25

Il sole brilla debolmente nel pallido cielo grigio. Kay Scarpetta attraversa il parcheggio a grandi passi, con i lembi del cappotto scuro che sventolano, dirigendosi verso la porta d’ingresso dell’Istituto di medicina legale. Si irrita nel vedere che il posto riservato al direttore è vuoto: il dottor Marcus non è ancora arrivato. È in ritardo come al solito.

«Buongiorno, Bruce» dice alla guardia alla reception.

L’uomo le sorride e le fa cenno di proseguire. «Scrivo io il suo nome sul registro» dice, aprendole la porta che conduce nell’ala del palazzo riservata al direttore.

«Marino è già arrivato?» domanda lei prima di entrare.

«Non l’ho ancora visto» risponde Bruce.

Quando Fielding ieri sera non si è fatto trovare a casa, Kay Scarpetta ha provato a chiamarlo al telefono, ma il numero evidentemente era cambiato. Allora ha cercato Marino sul cellulare: doveva essere in un bar, perché c’erano un gran baccano e voci di sottofondo, ma lei non gli ha fatto domande e si è limitata a dirgli che Fielding sembrava non essere in casa e che, se non si fosse fatto vivo nel giro di qualche minuto, lei sarebbe tornata in albergo. Marino le ha risposto che andava bene, grazie, di chiamarlo se aveva bisogno di qualcosa.

Kay Scarpetta ha provato ad aprire la porta principale e quella di servizio, ma Fielding le aveva chiuse a chiave. Ha suonato il campanello e ha bussato, sempre più infastidita. La macchina era lì fuori, coperta da una cerata. Kay era abbastanza sicura che fosse ancora la vecchia Mustang rossa che conosceva, ma per esserne certa ha sollevato un lembo della cerata constatando di avere ragione. Ne aveva notata una nel posteggio dell’Istituto di medicina legale la mattina, quindi Fielding la usava ancora. Ma il fatto che l’auto fosse lì, coperta da una cerata, non significava che lui fosse in casa. Magari aveva anche un’altra macchina, meno delicata. Era molto probabile che possedesse due auto e che avesse preso l’altra per andare a fare una commissione. Probabilmente era in ritardo, o forse si era scordato di averla invitata a cena.

Dopo aver fatto queste considerazioni mentre aspettava davanti alla porta, a un certo punto le è venuto il dubbio che Fielding si fosse sentito male. E se fosse caduto? E se avesse avuto una crisi allergica particolarmente grave, o addirittura uno shock anafilattico? E se si fosse suicidato? Magari aveva deciso di togliersi la vita proprio quel giorno, sapendo che lei sarebbe andata a casa sua e avrebbe saputo che cosa fare. Porse contava su di lei perché lo salvasse. Ma perché contavano tutti su di lei? Sarebbe stato scioccante entrare in casa di Fielding e trovarlo disteso sul letto con una pallottola nel cranio o lo stomaco pieno di pillole. Possibile che la credano tutti capace di gestire qualsiasi situazione? Tutti a parte Lucy, la quale sa che anche lei ha dei limiti e cerca di proteggerla. E da settembre che non si vedono. C’è qualcosa che non va, ma Lucy non vuole dirle cosa.

«Non lo trovo da nessuna parte» dice Kay Scarpetta a Bruce, riferendosi a Marino. «Se lo vede, gli dice per piacere che lo sto cercando? Sono nell’ufficio del dottor Marcus.»

«Junius Eise sa senz’altro dov’è Marino» replica Bruce. «Lo conosce, no? Il tecnico di laboratorio. So che ieri sera sono usciti insieme.»

Kay ripensa alla conversazione telefonica di poco prima, in cui Marcus le ha accennato agli strani risultati di certi esami di laboratorio. Possibile che Marino non si faccia trovare? Se è andato al bar con Eise, probabilmente sa già di che esami parlava Marcus. Lei invece non sa niente, e non riesce a contattarlo.

Oltrepassa la porta a vetri ed entra nella sala d’aspetto. Rimane sconcertata nel vedere la signora Paulsson. È seduta sul divano e guarda nel vuoto, le mani strette sulla borsetta che tiene in grembo. «Signora Paulsson?» la chiama preoccupata, avvicinandosi. «È qui da sola?»

«Mi hanno detto di venire stamattina presto» dice lei. «E quando sono arrivata mi hanno fatto aspettare qui, perché il direttore non c’era ancora.»

Kay Scarpetta non è stata informata del fatto che la signora Paulsson sarebbe stata presente alla riunione. «Venga, la accompagno dentro» le dice. «Ha appuntamento con il dottor Marcus?»

«Non so. Penso di sì.»

«Anch’io» dice Kay Scarpetta. «Forse siamo qui per la stessa riunione. Vuole venire con me?»

La signora Paulsson si alza dal divano molto lentamente, come se avesse male da qualche parte o fosse stanchissima. Kay Scarpetta è dispiaciuta che nella sala d’aspetto non ci siano più piante vere, che riscaldano l’ambiente e fanno sentire meno soli. E non c’è luogo in cui ci si possa sentire più soli che all’obitorio. È sempre brutto andare in un obitorio, ma ancor di più essere costretti ad aspettare per chissà quanto tempo prima di essere ricevuti. Preme un pulsante vicino a una vetrata. Dall’altra parte si vedono un pavimento rivestito di moquette, un bancone e il corridoio che porta agli uffici amministrativi.

«Sì?» chiede una voce di donna al citofono.

«Sono la dottoressa Scarpetta. Mi apre, per favore?»

«Subito» risponde la voce, e la serratura della porta a vetri scatta.

Kay lascia passare per prima la signora Paulsson. «Era qui da molto? Mi dispiace che abbia dovuto aspettare. Se l’avessi saputo, sarei venuta prima. Avremmo potuto prendere un caffè insieme.»

«Mi hanno detto che, se volevo trovare parcheggio, dovevo venire presto» replica la signora Paulsson, guardandosi intorno. In giro ci sono diversi impiegati, intenti a scrivere al computer o ad archiviare cartelle.

Kay Scarpetta si rende conto che la signora Paulsson non è mai stata lì: Marcus non è il tipo da parlare con le famiglie e Fielding è troppo stressato per fare anche quello. Probabilmente è stata invitata alla riunione per motivi biecamente politici. Se così fosse, sarebbe una cosa assolutamente disgustosa. Un’impiegata dietro un divisorio le dice di tornare nella sala riunioni, perché il dottor Marcus è in ritardo. Kay nota che gli impiegati sembrano nascondersi tutti dietro ai divisori e si chiede perché.

«Abbiamo tempo per un caffè, allora» dice alla signora Paulsson, posandole una mano sulla spalla. «Andiamo?»

«Gilly è ancora qui» sussurra la donna, guardandosi intorno con aria spaventata. «Non me la lasciano portare via.» Scoppia a piangere e attorciglia nervosamente la tracolla della borsetta. «Non è giusto…»

«Perché non gliela lasciano portare via, signora?» domanda Kay, mentre la accompagna nella sala riunioni.

«Per via di Frank, penso. Gilly era così attaccata a suo padre… E Frank voleva che andasse a stare con lui. Gilly era d’accordo, sa?» Piange più forte. Kay si ferma davanti alla macchinetta del caffè, prende due tazze di plastica e le riempie. «Ha detto al giudice che voleva andare a vivere a Charleston con il padre, finita la scuola. Frank vuole che vada a Charleston, dove sta lui.»

Kay porta le due tazze nella sala riunioni e si siede al centro del tavolo lungo e lucidissimo. È sola in quella stanza enorme insieme alla signora Paulsson, che guarda distrattamente il modello anatomico e lo scheletro appeso in un angolo e si porta il caffè alla bocca con mano tremante.

«La famiglia di Frank è sepolta a Charleston, capisce?» continua. «Da generazioni. La mia invece è qui, al cimitero di Hollywood. Anch’io ho già il mio posto prenotato. Perché tante difficoltà? Voglio dire, è già abbastanza dura così… Vuole Gilly per farmi dispetto, per vendicarsi, per farmi fare brutta figura. L’ha sempre detto, che mi avrebbe fatto impazzire, che mi avrebbe mandato in manicomio. Be’, ci sta riuscendo.»

«Vi siete parlati, ultimamente?» domanda Kay.

«Con Frank non si può parlare. Parla solo lui, dà ordini. Vuole fare la figura del bravo padre, ma non si occupa di Gilly quanto me ne occupo io. È colpa sua, se è morta.»

«Non è la prima volta che lo dice, signora. Perché pensa che sia colpa di suo marito?»

«C’è di mezzo Frank, me lo sento. Mi vuole distruggere. Mi vuole portare via Gilly. Prima voleva che andasse ad abitare da lui, adesso vuole che stia con lui per sempre. Mi vuol fare diventare matta, così nessuno potrà dire che lui è stato un pessimo marito e un pessimo padre. Nessuno conoscerà la verità, capisce? Nessuno mi crederà più. Penseranno tutti che sono una povera pazza e lui è la vittima. Ma la verità è un’altra…» Si voltano, nel sentire la porta che si apre. Entra una signora molto elegante, sui quarant’anni, fresca come una rosa, ben pettinata, in forma perfetta. Posa una ventiquattrore di pelle sul tavolo e sorride alla signora Paulsson come se la conoscesse. Apre la ventiquattrore, ne estrae un fascicolo e un blocco per appunti e si siede.

«Sono Karen Weber, agente speciale FBI.» Guarda Kay. «Lei dev’essere la dottoressa Scarpetta. Sapevo che avrebbe presenziato alla riunione. Signora Paulsson, come sta? Non la aspettavo.»

La signora Paulsson prende un fazzoletto di carta dalla borsa e si asciuga gli occhi. «Buongiorno» mormora.

Kay Scarpetta avrebbe voglia di chiedere all’agente speciale Weber come mai l’FBI ha aperto un’inchiesta sulla morte di Gilly Paulsson, ma si trattiene perché la madre della vittima è presente. Prova comunque ad acquisire informazioni in forma indiretta.

«È della sede di Richmond?» domanda.

«Quantico» risponde Karen Weber. «Sono dell’unità Scienze comportamentali. Ha visitato i nuovi laboratori di Quantico?»

«No.»

«Sono bellissimi. Ne vale la pena.»

«Mi fa piacere.»

«Signora Paulsson, come mai è qui?» chiede poi l’agente speciale.

«Non lo so, sono venuta per il referto» risponde la donna. «E per i gioielli di Gilly. Aveva un paio di orecchini e un braccialetto di pelle, che non si toglieva mai… E mi hanno detto che il direttore voleva salutarmi.»

«Il dottor Marcus l’ha invitata alla riunione?» chiede la Weber stupefatta.

«Non lo so.»

«È venuta a ritirare gli effetti personali di Gilly, signora Paulsson?» si intromette Kay Scarpetta, cominciando a capire.

«Sì. Mi hanno detto di venire verso le nove. Prima di oggi non ce l’ho fatta. Non riuscivo nemmeno a pensare di poter fare una cosa del genere, non so se mi spiego. Devo anche pagare qualcosa, mi sembra.» Ha la faccia spaventata. «Forse non dovevo venire qui. Nessuno mi ha parlato di riunioni.»

«Be’, già che ci siamo, posso farle una domanda?» chiede l’agente Weber. «Si ricorda che l’altro giorno mi ha detto che suo marito — il suo ex marito — è pilota? Me lo conferma?»

«No, ha capito male. Io ho detto che Frank non è pilota.»

«Capisco. Perché non risulta che abbia il brevetto di volo» continua l’agente speciale. «Allora ho capito male io.» Sorride.

«Lo credono in tanti, comunque, che abbia il brevetto di volo» replica la signora Paulsson.

«Già.»

«Perché frequenta un sacco di piloti, specie di sesso femminile. Come se io non l’avessi capito…» Sospira. «Bisognerebbe essere ciechi, sordi e muti, per non capirlo…»

«Capire cosa, signora Paulsson?» chiede l’agente speciale Weber.

«Be’, Frank fa le visite mediche per il rinnovo dell’idoneità al volo. Quindi gli arrivano in studio un sacco di donne in tuta da pilota. Se lo immagina?»

«Suo marito è stato mai accusato di molestie sessuali?»

«Non è mai stato denunciato» replica la signora Paulsson. «E, se lo chiedete a lui, nega. Secondo me, è perché ha una sorella nell’aviazione, capisce? Cioè, mi sono sempre chiesta se non è per quello. Sorella maggiore. Una bella differenza di età.»

Il dottor Marcus entra in quel preciso momento, con una camicia di cotone semitrasparente e una cravatta blu troppo stretta. Lancia un’occhiata veloce a Kay Scarpetta e quindi alla signora Paulsson.

«Piacere, Marcus» le dice in tono autorevole ma cordiale.

«Signora Paulsson, il dottor Marcus è il direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia» spiega Kay.

«Avete invitato voi la signora?» chiede Marcus, rivolgendosi prima a Kay Scarpetta e poi a Karen Weber. «Non dovrebbe essere qui.»

La signora si alza lentamente, con fatica, come se non avesse il pieno controllo sulle gambe. «Non so cosa sia successo. Sono venuta a firmare delle carte e a ritirare i gioielli di mia figlia…»

«Temo sia stata colpa mia, signora» dice Kay Scarpetta alzandosi in piedi anche lei. «L’ho vista qui fuori e ho pensato erroneamente che fosse venuta per parlare con il dottor Marcus. Mi scusi tanto.»

«Sapevo che sarebbe passata stamattina, signora» dice Marcus. «Condoglianze vivissime.» Le fa un sorriso pieno di condiscendenza. «Stiamo dedicando il massimo impegno al caso di sua figlia.»

«Oh» risponde la signora Paulsson.

«La accompagno» dice Kay Scarpetta, aprendo la porta. «Mi dispiace. Spero di non averla messa troppo in imbarazzo» aggiunge poi nel corridoio.

«Mi dica dov’è Gilly» chiede a un certo punto la donna, fermandosi. «Mi dica dov’è esattamente.»

Kay è titubante. Non è la prima volta che le viene rivolta quella difficile domanda. «Oltre quelle porte, signora.» Si volta e indica una serie di porte all’altra estremità del corridoio.

«È in una bara? Avete bare molto semplici, vero? Di legno di pino?» Le si riempiono gli occhi di lacrime.

«No, non è in una bara. Non abbiamo bare. È in una cella frigorifera.»

«Povera figlia mia, chissà che freddo!» Singhiozza.

«Gilly non sente più né freddo né dolore, signora Paulsson» la conforta Kay Scarpetta. «Glielo assicuro.»

«Lei l’ha vista?»

«Sì» risponde Kay Scarpetta. «L’ho visitata.»

«Mi dica che non ha sofferto, per favore. Mi dica che non ha sofferto.»

Kay Scarpetta non può dirglielo. Sarebbe una bugia. «Dobbiamo effettuare una serie di esami» risponde. «I risultati impiegheranno un po’ ad arrivare. Ma stiamo mettendocela tutta per scoprire che cosa è successo a sua figlia.»

La signora Paulsson continua a piangere. Kay Scarpetta la accompagna negli uffici amministrativi e chiede a un’impiegata di consegnarle copia del referto e gli effetti personali di Gilly, ovvero un paio di orecchini d’oro a forma di cuoricino e un braccialetto di pelle. Il pigiama, le lenzuola e le altre cose che sono state prelevate dalla sua stanza sono considerate prove e non possono essere riconsegnate alla famiglia. Tornando nella sala riunioni, Kay incontra Marino. Ha la testa china e la faccia tutta rossa.

«Buongiorno» lo saluta. «Io ho cominciato male la giornata, ma neanche tu mi sembri in gran forma. Ti ho cercato, hai visto?»

«Che cosa ci faceva qui?» chiede Marino agitato, riferendosi alla signora Paulsson.

«È venuta a ritirare gli effetti personali della figlia e alcuni referti.»

«Pensavo che non potesse ritirare referti. La salma è ancora qui…»

«Be’, è comunque la madre. Non so che referti le abbiano dato. Non so niente di niente, per la verità» protesta. «Alla riunione c’è anche un’agente speciale dell’FBI. Non so chi altri sia stato invitato. L’ultima che ho sentito è che Frank Paulsson molesta le sue pazienti.»

«Ah.» Marino si comporta in un modo strano, puzza di alcol e ha la faccia stravolta.

«Come stai?» gli domanda Kay Scarpetta. «Non troppo bene, sembra.»

«Niente di preoccupante» risponde lui.

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