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Sulla strada avvolta dalla nebbia, Kay Scarpetta osserva le finestre illuminate della casa in cui abitava Edgar Allan Pogue.

I vicini non possono non aver notato le luci accese e l’uomo con i capelli rossi che entrava e usciva da quella porta. Forse aveva anche una macchina. In realtà Browning le ha appena comunicato che Pogue non risulta proprietario di alcun tipo di autovettura, ma lei lo trova strano. Vorrebbe dire che Pogue gira su una macchina che non è registrata a suo nome — non sua o con la targa falsa — oppure che è appiedato.

Il cellulare sembra pesarle nella tasca, benché sia piccolo e leggero. La realtà a opprimerla è il pensiero di Lucy. Non ha voglia di chiamarla. In qualsiasi situazione si trovi in quel momento, Kay Scarpetta preferirebbe continuare a non sapere niente. Lucy è quasi sempre nei guai e lei tende a preoccuparsi e a darsi la colpa delle difficoltà della nipote a costruirsi relazioni solide. Lucy sa che Benton è ad Aspen. Probabilmente sa anche che la loro relazione, dopo che lui è riapparso, è molto meno solida di un tempo.

Kay Scarpetta compone il numero. Vede la porta che si apre e Marino che esce a mani vuote. Quando lavorava nella polizia di Richmond, Marino non lasciava mai il luogo di un delitto senza qualche borsa piena di tracce e indizi. Invece oggi è a mani vuote, perché Richmond non è più la sua giurisdizione e sono altri a raccogliere prove, etichettarle e mandarle ai vari laboratori. Forse sono in gamba come lui e non si lasciano sfuggire nulla, ma Kay Scarpetta preferirebbe comunque che se ne occupasse Marino. Si sente inquieta, oppressa e impotente. Chiude la comunicazione prima che le risponda la segreteria telefonica.

«Che cosa vuoi fare adesso?» chiede a Marino, appena lui la raggiunge.

«Mi piacerebbe tanto fumarmi una sigaretta» le risponde lui, guardando la strada illuminata qua e là dai lampioni. «Mi ha richiamato l’agente immobiliare. Dice che ha parlato con Bernice Towle. È la figlia.»

«Di chi? Della signora Arnette?»

«Sì. Non sapeva che ci abitasse qualcuno. Era convinta che la casa fosse vuota da diversi anni. Pare che sul testamento ci sia scritto che gli eredi possono venderla, ma non a meno di una certa cifra che, a detta dell’agente immobiliare, è troppo alta. Sì, me ne fumerei una molto volentieri. Sarà stato l’odore di sigaro, non so.»

«Ma la signora Towle non ospitava dei conoscenti?»

«Sì, ma l’agente non ricorda quando è stata l’ultima volta. Probabilmente quel maniaco ci si è piazzato senza dire niente a nessuno, come uno squatter. Prendi possesso di una casa e stai all’occhio, appena vedi qualcuno te la fili e quando tutto torna tranquillo ci rientri. Chissà. Tu che cosa vuoi fare?»

«Forse ci conviene tornare in albergo.» Apre la portiera e guarda ancora una volta la casa illuminata. «Per stasera mi sembra che non ci sia altro da fare.»

«Quando chiude il bar dell’hotel?» chiede Marino, aprendo la portiera dalla parte del passeggero. Sale in macchina con difficoltà. «Mi è passato il sonno. Succede sempre così, maledizione. Una sigaretta e un paio di birre non mi farebbero male. Anzi, magari poi dormo meglio.»

Kay Scarpetta chiude la portiera e mette in moto. «Spero che il bar sia già chiuso» risponde. «Se bevo quando sono di questo umore, poi sto ancora peggio. Come è possibile che quello vivesse qui e nessuno si sia mai accorto di niente, Marino?» Parte, lasciandosi dietro le luci della casa di Edgar Allan Pogue. «Ha il casotto degli attrezzi pieno di resti umani e nessuno ha mai visto nulla? La signora Paulsson non ha mai notato nessuno nella casa dietro la sua? Forse Gilly l’aveva sorpreso.»

«Vuoi che andiamo a chiederglielo?» dice Marino guardando fuori con le mani in grembo, come per proteggere le parti dolenti.

«È quasi mezzanotte.»

Marino scoppia a ridere. «Già. Sarebbe da maleducati presentarsi a quest’ora.»

«E va bene, facciamoci un salto» dice Kay Scarpetta svoltando in Grace Street. «Preparati al peggio, però: non so come reagirà, vedendoti.»

«Dovrebbe preoccuparsi di come reagisco io, non il contrario.»

Kay Scarpetta fa inversione e parcheggia dietro la macchina di Suzanna Paulsson. È accesa solo la luce nel salotto, che filtra attraverso le tende leggere. A scanso di equivoci, decide di avvertirla telefonicamente prima di bussare alla porta. Controlla sul cellulare gli ultimi numeri chiamati, ma quello della Paulsson non c’è più. Fruga nella borsa alla ricerca del foglietto su cui si è appuntata il numero la prima volta che è andata da lei, lo trova dopo un po’ e lo digita sul cellulare. Immagina squillare il telefono in camera da letto.

«Pronto?» La voce di Suzanna Paulsson è assonnata.

«Sono Kay Scarpetta. Sono davanti a casa sua. Ho bisogno di parlarle: ci sono stati nuovi sviluppi nelle indagini. Mi apre, per favore?»

«Che ore sono?» chiede la donna, confusa e spaventata.

«Per favore, mi apra» insiste Kay Scarpetta, scendendo dalla macchina. «Sono davanti a casa sua.»

«Va bene, va bene.» Riattacca.

«Stai seduto qui e scendi solo dopo che ha aperto» suggerisce a Marino. «Se ti vede dalla finestra, non ci fa entrare.»

Chiude la portiera, lasciando Marino al buio, e si avvicina al portone. Si accendono altre luci e dietro le tende del salotto si materializza un’ombra. Poi la tenda si scosta, la signora Paulsson sbircia fuori e quindi apre la porta in vestaglia di flanella rossa. È spettinata e ha gli occhi gonfi.

«Signore Iddio, che cosa è successo?» domanda a Kay Scarpetta, facendola entrare in casa. «Come mai a quest’ora?»

«L’uomo che abitava dall’altra parte della recinzione» dice Kay. «Lei lo conosceva?»

«Quale uomo?» domanda Suzanna Paulsson confusa. «Quale recinzione?»

«La casa dietro la sua» spiega Kay Scarpetta. Marino dovrebbe arrivare da un momento all’altro, pensa. «Ci abitava un uomo. Non può non averlo mai visto, signora.»

Marino bussa alla porta. La signora Paulsson ha un sussulto e si porta una mano al petto. «E adesso chi è?»

Kay Scarpetta apre e fa entrare Marino, che è rosso come un peperone ed evita lo sguardo della Paulsson. Chiude la porta ed entra nel salotto.

«Cristo santissimo!» esclama Suzanna Paulsson, di colpo rabbiosa. «Perché è venuto anche lui? Non lo voglio più vedere!» Si rivolge a Kay Scarpetta. «Lo faccia uscire!»

«Ci dica dell’uomo che abitava nella casa dietro la sua, per favore» insiste Kay Scarpetta. «Non può non aver visto almeno le luci accese.»

«Si chiama Edgar Allan, Al, qualcosa del genere?» le suggerisce Marino, sempre rosso in viso. «Niente bugie, Suz, facci il piacere. Non siamo proprio in vena. Dicci come si chiamava. Scommetto che eravate amici.»

«Vi ripeto che non lo conosco. Non ho mai visto nessun uomo in quella casa» ribadisce. «Perché? È stato lui a… Pensate che sia stato…? Oddio!» Ha gli occhi pieni di paura e di dolore. Sembra sincera, ma Kay Scarpetta rimane scettica.

«È mai venuto in casa tua?» chiede Marino.

«No!» La Paulsson scuote la testa, con le mani incrociate sul petto.

«Davvero?» la provoca Marino. «E come fai a esserne tanto sicura, se dici di non conoscerlo neppure? Magari si è fatto passare per il lattaio. O è venuto a fare con te qualcuno dei tuoi “giochetti”. Se non sai di chi parliamo, perché dici che non è mai entrato in casa tua?»

«Esigo di essere trattata con maggiore rispetto!» urla la Paulsson, guardando Kay Scarpetta.

«Risponda, signora Paulsson.»

«Le ho già detto…»

«Ci sono le sue impronte digitali, in camera di Gilly» la interrompe Marino aggressivo, avvicinandosi a lei. «Lo hai fatto partecipare a uno dei tuoi “giochetti”, Suz?»

«No!» Scoppia in lacrime. «Quella casa è disabitata! Prima ci stava una vecchietta, ma sono anni che non c’è più! Forse ho visto qualcuno andare e venire, ma non ci ha più abitato nessuno. Lo giuro! Le sue impronte digitali? Oddio, la mia bambina! La mia bambina!» Scoppia in singhiozzi, stringendosi le braccia sul petto. A un certo punto si copre il viso con le mani tremanti. «Che cosa ha fatto alla mia bambina?»

«L’ha ammazzata» risponde Marino. «Parlaci di lui, Suz.»

«Oh, no!» urla lei. «Oh, Gilly!»

«Siediti, Suz.»

Ma la Paulsson resta dov’è e continua a singhiozzare, con le mani sugli occhi.

«Siediti!» urla Marino. Kay Scarpetta capisce dove vuole andare a parare e lo lascia fare, anche se a malincuore.

«Siediti!» Marino indica il divano. «Per una volta di’ la verità. Fallo per Gilly.»

La signora Paulsson si lascia cadere sul divano sotto la finestra, coprendosi il viso con le mani. Kay Scarpetta si va a sedere davanti al caminetto spento, di fronte a lei.

«Parlaci di Edgar Allan Pogue» ordina Marino ad alta voce. «Mi senti, Suz? Ascoltami bene: quello ha ammazzato tua figlia, te ne rendi conto? O te ne freghi? Era una grandissima rompiscatole, la tua Gilly, vero? Disordinata, ti dava un gran daffare. Dovevi sempre raccogliere quello che lasciava in giro…»

«Smettila!» strilla la Paulsson strabuzzando gli occhi, paonazza. «Smettila immediatamente! Sei uno stronzo, un bastardo, un maledetto…» Scoppia in singhiozzi e si asciuga il naso nel palmo della mano. «La mia Gilly…»

Marino si siede sulla poltrona, come se Kay Scarpetta non ci fosse. Ma lui sa che c’è e che lei ha capito dove vuole andare a parare. «Vuoi che lo prendiamo, Suz?» domanda, di punto in bianco calmo e gentile. Si protende verso di lei, posando gli avambracci sulle ginocchia. «Vuoi che lo prendiamo? Dimmelo.»

«Sì» risponde Suz Paulsson. «Sì voglio che lo prendiate.»

«Aiutaci, allora.»

La donna scuote la testa, in lacrime.

«Non vuoi aiutarci?» Si appoggia allo schienale e lancia un’occhiata a Kay Scarpetta, che è seduta davanti al caminetto. «Non vuole aiutarci, capo. Non vuole che prendiamo l’assassino di sua figlia.»

«No» protesta la Paulsson, singhiozzando. «È solo che non so niente. Lo conoscevo solo di vista. L’avrò visto una volta o due… Una sera uscii e… Insomma, mi avvicinai alla recinzione. Cercavo Sweetie, e vidi che di là c’era un uomo.»

«Nel giardino della casa dietro la tua?» chiede Marino. «Al di là della recinzione?»

«Sì. Era di là della recinzione. Aveva infilato la mano nello spazio fra un’asse e l’altra e accarezzava la cagnetta. Lo salutai. “Buonasera” gli dissi. Oddio…» Non riesce quasi a respirare. «Merda, merda. Accarezzava Sweetie. È stato lui?»

«Che cosa ti disse?» domanda Marino con dolcezza. «Ti parlò?»

«Disse…» Le si incrina la voce. «Disse che Sweetie era molto bella.»

«Come faceva a sapere che la cagnetta si chiamava Sweetie?»

«Disse: “Sweetie è proprio una bella cagnetta”.»

«Come faceva a sapere come si chiamava?» insiste Marino.

La Paulsson trae un respiro profondo. Piange meno forte, adesso, e guarda per terra.

«Avrà preso lui la cagnetta, immagino. Visto che la trovava tanto bella» dice Marino. «Non l’hai più ritrovata, vero?»

«Mi ha portato via anche Sweetie.» Giunge le mani. Le stringe con tanta forza che le nocche diventano bianche. «Mi ha portato via tutto.»

«Che cosa pensasti, la sera in cui lo vedesti accarezzare Sweetie attraverso la recinzione? Non ti stupì vedere un uomo in quel giardino?»

«Parlava sottovoce, a voce bassissima. Non era né gentile né antipatico. Non so.»

«Non gli dicesti nient’altro?»

Suz Paulsson tiene gli occhi bassi e le dita intrecciate. «Forse mi presentai, gli chiesi se abitava lì e lui disse che era di passaggio. Tutto qui. Presi Sweetie in braccio e andai verso casa. Rientrando, vidi Gilly in camera sua, che guardava dalla finestra. Mi vide con Sweetie e mi corse incontro per prenderla in braccio. Adorava quella cagnetta!» Le tremano le labbra. «Sarebbe disperata, se sapesse che non c’è più.»

«Quando Gilly guardava dalla finestra, le tende erano aperte o chiuse?» domanda Marino.

La signora Paulsson continua a guardare per terra senza batter ciglio. Stringe i pugni, piantandosi le unghie nella carne.

Marino lancia un’occhiata a Kay Scarpetta, che dice: «Stia calma, signora. Cerchi di tranquillizzarsi. Quando vide quell’uomo accarezzare Sweetie? Quanto tempo prima che Gilly morisse?».

La Paulsson si asciuga gli occhi. Poi li chiude.

«Giorni? Settimane? Mesi?»

La donna la guarda negli occhi. «Non so perché è tornata qui, dottoressa. Le avevo detto di non farsi rivedere mai più.»

«Stiamo parlando di Gilly» le ricorda Kay. «Vogliamo informazioni sul conto dell’uomo che lei vide nella casa dietro la sua, che le disse che Sweetie era una bella cagnetta.»

«Non è giusto che lei torni qui, se io le chiedo di non farlo.»

«Mi dispiace» replica Kay Scarpetta, in piedi davanti al camino. «Non ci crederà, ma sto cercando di aiutarla. Preme a tutti noi capire che cosa è successo a sua figlia. E a Sweetie.»

«No» ribatte la Paulsson lanciandole un’occhiata strana. «Voglio che se ne vada.» Non parla di Marino. Sembra essersi dimenticata del tutto di lui, benché sia seduto vicinissimo a lei. «Se non se ne va immediatamente, chiamo la polizia. Giuro.»

Kay Scarpetta pensa che forse vuole restare sola con Marino, ritirarsi nel mondo dei giochi e della fantasia, perché la realtà è troppo scomoda e difficile da affrontare. «Ricorda che la polizia prese alcuni oggetti dalla camera di sua figlia?» domanda. «Le lenzuola, per esempio. Sono state esaminate e analizzate con cura.»

«Se ne vada!» ripete la Paulsson, immobile sul divano, guardandola con aria gelida.

«Per cercare indizi, prove. Sono stati esaminati la biancheria, il pigiama, alcuni oggetti prelevati nella sua stanza, il corpo stesso di Gilly, ma non è stato trovato neppure un pelo di cane» spiega Kay Scarpetta restituendole lo sguardo. «Nemmeno uno.»

La Paulsson la guarda e Kay Scarpetta si rende conto che sta pensando a cosa dire.

«Non uno» ripete in tono fermo, tranquillo, guardando la signora Paulsson dall’alto in basso. «Né di bassotto né di altra razza. Sweetie non c’è, questo è vero. Non c’è perché non è mai esistita. Non ci sono mai stati cani in questa casa.»

«Dille di andarsene subito da casa mia» ordina Suz Paulsson a Marino senza neppure guardarlo. «Dille di togliersi di qui» insiste, come se Marino fosse dalla sua parte. «Voi medici ci fate dire quello che volete voi» continua, rivolgendosi a Kay Scarpetta. «Ci fate fare tutto quello che volete.»

«Perché hai mentito sulla storia del cane?» le domanda Marino.

«Sweetie non c’è più» replica lei. «Non c’è più…»

«Se ci fosse mai stato un cane in questa casa, noi lo sapremmo» continua Marino.

«Gilly guardava sempre dalla finestra. Per via di Sweetie. Sempre lì a guardare quel cane. Apriva la finestra, la chiamava» mormora la donna, guardandosi le mani strette.

«Non hai mai avuto cani, vero, Suz?» chiede Marino.

«Apriva e chiudeva la finestra per cercare Sweetie. Quando la cagnetta usciva in giardino, Gilly apriva la finestra e la chiamava. È così che si è rotta la maniglia.» Apre le mani e si fissa i palmi, osservando le mezzelune rosse lasciate dalle unghie. «Avrei dovuto farla riparare» dice.

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