
«No, non me lo ha detto» insiste Marcus, momentaneamente in difficoltà e confuso.
«Eh, lo so che non ti aspettavi di vedermi qui» replica Marino con una smorfia.
«Senta, non so se posso permettere all’ispettore di entrare. Dovrei chiedere l’autorizzazione…» Colto alla sprovvista, Marcus si è lasciato sfuggire che non è lui il capo: forse è stato qualcun altro a decidere di interpellarla, di farla tornare lì.
«Quanto tempo ti trattieni?» chiede Bruce a Marino.
Ripensandoci, Kay Scarpetta ha intuito fin dal principio che qualcosa non andava, ma non si è data ascolto.
«Mi tratterrò il tempo che ci vorrà.»
Si rende conto di aver sbagliato. Sarebbe dovuta andare ad Aspen.
«Vienimi a trovare, se vuoi.»
«Certamente, Bruce.»
«Adesso basta, per favore» li interrompe Marcus. «Non siamo mica al bar.»
Porta la chiave del suo regno appesa al collo. Si china e passa il tesserino magnetico sullo scanner a raggi infrarossi accanto alla porta a vetri che conduce all’ala riservata al direttore. Kay Scarpetta ha la bocca secca e le ascelle sudate. Con un nodo allo stomaco entra negli uffici di quello che un tempo era il suo regno. È stata lei a trovare i fondi per costruirlo e ne ha seguito puntualmente la progettazione. Il divano e la poltrona blu, il tavolino di legno e il paesaggio campestre appeso alla parete sono rimasti identici. Neanche la reception è cambiata, a parte le piante, che non ci sono più. Kay era entusiasta dei suoi due tronchetti e degli ibischi. Li innaffiava personalmente, toglieva le foglie secche e li spostava perché fossero sempre in piena luce.
«Mi dispiace, ma è meglio che il suo ospite non prosegua oltre» decide Marcus, fermandosi davanti a un’altra porta chiusa, che conduce agli uffici amministrativi e all’obitorio.
Il tesserino magnetico apre anche questa e Marcus la oltrepassa rapido. Gli occhiali con la montatura di metallo brillano sotto i neon. «Sono arrivato tardi perché ho trovato traffico. Purtroppo abbiamo moltissimo lavoro. Otto autopsie» continua parlando a Kay Scarpetta come se Marino non esistesse. «Adesso ho la riunione con lo staff. Probabilmente la cosa migliore è che lei si prenda un caffè, Kay. Potrei metterci un po’. Julie?» dice poi, rivolgendosi a un divisorio dietro cui un’impiegata sta scrivendo al computer. «Per favore, può far vedere alla signora la macchinetta del caffè?» Poi, a Kay: «Si accomodi pure in biblioteca. La raggiungerò appena possibile».
È molto scortese a chiamarla “signora” e a non invitarla alla riunione e nella sala autopsie, visto che l’ha chiamata lui. Si sente come se le avesse chiesto di portargli due camicie in lavanderia.
«L’ispettore è meglio che vada» ribadisce Marcus, guardandosi intorno impaziente. «Julie, può accompagnare il signore nell’atrio?»
«L’ispettore resta con me» interviene Kay in tono pacato.
«Come ha detto, scusi?» Marcus si volta a guardarla negli occhi.
«L’ispettore resta con me» ripete.
«Forse lei non ha ben capito la situazione» insiste lui, stizzito.
«Forse. Vuole spiegarmela meglio?»
Marcus trattiene a stento la stizza. «E va bene» acconsente. «Andiamo un momento in biblioteca.»
«Ti spiace aspettarci qui?» dice Kay Scarpetta a Pete Marino, sorridendogli.
«Nessun problema» risponde lui. Si avvicina alla scrivania di Julie e prende in mano una serie di fotografie, come fossero carte da gioco. Ne stringe una fra l’indice e il pollice. «Sa perché gli spacciatori hanno meno massa grassa di me e di lei, signorina?» chiede poi all’impiegata, posandole la foto sulla tastiera.
Julie, che dimostra venticinque anni ed è carina ma cicciottella, osserva la foto del ragazzo nero, giovane e muscoloso, steso sul tavolo da autopsia. È nudo, con il torace aperto e svuotato di tutti gli organi tranne uno, molto ingrossato. «Mi sta prendendo in giro, vero?» dice Julie.
«No, no. Dico sul serio.» Si avvicina una sedia e si accomoda accanto alla ragazza. «Vede, la massa grassa è direttamente proporzionale al peso del cervello. Guardi me e lei, per esempio. Tendiamo a ingrassare, no?»
«Altroché. Davvero le persone intelligenti ingrassano di più?»
«È accertato. Io e lei facciamo una fatica terribile a non mettere su chili.»
«Non mi dica che lei mangia tutto integrale e biologico.»
«Certamente. Io ormai di bianco cerco solo le donne. Eppure, guardi, se fossi uno spacciatore potrei mangiare tutto quello che voglio. Altro che farina integrale… Pane bianco, brioche, e chi più ne ha più ne metta. Perché non avrei cervello. Questa è gente stupida, che muore per stupidità, e può mangiare tutte le porcherie che vuole senza mettere su nemmeno un etto.»
Voci e risate si attenuano quanto più Kay si allontana lungo un corridoio che conosce benissimo. Ricorda perfettamente la sensazione della folta moquette grigia sotto le scarpe. Ricorda perfettamente il giorno in cui la scelse.
«L’ispettore non si sa comportare» dice Marcus. «Fare conversazione a quel volume nell’atrio… Un po’ di decoro, che diamine!»
Le pareti sono scrostate e le stampe di Norman Rockwell che aveva portato lei in ufficio sono storte. Inoltre, ne mancano due. Sbircia nelle stanze che hanno la porta aperta e nota che le scrivanie sono ingombre di carte e diapositive, cartelline e microscopi. È a disagio: vedere tutta quella confusione le fa male.
«Ho capito chi è, comunque. Peter Marano. Non ha una buona fama…» dice Marcus.
«Marino» lo corregge Kay Scarpetta.
Girano a destra e non si fermano davanti alla macchinetta del caffè. Il dottor Marcus apre la pesante porta di legno della biblioteca, e lei vede tomi di medicina sparsi sui tavoli e volumi inclinati e malmessi sugli scaffali. Il grande tavolo a ferro di cavallo è ingombro di riviste, fogli, tazzine sporche e persino involucri di merendine. Si guarda intorno nauseata. Ha progettato lei quella biblioteca, ha trovato lei i fondi per costruirla e riempirla di importanti testi medici e scientifici. E non è stato facile, visto che lo Stato tende a limitare gli investimenti per i morti. Osserva i volumi di neuropatologia e le riviste di legge che ha donato alla biblioteca. Sono in disordine. Uno dei volumi è addirittura messo al contrario. Sente montare la rabbia.
Guarda Marcus negli occhi e dichiara: «Conviene che mettiamo subito in chiaro una serie di cose».
«C’è qualcosa che non va, Kay?» chiede lui, con un’aria stupita.
Kay Scarpetta non riesce a capacitarsi della supponenza di Marcus. Le fa venire in mente quegli avvocati da strapazzo che cercano di minimizzare le sue competenze e la chiamano “signora” per sminuirla di fronte alla giuria.
«Sento delle resistenze da parte sua che…» inizia.
«Resistenze? Non capisco a cosa si riferisce.»
«Be’, invece a me sembra…»
«Be’, forse le sembra sbagliato.»
«Le dispiace non interrompermi? Le ricordo che è stato lei a chiamarmi.» Indica i tavoli ingombri, i libri sparsi qua e là e si chiede se Marcus è altrettanto disordinato in casa propria. «Che cosa è successo qui dentro?» gli domanda.
Lui non risponde subito. Forse riflette su quello che Kay sta cercando di dirgli veramente. Poi si giustifica: «Gli studenti non sono più quelli di una volta. Non hanno rispetto per le cose degli altri».
«Davvero? Nel giro di cinque anni sono cambiati così tanto?» gli chiede sarcastica.
«Io credo che lei mi abbia frainteso» ribatte Marcus con lo stesso tono cordiale che ha usato ieri al telefono. «Sono un po’ stressato, ma le assicuro che sono molto contento che lei sia qui.»
«Be’, non lo sembra affatto.» Lo guarda negli occhi e Marcus li abbassa. «Tanto per cominciare, non sono stata io a chiamare lei, ma il contrario. Perché mi ha fatto venire fin qui?» Rimpiange di non averglielo chiesto ieri al telefono.
«Credevo di averglielo detto, Kay. Lei è una consulente molto stimata…» È evidente che non la può soffrire.
«Dottor Marcus, noi non ci conosciamo, non ci siamo mai visti prima. Non credo che lei mi abbia chiamato perché sono una consulente stimata.» Incrocia le braccia e si rallegra fra sé di essersi messa un tailleur scuro e molto professionale. «Non meniamo il can per l’aia.»
«Non ne avrei il tempo, anche se volessi.» Se prima si sforzava di apparire cordiale, adesso Marcus ha smesso di esserlo del tutto.
«Chi le ha fatto il mio nome? Chi le ha detto di rivolgersi a me?» gli chiede, certa che ci sia sotto qualche manovra politica.
Marcus guarda la porta, per ricordarle che è un uomo molto impegnato, importante, atteso in una riunione. O forse ha paura che qualcuno stia origliando? «Stiamo perdendo tempo» dice. «È inutile parlare a questo modo.»
«Sono d’accordo con lei» replica Kay prendendo la sua valigetta. «Non mi va di farmi usare come pedina. Né di aspettare per ore, chiusa in una biblioteca con una tazza di caffè. Se vuole una consulenza, deve darmi tutte le informazioni che mi servono, altrimenti non se ne parla neanche.»
«Va bene. Vuole informazioni? Le avrà.» Il tono è imperioso, ma Kay Scarpetta si accorge che sotto sotto Marcus è spaventato: non può permettersi di lasciarla andare via. «Sarò franco: contattarla non è stata una mia idea. Il commissario alla Sanità voleva l’opinione di un esterno, ed è saltato fuori il suo nome» spiega. Come se il suo nome fosse stato estratto a sorte o tirato fuori da un cilindro.
«Avrebbe dovuto chiamarmi personalmente» ribatte lei. «Sarebbe stato più corretto.»
«Mi sono offerto io di contattarla. Sarò franco: non volevo interferenze.» Kay pensa che, più Marcus sostiene di parlarle con franchezza, meno lei gli crede. «È andata così: siccome il dottor Fielding non è riuscito ad accertare la causa della morte della ragazza — Gilly Paulsson, intendo -, il padre ha chiamato il commissario alla Sanità.»
Kay Scarpetta rimane male nel sentire parlare di Fielding. Non sapeva che lavorasse ancora all’istituto. Non aveva mai chiesto sue notizie.
«Come le dicevo, a quel punto il commissario mi ha chiamato e mi ha chiesto di far intervenire un esterno.»
Il signor Paulsson deve essere potente, riflette Kay. È normale che i familiari delle vittime insistano per avere il parere di un altro medico, ma è raro che vengano accontentati.
«Capisco che per lei venire qui sia difficile, Kay» continua Marcus. «Mi creda, nella sua posizione sarei in difficoltà anch’io.»
«E quale sarebbe la mia posizione?»
«Ha presente Il canto di Natale di Dickens, Kay, e lo Spirito del Natale passato?» Accenna un sorriso. «Tornare indietro non è mai facile. Lei ha avuto un gran coraggio, glielo riconosco. Non so se io sarei stato altrettanto generoso, specie se fossi convinto di aver subito un’ingiustizia. Quindi, come vede, la capisco benissimo.»
«Tutto questo è irrilevante» replica Kay Scarpetta. «Il nostro problema è una ragazzina di quattordici anni. E l’Istituto di medicina legale della Virginia, che lei dirige. Quindi, il fatto che io…»
«È tutto molto razionale, ma…» la interrompe Marcus.
«Voglio dirle una cosa, dottor Marcus» taglia corto lei. «La legge federale impone che in caso di morte di un minore ne venga accertata la causa e che vengano svolte indagini accurate per escludere qualsiasi responsabilità penale. Se dovesse venire fuori che Gilly Paulsson è stata uccisa, l’istituto che lei dirige passerebbe dei guai seri. E poi la prego di non chiamarmi Kay. Specie davanti ai suoi colleghi e sottoposti.»
«Immagino che il commissario volesse per l’appunto evitare questo» risponde Marcus, come se non l’avesse neanche sentita.
«Non voglio essere coinvolta in manovre politiche volte a proteggere questo istituto» mette in chiaro Kay. «Quando ieri mi ha chiamato, ho accettato di studiare il caso Paulsson. Ma non potrò fare luce sulla vicenda più di tanto, se lei mi taglia fuori e mi impedisce di avvalermi dell’esperienza dei miei collaboratori. Nel caso specifico, di Pete Marino.»
«Francamente, non credevo che lei tenesse tanto a partecipare alla riunione con lo staff.» Guarda l’ora su un vecchio orologio da polso con il cinturino di pelle. «Se preferisce esserci, comunque, non ho problemi. Non abbiamo niente da nascondere. Dopo la riunione, le parlerò del caso Paulsson. Se desidera, può effettuare una seconda autopsia.»
Apre la porta della biblioteca e le fa segno di passare per prima. Kay Scarpetta lo guarda incredula.
«Non mi ha detto che Gilly Paulsson è morta due settimane fa? Non avete ancora restituito il corpo alla famiglia?» domanda.
«Sono talmente disperati che non hanno ancora fatto la richiesta» replica. «O forse vogliono che paghiamo noi le spese del funerale.»