Kay Scarpetta beve un sorso di Cabernet, sdraiata sul letto. Non è particolarmente buono, ha un retrogusto troppo forte, ma finisce comunque il bicchiere. È sola nella sua camera d’albergo. Ci sono due ore di differenza, fra lì e Aspen, e forse Benton è a una cena di lavoro, o forse sta studiando il caso segreto di cui si rifiuta di parlarle.
Si sistema i cuscini dietro la schiena, posa il bicchiere vuoto sul comodino e guarda il telefono. Poi si volta verso il televisore e medita se accenderlo o meno. Decide di lasciar perdere, si gira verso il telefono e tira su la cornetta. Compone il numero di cellulare di Benton, che le ha raccomandato di non chiamarlo sul fisso. Era deciso, quando glielo ha detto. “Non chiamarmi sul numero di casa perché non rispondo” sono state le sue parole.
“È assurdo” ha replicato lei. Ripensandoci, le sembra che sia passata un’eternità, da allora. “Perché non rispondi al telefono di casa?”
“Perché non voglio distrazioni. Davvero, Kay, non risponderò a nessuna chiamata. Se mi vuoi parlare, telefonami sul cellulare. Non è contro di te, credimi.”
Benton risponde dopo il secondo squillo.
«Che cosa stavi facendo?» gli chiede Kay, guardando lo schermo spento del televisore di fronte al letto.
«Ciao» dice lui. «Sono nel mio studio.»
Kay visualizza la camera dell’appartamento di Aspen che Benton ha trasformato in studio e lo immagina seduto alla scrivania, davanti al computer acceso. Sta lavorando e Kay si sente sollevata al pensiero che sia a casa.
«Io ho avuto una giornata difficile» gli spiega. «E tu?»
«Come mai è stata una giornata difficile?»
Kay incomincia a raccontargli di Marcus, ma non vuole entrare troppo nei dettagli. Allora gli parla di Marino, ma non trova le parole per spiegargli tutta la storia. Si sente annebbiata, stanca, e un po’ a disagio. Avrebbe voglia di essere con lui, ma non di fargli confidenze al telefono. Cambia discorso: «Parlami di te, piuttosto. Sei andato a sciare?».
«No.»
«Nevica?»
«In questo momento, sì» risponde. «E dove sei tu, che tempo fa?»
«Perché dici “dove sei tu”?» È arrabbiata: non le importa più quello che Benton le ha detto qualche giorno fa e che nel suo intimo sa essere vero. È offesa, incollerita. «Non ti ricordi nemmeno più dove sono? È per questo che ti esprimi così? Sono a Richmond, comunque.»
«Certo. Non è questo che intendevo.»
«Non sei solo? Non puoi parlare?»
«Esatto.»
Benton non può parlare. Le dispiace di averlo chiamato: quando Benton ritiene di non poter parlare, comunicare con lui è faticosissimo. Lo immagina nel suo studio e si chiede che cosa stia facendo. Ha paura che qualcuno intercetti la loro telefonata? Non avrebbe dovuto chiamarlo. Forse Benton è solo preoccupato. Kay preferisce pensare che voglia eccedere in prudenza, però: il pensiero che sia talmente preoccupato da non riuscire a parlare con lei la inquieta troppo. Rimpiange di averlo chiamato.
«Okay, scusa se ti ho disturbato» dice. «Ma sono due giorni che non ci parliamo e io sono così stanca…»
«Mi hai chiamato perché sei stanca?»
La sta stuzzicando, la prende bonariamente in giro, ma al tempo stesso forse è anche un po’ piccato. Gli dispiacerebbe, se lei lo avesse chiamato solo perché era stanca, pensa Kay e sorride, premendo la cornetta contro l’orecchio. «Sai come sono, quando sono stanca» scherza. «Non mi controllo.» Sente un rumore nella stanza di Benton, una voce, forse di donna. «C’è qualcuno lì con te?» domanda. Non scherza più.
Lungo silenzio, di nuovo una voce. Che sia la radio? La televisione? Silenzio.
«Benton?» lo chiama. «Ci sei, Benton? Maledizione» esclama poi, riattaccando.