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Nel laboratorio dell’Istituto di medicina legale, il dottor Junius Eise tiene un filamento di tungsteno sulla fiamma di una lampada ad alcol.

Il suo è un trucco usato da secoli dai migliori tecnici di laboratorio e questo fatto lo riempie di orgoglio, perché è un purista. Eise ama la scienza e la storia, la bellezza e le donne. Stringe il filamento con le pinze e osserva il metallo grigiastro diventare incandescente, immaginando che diventi rosso per l’emozione o per la rabbia. Poi lo allontana dalla fiamma e ne immerge la punta nel nitrito di sodio, in modo da ossidarlo e appuntirlo. Quindi lo raffredda in acqua, facendolo sibilare.

Fissa il filamento in un porta aghi di acciaio inossidabile, cosciente del fatto che dedicarsi alla fabbricazione di quello strumento è un modo per procrastinare, per trovare un po’ di tempo per sé, distrarsi un momento, riprendere il controllo della situazione. Si avvicina al microscopio e guarda il misterioso caos che vi ha lasciato.

«Non capisco proprio» dice ad alta voce, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Con l’attrezzo che ha appena finito di fabbricare sposta le particelle di vernice che ha trovato sul cadavere di un uomo rimasto schiacciato sotto un trattore alcune ore prima. È evidente che il direttore dell’istituto teme una causa da parte dei familiari, altrimenti il suo laboratorio, che si occupa prevalentemente di casi di omicidio in cui fibre, peli e minuscole particelle possono incastrare un assassino, non sarebbe stato coinvolto. In genere il suo laboratorio non si occupa di morti accidentali. Tuttavia, se si svolgono ricerche accurate, a volte qualcosa salta fuori, come in questo caso. Solo che quel che è saltato fuori non ha senso. In questi momenti, Eise rimpiange di non essere andato in pensione due anni fa, o di aver rifiutato la promozione a direttore del laboratorio. Lo ha fatto perché non gli interessa il potere: preferisce stare dietro a un microscopio, mentre l’idea di dover lottare quotidianamente con i budget, i problemi del personale e il dottor Marcus lo fa rabbrividire.

Con il filamento di tungsteno sposta le particelle di vernice e metallo su un vetrino asciutto. Sono mescolate ad altre particelle e a una polvere bruno grigiastra molto strana, che non aveva mai visto fino a due settimane prima, quando l’ha scoperta in un caso che non c’entra niente con questo. Perché Eise non crede che l’improvvisa e misteriosa morte di una quattordicenne abbia qualcosa a che fare con l’infortunio sul lavoro di un operaio incauto.

È teso, nervoso. Le particelle di vernice sono delle dimensioni di scaglie di forfora. Bianche, rosse e blu. Non è vernice da carrozzeria, certamente non vengono dal trattore. E comunque perché Theodore Whitby avrebbe dovuto avere scaglie di vernice di carrozzeria su una ferita al volto? E perché lo stesso tipo di scaglie di vernice e la stessa identica polvere grigiastra avrebbero dovuto essere nella bocca e sulla lingua di una quattordicenne? Ma è la polvere a preoccupare maggiormente Eise. È una polvere stranissima, mai vista, fatta di particelle irregolari e crostose, come di fango secco. Ma non sono di fango. La superficie è a tratti irregolare, con fessure e bolle, e a tratti liscia, con bordi sottili e trasparenti. Alcune particelle sono bucherellate.

«Ma che diavolo…?» esclama. «Non capisco. Perché questa strana polvere è su due persone morte in circostanze tanto diverse? Non può esserci nessun legame fra loro. Che cosa è successo?»

Prende un paio di minuscole pinzette e toglie dalle particelle sul vetrino alcune fibre di cotone, che, ingrandite, sembrano pezzetti di filo bianco ondulato.

«Odio i tamponi di cotone» borbotta Eise. «Dio, quanto li odio!» insiste, rivolgendosi alle decine di microscopi, provette, aggeggi metallici e flaconi di sostanze chimiche del laboratorio. Le postazioni di lavoro sono perlopiù vuote, perché i tecnici che di solito le occupano sono in altri laboratori, alle prese con assorbimenti atomici, gascromatografie, spettrometrie di massa, diffrazioni ai raggi X. Visto che i finanziamenti sono pochi e il lavoro tanto, fanno a gara per accaparrarsi spettrofotometri FT-IR, microscopi a scansione elettronica e altri strumenti sofisticati.

«Lo sappiamo, che odi i tamponi di cotone» replica Kit Thompson, seduta poco distante da lui.

«Potrei farmi una trapunta con le fibre di cotone che ho raccolto nella mia pur breve vita» contìnua Eise.

«Dovresti. Ne parli sempre, ma poi non la fai mai» lo stuzzica Kit.

Eise raccoglie un’altra fibra. Non è un lavoro facile. Al minimo spostamento delle pinzette o della punta di tungsteno, la fibra vola via. Eise regola la messa a fuoco e diminuisce l’ingrandimento. Trattiene il respiro e osserva il cerchio di luce brillante, cercando di decifrarne i segreti. Esiste una legge fisica che spiega perché, quando uno spostamento d’aria muove una fibra di cotone, questa ti sfugge come animata di vita propria anziché venire dalla tua parte?

Eise osserva la punta delle pinzette che gli invade il campo visivo. Il cerchio luminoso gli fa venire in mente un circo, con elefanti e pagliacci che si esibiscono sotto i riflettori. Ricorda quando, da bambino, ammirava lo spettacolo seduto su una panca di legno, fra altri bambini che reggevano in mano nuvole di zucchero filato. Poi raccoglie l’ennesima fibra di cotone e la trasferisce in una bustina di plastica piena di altre fibre contaminate, senza valore per le indagini.

Pensa ai problemi che ha con il dottor Marcus. Gli ha consigliato innumerevoli volte di far raccogliere le tracce con il nastro adesivo, anziché con i tamponi di cotone, che lasciano miliardi di leggerissime fibre sui campioni.

È come avere peli di gatto d’angora su un paio di pantaloni di velluto, gli ha scritto in una delle sue numerose e-mail, come togliere il pepe dal purè di patate o la panna dal caffè. Ha fatto ricorso a tutte le analogie possibili e immaginabili, ma senza successo.

«La settimana scorsa gli ho mandato due rotoli di nastro adesivo e una confezione di post-it, spiegandogli che sono perfetti per rimuovere tracce da qualsiasi superficie in quanto non le rompono, non le distorcono e non le impestano di fibre di cotone. Gli ho specificato che non interferiscono con diffrazioni ai raggi X o altri esami. Insomma, non è che vogliamo solo risparmiarci un lavoro: è giusto evitare una fatica inutile!»

Kit aggrotta la fronte e apre un flacone di Permount. «Gli hai mandato dei post-it e gli hai detto che rimuovere fibre di cotone è come togliere il pepe dal purè di patate?»

Eise è uno che dice pane al pane e vino al vino, specie quando una cosa gli sta a cuore. Non gli importa cosa possono pensare gli altri. «Invece, quando ha controllato la bocca della ragazzina, Marcus o chi per lui ha usato tamponi di cotone. Che bisogno c’era? La lingua si asporta, no? La posi su un tagliere, vedi a occhio nudo se ci sono residui e li raccogli con il nastro adesivo. Invece no: tamponi di cotone. E io passo le giornate a togliere fibre che non c’entrano niente.»

Quando le persone vengono ridotte a lingue posate su taglieri, il loro nome non conta più. Specie se avevano quattordici anni. I morti non vengono mai chiamati per nome, in un Istituto di medicina legale. Non si dice: “Ho infilato le mani nella gola di Gilly Paulsson, ho praticato un’incisione con il bisturi e le ho estratto la lingua”. E non si dice nemmeno: “Abbiamo infilato un ago nell’occhio del piccolo Timmy per prelevare un campione di umore vitreo e sottoporlo a un esame tossicologico” oppure “Abbiamo segato la scatola cranica della signora Jones per asportarle il cervello e scoperto un aneurisma di Berry” e “Ci sono voluti due medici per recidere i muscoli mastoidei del signor Ford per via del rigor mortis. Non si riusciva ad aprirgli la bocca”.

È un pensiero che colpisce Eise all’improvviso. Gli succede spesso: le cose gli vengono in mente così, di punto in bianco. Lo scaccia, perché lo turba pensare che a un certo punto le persone diventano soltanto pezzi senza nome, campioni e vetrini da esaminare.

«Non pensavo che Marcus facesse autopsie» replica Kit. «Lo credevo troppo preso da altre cose. Personalmente, devo averlo incontrato solo due o tre volte, da quando è qui.»

«Non ha importanza se fa le autopsie oppure no. È il direttore, decide lui. Tocca a lui dire all’ufficio acquisti se ordinare post-it, nastro adesivo o tamponi di cotone. La responsabilità è sua.»

«Comunque non credo sia stato lui a esaminare quella ragazzina. E nemmeno l’uomo che è finito sotto il trattore» insiste Kit. «Non si sporca le mani, quello. Preferisce comandare.»

«Tu ti trovi bene con questo aggeggio?» chiede Eise alla collega, mostrandole la punta di tungsteno.

È ossessionato da quegli strumenti, ne fabbrica in grande quantità e li regala ai tecnici che lavorano con lui.

«Abbastanza» risponde la donna, e Eise pensa che probabilmente non l’ha mai usato, ma non vuole offenderlo. «Sai una cosa? Questo capello lo lascio da parte» aggiunge Kit, richiudendo il flacone di Permount.

«Stai parlando della ragazzina? Quanti ne abbiamo?»

«Tre» risponde lei. «Non so se quelli del DNA vogliono provare a ricavarci qualcosa. La settimana scorsa non sembravano molto interessati. Per ora, lascio tutto qui, poi vediamo. Ultimamente dev’essere successo qualcosa. Ho visto Jessie, prima, e mi ha detto che devono riesaminare le lenzuola per verificare che la prima volta non gli sia sfuggito niente. Era furibonda. Che stranezza! Le avevano già esaminate più di una settimana fa, mi risulta. Da dove li hanno recuperati questi capelli, se no? Mah… Sarà il clima natalizio. Pensa che devo ancora comprare tutti i regali.»

Infila un paio di minuscole pinzette in una bustina di plastica trasparente e ne estrae con delicatezza un altro capello. È lungo una quindicina di centimetri, scuro e ondulato. Eise osserva Kit che lo posa su un vetrino, aggiunge una goccia di xilene e lo copre. È una prova importante, raccolta fra le lenzuola della ragazzina nella cui bocca sono state trovate le scaglie di vernice e la strana polvere che lo tormentano.

«Kay Scarpetta era di tutt’altra pasta» dice Kit.

«E ti ci è voluto così tanto per capirlo? Dovevi fargli la prova del DNA, per capire che sono due persone completamente diverse? Ragazza mia, non mi sembri molto perspicace.»

Kit scoppia a ridere e si allontana dal microscopio per non far volare via niente dal tavolo.

«Sniffi troppo xilene, te lo dico io. Ti ha dato di volta il cervello.»

«Oh, Signore!» Kit cerca di ricomporsi e sospira. «Volevo solo dire che non passeresti le giornate a togliere fibre di cotone dai tuoi campioni, se ci fosse ancora Kay Scarpetta. A proposito, sai che è tornata? L’hanno chiamata per una consulenza. Si occupa della ragazzina, Gilly Paulsson.»

«Scherzi?» Eise non riesce a crederci.

«Se non te ne andassi sempre prima di tutti gli altri e non fossi così antisociale, forse le voci di corridoio arriverebbero anche a te» rimarca Kit.

«Perbacco!» Se è vero che Eise tende a non attardarsi in laboratorio dopo le cinque del pomeriggio, è vero anche che spesso è il primo ad arrivare al mattino: di solito alle sei e un quarto è già al lavoro. «Non avrei mai detto che il nostro amico chiedesse aiuto proprio a lei.»

«Il nostro amico? Tuo, semmai.»

«Comunque sia. Non pensavo che avrebbe chiamato Ms Scarpetta Superstar.»

«Non la conosci. È tutt’altro che una superstar» gli fa notare Kit, montando il vetrino sul microscopio. «L’ha chiamata perché è la più brava, penso. Questo capello è tinto, come gli altri due. Nero corvino. Okay, la questione è risolta: non se ne fa niente. Non si vedono granuli di pigmento. Potrebbe essere stato trattato anche con qualche prodotto anticrespo. Vedrai che quelli del DNA decidono per il mitocondriale. Manderanno i miei preziosi capelli a qualche superlaboratorio. Che strano, però… Forse la Scarpetta ha stabilito che la ragazzina è morta ammazzata: per questo si stanno mobilitando di nuovo tutti.»

«Non farci niente, a quei capelli» dice Eise, riflettendo che un tempo la prova del DNA era una delle tante, mentre adesso è diventata la più importante, “la prova per eccellenza”, destinataria di tutti i finanziamenti per ricerca e sviluppo. Eise ce l’ha a morte con i tecnici che si occupano di DNA. A loro non regala filamenti di tungsteno.

«Non ci faccio niente, stai tranquillo» risponde Kit, guardando al microscopio. «Non c’è linea di demarcazione. Interessante. È strano, per un capello tinto. Vuol dire che non è cresciuto di un micron da quando l’hanno tinto.»

Sposta il vetrino, mentre Eise la guarda stupito. «Niente radice? E com’è? Caduto, strappato, spezzato, piegato, danneggiato da un ferro caldo, bruciato, con le doppie punte? Su, illuminami.»

«Nessuna radice. La punta mi sembra tagliata. Tutti e tre i capelli sono tinti di nero e senza radice. Strano, eh? Estremità tagliate da ambo le parti, in tutti e tre. Non ce n’è uno spezzato, rotto o strappato alla radice. Questi capelli non sono caduti: sono stati tagliati. Adesso tu dimmi: com’è che sono tagliati sia da una parte che dall’altra?»

«Potrebbero essere di una persona appena uscita dal parrucchiere. Magari le erano rimasti sui vestiti, o fra i capelli…»

Kit fa una smorfia. «Mi piacerebbe vedere Kay Scarpetta, se è davvero qui a Richmond. Anche solo per salutarla. Mi è dispiaciuto tanto, quando se n’è andata… È stata una grande perdita sia per l’istituto che per la città. Se penso che adesso ci ritroviamo il dottor Marcus… Sai una cosa? Non mi sento tanto bene. Ho mal di testa e sono tutta rotta.»

«Magari la fanno tornare» dice Eise. «Quella della consulenza potrebbe essere una scusa per rimetterla a capo dell’istituto. Almeno, quando ci mandava dei campioni, lei non sbagliava a etichettarli e sapeva sempre da dove provenivano. E poi era simpatica, parlava dei casi direttamente con noi, invece di trattarci come dei robot. E, appena poteva, usava il nastro adesivo invece dei tamponi di cotone. Ci stava a sentire, ci trattava come esseri umani. Sì, hai ragione, non era una superstar.»

«Non si vede tessuto corticale» dice Kit, osservando il capello scuro ingrandito, che sembra un albero spoglio. «Niente di niente, come se l’avessero immerso in un calamaio pieno di inchiostro nero. Nessuna linea di demarcazione: o l’hanno tagliato sotto la ricrescita, oppure era appena stato tinto.»

Prende un appunto, sposta il vetrino e regola messa a fuoco e ingrandimento cercando di capire qualcosa di più, ma il capello non ha nulla da dirle. Non c’è pigmento alla cuticola, nascosto dalla tintura. I capelli tinti, decolorati, e grigi al microscopio risultano praticamente tutti uguali, e la maggioranza della popolazione ha i capelli tinti, decolorati o grigi. Ma l’aspettativa è forte e le giurie vorrebbero che da un capello si dicesse loro chi è stato, che cos’ha fatto, come, quando, dove e perché.

Eise detesta il modo in cui televisione e cinema presentano la sua professione. Ormai, quando viene a sapere che lavoro fa, la gente si congratula con lui dicendo: “Che mestiere interessante!”. Eise non è mai andato sulla scena di un crimine, non gira armato, non riceve telefonate nel cuore della notte, non indossa tute speciali né salta a bordo di fuoristrada alla ricerca di fibre, impronte digitali, DNA e marziani. Quello è il lavoro degli ispettori di polizia, dei tecnici della Scientìfica, dei medici legali… Un tempo era più semplice: l’opinione pubblica si disinteressava della medicina forense, gli ispettori come Pete Marino andavano sul luogo del delitto con i loro pickup mezzi scassati e raccoglievano le prove da soli. Quelle giuste, non una di più e non una di meno.

Adesso, per non sbagliare, alcuni raccolgono tutto quello che c’è in un parcheggio, smontano le case e le portano lì da analizzare. Come se un cercatore d’oro si portasse a casa direttamente il fiume, invece di setacciarlo pezzo per pezzo. Il problema è che ormai nessuno ha più voglia di fare niente ed è tutto più complicato. Eise è scoraggiato, medita di andare in pensione. Non ha più tempo per fare certe ricerche o semplicemente per fare bene il suo lavoro, gli tocca compilare un cumulo di scartoffie e non gli è concesso commettere il minimo errore. È stressato, gli bruciano gli occhi e non dorme la notte. Quando grazie al suo lavoro viene arrestato e condannato un assassino, nessuno gli mostra un briciolo di gratitudine. Ma che razza di vita è? Sempre peggio… Sì, proprio così: sempre peggio.

«Se vedi la dottoressa Scarpetta, chiedile di Marino» dice Eise a Kit. «Quando bazzicava da queste parti, a volte andavamo a berci una birra insieme.»

«È qui anche lui. L’ha accompagnata» risponde Kit. «Sì, non mi sento proprio per niente bene. Mi brucia anche un po’ la gola. Non vorrei essermi buscata l’influenza.»

«Davvero è qui anche Marino? Perbacco, adesso lo chiamo. E si occupa anche lui della ragazzina con la polmonite?»

Gilly Paulsson è diventata “la ragazzina con la polmonite”. I soprannomi sono più facili da usare — e da ricordare — dei nomi veri. I morti diventano il luogo in cui sono stati ritrovati o il modo in cui sono passati a miglior vita. La signora della valigia. La donna delle fogne. Il bambino della discarica. L’uomo ratto. Il signor scotch. Eise non ha la più pallida idea di come si chiamassero, quando erano vivi. E preferisce così.

«Spero che la dottoressa Scarpetta sappia come mai la ragazzina con la polmonite aveva in bocca scaglie di pittura bianche, rosse e blu e la polvere più strana che io abbia mai visto» dice. «Scaglie di metallo, capisci? Verniciate di bianco, rosso e blu. Oppure senza vernice, briciole di metallo lucido. E questa strana polvere che non ho idea di che cosa possa essere.» Sposta ossessivamente le particelle sul vetrino. «Adesso faccio un SEM/EDX per vedere che razza di metallo è. Che cosa c’era di bianco, rosso e blu in casa della ragazzina? Spero proprio di vederlo, Marino. Gli offrirei volentieri una birretta. Perbacco, me ne berrei una adesso…»

«Io no. Mi sento poco bene» ripete Kit. «So che questi campioni non sono contagiosi, ma… Voglio dire, vengono comunque dall’obitorio.»

«Stai tranquilla, quando arrivano qui, i batteri sono morti e sepolti» la rassicura Eise, alzando la testa dal microscopio. «Se li osservi con attenzione, vedi che hanno una piccola lapide sopra la testa. Effettivamente sei un po’ palliduccia.» Gli dispiace ammetterlo: non vorrebbe incoraggiarla a prendersi qualche giorno di malattia. Sente la sua mancanza, quando non c’è. Però si vede che non sta bene e non sarebbe giusto fingere il contrario. «Perché non vai a casa prima? Hai fatto il vaccino antinfluenzale? Io no. Quando l’ho chiesto al mio medico, era già esaurito.»

«Neanch’io sono riuscita a farlo. Eppure l’ho cercato dappertutto» replica Kit alzandosi in piedi. «Vado a preparare un po’ di tè caldo.»

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