7

Henri Walden ha un paio di pantofole di camoscio imbottite che non fanno rumore sulla moquette. Si avvicina silenziosamente alla poltrona di pelle di fronte al divano.

«Ho fatto la doccia» dice a Benton, sedendosi con le gambe piegate sotto il sedere.

Benton capisce che lo fa apposta per fargli vedere le cosce nude e si impone di non guardare.

«Cosa te ne importa?» gli chiede Henri. Glielo chiede tutte le mattine, da quando è lì.

«Ti fa sentire meglio, no?»

La ragazza annuisce, fissandolo con occhi da cobra.

«Le piccole cose sono importanti. Mangiare, dormire, lavarsi, fare moto… sono tutte cose che servono a riprendere il controllo sulla propria vita.»

«Ho sentito che parlavi al telefono con qualcuno» insiste Henri.

«È un problema» risponde lui guardandola oltre gli occhiali da presbite, con il blocco per appunti in grembo su cui ha aggiunto soltanto “Ferrari nera”, “senza permesso”, “seguita fino al campo?” e “punto di contatto = Ferrari nera”.

Poi aggiunge: «Le conversazioni private devono restare private. Dobbiamo rispettare i patti, Henri. Te li ricordi?».

La ragazza si toglie le pantofole e le lascia cadere sulla moquette. Posa i piedi delicati sul cuscino della poltrona e, quando si china a guardarseli, le si apre leggermente la vestaglia sul petto. «No» risponde a voce bassissima, scuotendo la testa.

«Secondo me, invece, te li ricordi benissimo, Henri.» Benton la chiama spesso per nome per ricordarle chi è e personalizzare ciò che è stato spersonalizzato, per certi versi irrimediabilmente. «Rispetto reciproco, ricordi?»

La ragazza si china ulteriormente per giocherellare con un’unghia. Si guarda le dita dei piedi, offrendo a Benton la propria nudità.

«Avere rispetto reciproco significa lasciare all’altro la propria privacy. E non provocarlo» aggiunge lui in tono pacato. «Abbiamo stabilito dei limiti. Provocare l’altro vuol dire oltrepassarli.»

Henri si chiude la vestaglia con la mano libera, continuando a osservarsi e ad accarezzarsi le dita dei piedi. «Mi sono appena svegliata» dice, come per spiegare il proprio esibizionismo.

«Grazie, Henri.» È importante che Henri si convinca che Benton non vuole avere rapporti sessuali con lei, nemmeno con la fantasia. «E comunque non ti sei appena svegliata. Ti sei alzata, sei venuta qui, abbiamo parlato e poi ti sei fatta la doccia.»

«Non mi chiamo Henri.»

«Come vuoi che ti chiami?»

«Non voglio.»

«Hai due nomi» dice Benton. «Il tuo nome di battesimo e quello che ti sei scelta quando hai cominciato a recitare. Lo usi tuttora, no?»

«Okay, allora chiamami Henri» replica lei, guardandosi le dita dei piedi.

«D’accordo. Henri.»

La ragazza annuisce, sempre osservandosi i piedi. «E lei come si chiama?»

Benton sa a chi si riferisce, ma evita di rispondere.

«Ci vai a letto. Lucy mi ha raccontato tutto.» Sottolinea il tutto.

Lui si irrita, ma non lo dà a vedere. Non crede proprio che Lucy le abbia raccontato la sua storia d’amore con Kay. No, ne è certo. Henri lo sta provocando, lo sta di nuovo mettendo alla prova. Sta di nuovo cercando di andare oltre il limite.

«Come mai non è qui con te?» gli domanda. «Non fate le vacanze insieme? Tanti dopo un po’ smettono di scopare. È uno dei motivi per cui non voglio relazioni lunghe. Perché poi non si scopa più. Dopo sei mesi, stop, chiuso. La tua donna non è venuta perché ci sono io, vero?» Lo fissa.

«Sì, è vero» risponde lui. «Non è venuta perché ci sei tu.»

«Chissà come si è arrabbiata, quando le hai detto che non poteva venire.»

«È molto comprensiva» replica Benton, non del tutto sincero.

Kay è stata comprensiva, ma è rimasta male quando lui, dopo aver sentito Lucy nel panico più totale, le ha telefonato per chiederle di rimandare la partenza. «Devo occuparmi di un caso molto urgente» le ha spiegato.

“Allora vai via da Aspen?” gli ha chiesto Kay.

“Non ti posso dire niente” le ha risposto. Per quel che ne sa, Kay potrebbe essere convinta che lui sia ripartito.

“Non è giusto, Benton” gli ha detto. “Anch’io lavoro, ma mi sono tenuta libera queste due settimane per trascorrerle con te.”

“Mi dispiace, Kay” le ha risposto Benton. “Ti prego, cerca di capire. Ti spiegherò.”

“Proprio adesso… È il momento peggiore. Avevamo bisogno di queste due settimane insieme.”

È vero, avevano bisogno di quelle due settimane insieme. Invece lui è lì con Henri. «Vuoi raccontarmi i sogni che hai fatto? Te li ricordi?» le chiede.

La ragazza si sta accarezzando l’alluce del piede sinistro, come se le facesse male. Aggrotta la fronte. Benton si alza e, con nonchalance, prende la Glock e attraversa il salotto per andare in cucina. Apre uno sportello e sistema la pistola sullo scaffale più in alto. Poi prende due tazze e vi versa il caffè. Sia lui che Henri lo prendono nero e senza zucchero.

«Forse è un po’ forte. Ne faccio dell’altro, se vuoi.» Le posa la tazza sul tavolino e torna a sedersi sul divano. «Due notti fa hai sognato un mostro. Veramente l’hai definito “la bestia”.» La guarda negli occhi tristi. «Hai sognato di nuovo la bestia?»

Henri non gli risponde. Ha cambiato umore, da quando si è svegliata. Deve esserle successo qualcosa mentre faceva la doccia. Benton si ripropone di indagare in seguito.

«Non devi parlarmene per forza, Henri. Se non vuoi, non importa. Ma più cose mi racconti di questa bestia, più è probabile che scopriamo chi è. E tu vuoi che io ti aiuti a scoprirlo, no?»

«Con chi parlavi prima?» gli domanda in tono sommesso, con voce da bambina. Ma non è più una bambina. È tutto fuorché innocente. «Parlavate di me» insiste. Le si allenta la cintura della vestaglia, lasciando intravedere la pelle nuda.

«No, non parlavamo di te. Nessuno sa che sei qui, a parte Lucy e Rudy. Mi credi, Henri?» Smette di parlare e la guarda. «Credi a Lucy?»

Lo sguardo di Henri si infiamma, nel sentire nominare Lucy.

«Io penso che tu creda sia a me che a lei» dice Benton con calma. Ha le gambe accavallate e le mani giunte posate sul ventre. «Per favore, Henri, copriti.»

La ragazza si stringe la cintura in vita, coprendosi le gambe. Benton l’ha già vista nuda, ma cerca di non pensarci. Ha visto le fotografie e non intende rivederle, a meno che non sia assolutamente indispensabile mostrarle a qualche esperto o alla stessa Henri, quando e se sarà mai pronta per vederle. Per il momento la ragazza ha rimosso l’accaduto, più o meno consapevolmente, e assume comportamenti che una persona più debole e meno esperta di Benton troverebbe esasperanti. I suoi tentativi di provocarlo sessualmente non sono dovuti soltanto al transfert, ma sono la chiara manifestazione di un narcisismo esasperato, di un desiderio di dominare, controllare, sminuire e distruggere chiunque dimostri interesse nei suoi confronti. Henri si odia ed è arrabbiata con se stessa.

«Perché Lucy mi ha mandato via?» gli domanda.

«Dimmelo tu. Dimmi perché sei venuta qui.»

«Perché…» Si asciuga gli occhi nella manica della vestaglia. «Per la bestia.»

Benton la guarda fisso, seduto sul divano con gli appunti in grembo, in maniera che lei non possa leggerli, né strapparglieli di mano. Non vuole costringerla a parlare: deve essere paziente, incredibilmente paziente, come un cacciatore appostato nel bosco in attesa della preda, immobile e con il fiato sospeso.

«È entrata in casa. Non mi ricordo.»

Benton si limita a guardarla in silenzio.

«L’ha fatta entrare Lucy» continua Henri.

Benton non vuole fare pressioni, ma neanche lasciarla mentire impunemente. «No. Non è stata Lucy a farla entrare in casa» la corregge. «Non l’ha lasciata entrare nessuno. È entrata da sola perché la porta di servizio non era stata chiusa a chiave e l’allarme era disinserito. Ne abbiamo già parlato, Henri. Ti ricordi perché la porta non era chiusa a chiave e l’allarme era disinserito?»

La ragazza si guarda le dita dei piedi, immobile.

«L’abbiamo già chiarito» insiste Benton.

«Avevo l’influenza» risponde Henri continuando a guardarsi le dita. «Non stavo bene ed ero rimasta a casa. Avevo i brividi e sono uscita al sole; mi sono dimenticata di chiudere a chiave la porta e di inserire di nuovo l’allarme. Avevo la febbre, me lo sono scordata. Lucy ha dato la colpa a me.»

Benton beve un sorso di caffè. È già freddo. Il caffè diventa subito freddo in montagna. «Ti ha detto che è colpa tua?»

«No, ma lo pensa.» Henri guarda verso la finestra. «Mi dà la colpa di tutto.»

«A me non ha mai detto di pensare che fosse colpa tua» ribatte Benton. «Mi stavi parlando dei tuoi sogni.» Ritorna al discorso di prima. «Dei sogni che hai fatto stanotte.»

Henri sbatte le ciglia e si massaggia l’alluce.

«Ti fa male?»

La ragazza annuisce.

«Mi spiace. Vuoi metterci una pomata?»

Henri scuote la testa. «Non servirebbe a niente.»

Non sta parlando della frattura all’alluce destro, ma la associa al fatto di trovarsi lì, a migliaia di chilometri da Pampano Beach, in Florida, dove ha rischiato di morire, e le passa una luce furibonda negli occhi.

«Camminavo su un sentiero» inizia a raccontare. «In cima a una scogliera. Una scogliera ripidissima. C’erano delle fenditure nella roccia e io, non so come, a un certo punto cercavo di passarci attraverso e rimanevo incastrata.» Trattiene il fiato e si toglie una ciocca bionda dagli occhi con mano tremante. «Ero incastrata e non riuscivo a muovermi, e neanche a respirare. Non riuscivo a liberarmi. E nessuno poteva salvarmi. Mi è tornato in mente mentre ero sotto la doccia. Mi sono sentita l’acqua sulla faccia e ho trattenuto il respiro. E a quel punto mi è tornato in mente il sogno.»

«C’era qualcuno? Qualcuno che cercava di salvarti?» Benton non reagisce al terrore di Henri, né cerca di capire se è vero o simulato. Non è affatto chiaro. Con lei, non c’è mai niente di chiaro.

Henri è immobile sulla poltrona, fa fatica a respirare.

«Hai detto che nessuno poteva salvarti» puntualizza Benton con calma, con il tono pacato del terapeuta. «C’era qualcuno?»

«Non lo so.»

Benton aspetta. Se Henri continuerà a respirare con tanta fatica, dovrà fare qualcosa, ma per ora aspetta paziente.

«Non mi ricordo. Non so perché, ma per un attimo ho avuto la sensazione che… voglio dire, nel sogno ho pensato che forse qualcuno poteva spezzare la roccia, magari con una piccozza. E poi ho pensato che no, era impossibile, la roccia era troppo dura. Non possono liberarmi. Nessuno può salvarmi. Muoio. Stavo per morire, nel sogno, lo sapevo. A un certo punto evidentemente non ce l’ho più fatta e mi sono svegliata.» Il suo racconto tentennante si interrompe di colpo, come il sogno. Henri emette un respiro profondo e si rilassa. Guarda Benton. «È stato terribile» dice.

«Sì» replica lui. «Dev’essere stato terribile. Non credo che ci sia niente di più spaventoso che non riuscire a respirare.»

Henri si posa una mano sul cuore. «Non mi si muoveva più il petto. Avevo il respiro cortissimo… E non avevo la forza…»

«Nessuno ha la forza di muovere le montagne» replica lui.

«Mi mancava l’aria.»

Benton ripensa alle fotografie e deduce che il suo aggressore deve aver cercato di asfissiarla. Ripercorre le foto una per una, cercando di ricordare le lesioni riportate da Henri per valutare la correttezza della propria ipotesi. Ricorda che le usciva il sangue dal naso, aveva sangue sulle guance e sul lenzuolo, all’altezza della testa. Era stesa prona sul letto, nuda, scoperta, le braccia in alto e i palmi verso il lenzuolo, le gambe piegate, una più dell’altra.

Mentre lui cerca di ricordare un’altra fotografia, Henri si alza dalla poltrona borbottando che vuole un altro caffè. Benton pensa alla pistola che ha nascosto nell’armadietto della cucina; lei non ha visto dove l’ha messa perché era voltata di spalle. La osserva e nel frattempo pensa alle fotografie, agli strani segni che Henri aveva sul corpo. Aveva le mani rosse, livide, e alcune contusioni sulla parte superiore della schiena, che nel giro di qualche giorno da rosse sono diventate viola.

La guarda mentre si versa un altro caffè e pensa al suo corpo steso sul letto dopo l’aggressione. Non tiene conto di quanto è bello, se non per valutare l’impatto che la sua bellezza può aver avuto sull’aggressore, uomo o donna che fosse. Benton non trae conclusioni affrettate circa il sesso dell’aggressore. Henri è magra, ma non androgina. Ha abbastanza seno e peli pubici e non avrebbe attirato un pedofilo. Al momento dell’aggressione era sessualmente attiva.

La osserva tornare alla poltrona con la tazza fumante fra le mani. Non fa caso al fatto che non gli ha chiesto se voleva un altro caffè anche lui. Henri è probabilmente la persona più egoista e insensibile che abbia mai conosciuto. Lo era anche prima dell’aggressione, ne è certo, e lo sarà sempre. Si augura che la smetta di frequentare Lucy, anche se non ha nessun diritto di pensare una cosa del genere.

Si alza per andare a prendersi un altro caffè e le dice: «Henri, te la senti di cercare di ricostruire che cosa è successo?».

«Sì, me la sento. Il problema è che non me lo ricordo.» Mentre lui è in cucina, aggiunge: «So che non mi credi».

«Perché dici così?» Benton versa il caffè e torna nel salotto.

«Il dottore non mi ha creduto.»

«Il dottore non ti ha creduto» ripete sedendosi di nuovo sul divano. «Ritengo di averti già detto che cosa penso di quel dottore, ma voglio ribadirlo. È un misogino, è convinto che le donne siano tutte isteriche e non le rispetta perché le teme. Inoltre lavora al pronto soccorso e non sa come trattare le vittime di violenza.»

«Pensa che io abbia fatto tutto da sola» replica Henri arrabbiata. «Ma io ho sentito quello che ha detto all’infermiera…»

Benton sta attento a reagire nel modo giusto. Henri gli sta dando delle informazioni nuove, che spera veritiere. «Dimmi: che cosa ha detto all’infermiera?»

«Dovrei fargli causa, a quel bastardo.»

Benton beve un sorso di caffè, in attesa di una risposta.

«Magari lo faccio davvero» aggiunge lei furiosa. «Pensava che non lo sentissi perché avevo gli occhi chiusi. È entrato nella mia stanza mentre ero mezza addormentata. L’infermiera era sulla porta, lui è arrivato e io ho fatto finta di niente.»

«Hai fatto finta di dormire?» chiede Benton.

Henri annuisce.

«Sei un’attrice. Eri attrice di professione.»

«Lo sono ancora. Un attore non smette mai di essere un attore… Solo che in questo periodo non recito, faccio dell’altro.»

«Sei sempre stata una brava attrice, immagino» dice Benton.

«Sì.»

«Sei sempre stata brava a recitare, a fingere.» Si interrompe, poi riprende: «Fingi spesso, Henri?».

La ragazza lo guarda male. «Fingevo di dormire, in ospedale, solo per sentire cosa diceva il dottore. E ho sentito tutto. Ha detto: “Quando sei arrabbiato con qualcuno, non c’è come farsi stuprare. Sensi di colpa a gogo”. E si è messo a ridere.»

«Capisco che tu abbia voglia di fargli causa» dice Benton. «Questo è successo nel pronto soccorso?»

«No, no, mi avevano già fatto tutte le analisi e trasferito in una camera. Non so in che reparto, non mi ricordo.»

«Peggio ancora» dice Benton. «Non sarebbe dovuto salire in reparto. È un medico del pronto soccorso, e non aveva motivo di venire lì. Era curioso, e questo non va bene.»

«Gli faccio causa. Lo odio.» Si massaggia di nuovo l’alluce. Il livido è quasi sparito. Anche quelli sulle mani sono sbiaditi, ormai giallastri. «Ha parlato di anfetamine, non so a che proposito. Ma mi stava prendendo in giro. Ce l’aveva con me.»

Anche questa è un’informazione nuova, e Benton si sente tutto a un tratto speranzoso: forse, con il tempo e tanta pazienza, Henri riuscirà a ricordare più cose e a dire meno bugie.

«Stronzo» borbotta la ragazza stringendosi la vestaglia sul petto. «Non si può fare niente per fargliela pagare?»

«Henri, come mai secondo te ha parlato di stupro?» domanda Benton.

«Non lo so. Io non credo che mi abbia stuprata.»

«Ti ricordi l’infermiera?»

Henri scuote piano la testa.

«Ti hanno accompagnato su una sedia a rotelle in una stanza vicino al pronto soccorso e ti hanno sottoposto a una serie di analisi, giusto? Hanno usato un kit per la raccolta di prove. Tu lo conoscevi già, no? Quando ti sei stufata di recitare, sei entrata nella polizia. Questo prima che conoscessi Lucy lo scorso autunno, prima di andare a lavorare con lei. Ti hanno fatto i tamponi, hanno raccolto peli e fibre…»

«Non mi sono stufata di recitare. Volevo solo fare un break, provare qualcos’altro.»

«Okay. Ma ti ricordi il kit per la raccolta di prove? Si chiama PERK.»

Henri annuisce.

«E l’infermiera? Mi hanno detto che è stata molto gentile. Si chiama Brenda. Ti ha visitato per vedere se eri stata stuprata. In una stanzetta che viene usata anche per i bambini, piena di animaletti di peluche, con la tappezzeria di Winnìe the Pooh. Brenda non era vestita da infermiera. Aveva un tailleur azzurro.»

«Tu non c’eri.»

«Me l’ha detto per telefono.»

Henri si guarda i piedi posati sul cuscino della poltrona. «Le hai chiesto com’era vestita?»

«Capelli neri, corti, occhi castani…» Benton sta cercando di smuovere quello che Henri si sforza di dimenticare, o finge di aver dimenticato. È venuto il momento di parlare dell’ospedale, delle analisi che le sono state fatte. «Non c’era liquido seminale, Henri. Nessun elemento che facesse pensare a uno stupro. Però Brenda ti ha trovato sulla pelle alcune fibre. Sembra che avessi una lozione o dell’olio sulla pelle. Ricordi di esserti spalmata dell’olio o qualche lozione sul corpo, quella mattina?»

«No» risponde lei a bassa voce. «Ma non posso escludere di averlo fatto.»

«Avevi dell’olio sulla pelle» dice Benton. «Secondo Brenda, perlomeno. Si sentiva anche il profumo. Profumo di lozione, appunto.»

«Lui non mi ha messo nessuna lozione.»

«Lui?»

«Non può che essere stato un uomo, no? Tu non credi che fosse un uomo?» chiede Henri con un tono speranzoso che suona stonato. È il tipico tono di chi cerca di ingannare se stesso, o il proprio interlocutore. «Non può essere stata una donna. Una donna? No, le donne non fanno certe cose.»

«Anche le donne fanno certe cose. Per il momento non sappiamo se ad aggredirti è stato un uomo o una donna. C’erano diversi capelli sul materasso, nella camera da letto. Neri e ondulati. Lunghi una quindicina di centimetri.»

«Be’, lo sapremo presto, allora. Sui capelli si può fare la prova del DNA e scoprire se era un uomo o una donna» ribatte lei.

«Non credo. Con il tipo di prova che stanno effettuando non si stabilisce il sesso. La razza, forse, ma il sesso no. E anche per la razza, ci vorrà almeno un mese prima di avere i risultati. Dunque pensi di esserti messa tu la lozione.»

«No. Ma lui non è stato. Non glielo avrei lasciato fare. Mi sarei ribellata, avrei lottato. Forse lui avrebbe voluto, ma…»

«Non te la sei spalmata tu?»

«Ho detto che lui non è stato, e io nemmeno. Basta così. Perché insisti?»

Benton capisce: la lozione non c’entra con l’aggressione, sempre che Henri stia dicendo la verità. Pensa a Lucy e prova a un tempo dispiacere e rabbia.

«Dimmelo tu» lo affronta Henri. «Dimmi come sono andate le cose secondo te, e io ti dico sì o no.» Sorride.

«Lucy è tornata a casa.» Benton comincia con un dato certo. Si trattiene dal raccontare troppi particolari troppo presto. «Era mezzogiorno appena passato. Ha aperto la porta e ha visto subito che l’allarme era disinserito. Ti ha chiamato, ma tu non hai risposto. A quel punto ha sentito sbattere la porta di servizio, quella che dà sulla piscina, ed è corsa da quella parte. Quando è arrivata in cucina, ha visto che la porta era aperta e che il cancello che conduce al mare era spalancato.»

Henri guarda fuori dalla finestra con gli occhi sbarrati. «Vorrei che l’avesse ammazzato.»

«Non l’ha nemmeno visto. Probabilmente, l’ha sentita arrivare sulla Ferrari nera ed è fuggito…»

«Era in camera mia, e si è dovuto fare tutte le scale» lo interrompe Henri, sempre con gli occhi sbarrati. Benton ha l’impressione che in quel momento stia dicendo la verità.

«Lucy non ha parcheggiato in garage perché voleva andare via subito. Era venuta solo per vedere come stavi» spiega Benton. «È entrata in casa e lui è uscito dalla porta di servizio. Lei non l’ha inseguito. Non l’ha nemmeno visto. In quel momento pensava a te, non le passava nemmeno per la testa che in casa ci fosse una persona.»

«No» dice Henri. Sembra quasi contenta.

«Perché, no?»

«Lucy non aveva la Ferrari nera, quel giorno. La Ferrari nera era in garage. Aveva quella azzurra metallizzata. Che infatti era posteggiata fuori.»

Anche questo è un dato nuovo, e Benton cerca di mantenere la calma. «Tu eri malata, Henri. Eri a letto. Come fai a sapere che macchina ha usato Lucy quel giorno?»

«Lo so sempre, che macchina usa. Quel giorno non ha preso la Ferrari nera perché era graffiata.»

«Vuoi parlarmene?»

«Gliel’avevano graffiata in un parcheggio» spiega Henri guardandosi di nuovo l’alluce livido. «Quello della palestra, in Atlantic Boulevard. Andiamo lì ad allenarci, a volte.»

«Quando è successo?» domanda Benton calmo, cercando di non lasciar trapelare l’emozione. È un’informazione nuova e l’istinto gli dice che è molto importante. «Qualcuno ha graffiato la Ferrari nera di Lucy mentre voi eravate in palestra?» indaga.

«Non ho detto che io ero in palestra» lo corregge lei. L’ostilità con cui ribatte gli conferma i suoi sospetti.

Henri deve aver preso la Ferrari nera per andare in palestra senza chiedere il permesso a Lucy, che è gelosa della sua Ferrari nera e non la lascia guidare a nessuno, nemmeno a Rudy.

«Parlami di questo graffio» dice Benton.

«Gliel’hanno fatto con una chiave o con un oggetto appuntito. Una specie di disegnino.» Si osserva le dita dei piedi.

«Di che genere?»

«Lucy non l’ha più presa, dopo. Non si va in giro su una Ferrari rigata.»

«Chissà come si è arrabbiata» dice Benton.

«Be’, si può aggiustare. Tutto si può aggiustare. Se l’avesse ammazzato, io adesso non sarei qui. E non sarei in ansia. Invece così mi preoccuperò per il resto della mia vita: e se mi aggredisce di nuovo?»

«Sono qui per questo, Henri. Per fare in modo che tu non debba più preoccuparti. Ma ho bisogno del tuo aiuto.»

«Potrebbe non tornarmi mai più in mente.» Lo fissa. «Non ci posso fare nulla.»

«Lucy ha fatto le scale di corsa per venire nella camera da letto in cui eri tu» riprende Benton, osservandola attentamente per accertarsi che sia in grado di reggere a quello che sta per dirle. In realtà lo sa già, lo ha già sentito. Ma lui teme che Henri non finga, che la sua non sia una posa. In tal caso, potrebbe crollare sotto il peso della realtà, avere una crisi psicotica, perdere il suo già precario equilibrio. La ragazza lo ascolta, agitata. «Lucy ti ha trovato priva di sensi, ma respiro e pulsazioni erano nella norma.»

«Non avevo niente addosso.» Non le dispiace precisarlo. Anzi, le fa piacere ricordargli che era nuda.

«Dormi sempre nuda?»

«Be’, mi piace.»

«Ti ricordi di esserti tolta il pigiama prima di tornare a letto, quella mattina?»

«È probabile.»

«Quindi non è stato lui a spogliarti? Non è stato il tuo aggressore? Sempre che di un uomo si tratti.»

«Non ne ha avuto bisogno. Ma se fossi stata vestita, sono certa che mi avrebbe spogliato.»

«Lucy dice che l’ultima volta che ti ha visto, intorno alle otto di quella mattina, avevi un pigiama di raso rosso e una vestaglia beige.»

«Sì, perché volevo uscire. Mi sono andata a sedere sulla sdraio vicino alla piscina, al sole.»

Anche questa è un’informazione nuova. «Verso che ora?»

«Subito dopo che Lucy è uscita, mi pare. Quando è andata via sulla Ferrari azzurra. Cioè, non subito dopo» si corregge in tono piatto, guardando il sole che si riflette sulla neve. «Ero arrabbiata con lei.»

Benton si alza e va ad aggiungere un po’ di legna di pino nel camino, scatenando una pioggia di scintille. «Ti aveva offeso» le dice, rimettendo a posto il parafuoco.

«Lucy si infastidisce, se ti ammali» risponde Henri, più concentrata. «Non aveva nessuna voglia di curarmi.»

«E la lozione?» domanda Benton. Crede di aver capito la storia della lozione, ne è abbastanza sicuro, ma vuole avere la certezza assoluta.

«E allora? Bella roba! Un piccolo favore, nient’altro… Sai quanti me lo vorrebbero fare? Sono io che ho fatto un favore a lei, altroché. Lei fa solo quello che le pare, solo quando ne ha voglia lei, poi si stufa e se ne va. Io avevo mal di testa e abbiamo litigato.»

«Quanto tempo sei rimasta fuori al sole?» domanda Benton, cercando di non lasciarsi distrarre e di non chiedersi che cosa aveva in testa Lucy quando ha cominciato a frequentare Henri Walden. Certo, Benton sa bene che le personalità disturbate sanno essere molto affascinanti. Ci possono cascare tutti, anche quelli che in teoria dovrebbero saperle riconoscere.

«Non tanto. Non mi sentivo bene.»

«Un quarto d’ora? Mezz’ora?»

«Mah, forse mezz’ora.»

«Hai visto qualcuno? Delle barche?»

«Non ci ho fatto caso. Probabilmente perché non ce n’erano. Che cosa ha fatto Lucy quando è entrata nella stanza e mi ha visto così?»

«Ha chiamato il pronto intervento e ti ha controllato il battito fino all’arrivo dell’ambulanza» risponde Benton. Decide di aggiungere un altro particolare, anche se è rischioso. «E ti ha fatto delle foto.»

«Aveva la pistola?»

«Sì.»

«Peccato che non l’abbia ammazzato.»

«Perché continui a parlarne al maschile?»

«Ha fatto delle foto? A me?» chiede Henri.

«Eri priva di sensi ma in condizioni stabili. Ti ha scattato delle foto prima che ti spostassero.»

«Perché le sembrava che mi avessero aggredito?»

«Perché eri in una posizione strana, Henri. Così.» Allunga le braccia sopra la testa. «A faccia in giù, con le braccia distese sopra la testa e i palmi verso il lenzuolo. Ti usciva sangue dal naso e avevi dei lividi, come ben sai. E l’alluce destro fratturato, anche se questo particolare si è scoperto in seguito. Non ti ricordi come te lo sei rotto?»

«Scendendo le scale, credo» risponde.

«Te lo ricordi?» domanda Benton. Fino a quel momento sembrava esserselo dimenticata. O faceva finta? «Quando?»

«Quando sono uscita a prendere il sole. Maledetti gradini di pietra… Devo essere inciampata, fra medicine, febbre e tutto il resto… Mi ricordo che piangevo dal male. Mi faceva un male da morire. Ho anche pensato di chiamare Lucy, ma poi ho lasciato perdere. Più sto male, più lei mi detesta.»

«Ti sei fratturata l’alluce scendendo le scale per andare in piscina e hai pensato di chiamare Lucy, ma poi non l’hai fatto» ricapitola Benton.

«Sì» risponde Henri. «Dov’erano il mio pigiama e la vestaglia?»

«Piegati sulla sedia vicino al letto. Li hai piegati e messi lì tu?»

«Probabilmente. Ero sotto le coperte?»

Benton sa dove vuole andare a parare, ma è più importante dirle la verità. «No» risponde. «Le coperte erano in fondo al letto, tutte stropicciate.»

«Non avevo niente addosso e lei mi ha fatto delle foto?» dice Henri con la faccia inespressiva, guardandolo con occhi severi.

«Sì» risponde Benton.

«Certo, c’era da aspettarselo. La poliziotta.»

«Sei una poliziotta anche tu, Henri. Che cosa avresti fatto al suo posto?»

«Lo sapevo, che avrebbe fatto una cosa del genere» continua lei.

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