Le pile elettriche emanano fasci di luce gialla nel cortile buio. Kay Scarpetta osserva dalla finestra e spera che la polizia trovi qualcosa, nonostante l’ora tarda. La sua intuizione ha un che di paranoico, se ne rende conto. Forse è troppo stanca.
«Dunque lei non ricorda se quest’uomo viveva con la signora Arnette?» le chiede l’ispettore Browning, giocherellando con la penna sul blocco e masticando chewing gum.
«Non lo conoscevo bene» risponde Kay Scarpetta, guardando dalla finestra della camera da letto i fasci di luce che si muovono nel buio. È probabile che le ricerche non portino a niente, ma è preoccupata. Se pensa alla polvere di osso ritrovata nella bocca di Gilly Paulsson e sul corpo di Ted Whitby, la sua preoccupazione cresce. «Non so neppure se vivesse con qualcuno. Non ricordo di avergli mai parlato, se non per lavoro.»
«Di che cos’altro avrebbe potuto parlare, con uno così?»
«Tutti quelli che lavoravano nella divisione di Anatomia erano considerati strani dal resto del personale, forse per via del lavoro che facevano. Alle feste, ai picnic, ai barbecue organizzati, per il quattro luglio venivano invitati anche loro, ma sinceramente non ricordo se venissero o meno» spiega Kay Scarpetta.
«Dunque non ricorda se Edgar Allan Pogue partecipasse a queste feste?» domanda Browning masticando rumorosamente la sua gomma.
«Sinceramente, no. Era un uomo che passava inosservato. Sembrava quasi invisibile. Non ricordo molto bene neppure che faccia avesse.»
«Sarebbe importante che cercasse di farselo venire in mente, però. Perché noi non abbiamo idea di che aspetto abbia» dichiara Browning, girando una pagina del blocco. «Lei lo ha descritto come basso di statura, capelli rossi. Può essere più precisa? Un metro e settanta per settanta chili di peso?»
«Un po’ meno, direi. Un metro e sessantacinque o poco più. Sui sessanta chili» precisa Kay Scarpetta. «Non ricordo di che colore avesse gli occhi.»
«Dai documenti risultano castani, ma è possibile che non sia vero, visto che su altezza e peso ha mentito» replica Browning. «Sulla patente è scritto che è alto un metro e settantacinque e pesa ottanta chili.»
«Perché me l’ha chiesto, allora?» Kay Scarpetta si volta a guardarlo in faccia.
«Volevo che esprimesse il suo parere prima che io la influenzassi con dati che potrebbero essere falsi.» Le strizza l’occhio, sempre masticando. «Edgar Allan Pogue ha dichiarato di avere i capelli castani, non rossi.» Batte la punta della penna sul foglio. «Dunque, quando lavorava nella divisione di Anatomia quanto guadagnava per imbalsamare cadaveri, più o meno?»
«Parliamo di otto, dieci anni fa.» Kay Scarpetta guarda dalla finestra. La polizia sta controllando anche la camera di Gilly: vede le ombre che si muovono dietro le tende. Probabilmente Edgar Allan Pogue spiava i Paulsson da quella finestra, magari osservava i “giochetti” che si svolgevano in quella casa, fantasticava di prendervi parte e lasciava macchie giallastre sulle lenzuola. «Penso che guadagnasse ventiduemila dollari l’anno, non di più.»
«Lasciò il lavoro per motivi di salute, dicevamo. Quali?»
«Intossicazione da formaldeide. Su questa non mentì. Vidi i certificati e i risultati delle analisi e probabilmente in quell’occasione gli parlai anche. Aveva problemi respiratori causati da un’eccessiva esposizione alla formaldeide, una fibrosi polmonare evidenziata sia dai raggi X sia dalla biopsia. Se ben ricordo, aveva una ridotta concentrazione di ossigeno nel sangue e la funzione respiratoria risultava alterata alla spirometria.»
«Alla spiro-che?»
«Spirometria. È un esame che consente di misurare il volume polmonare, ovvero la quantità di aria che entra ed esce dai polmoni quando si respira.»
«Ho capito. Probabilmente, quando fumavo, l’avevo alterata anch’io.»
«Infatti succede a chi fuma molto e per molto tempo.»
«Dunque Edgar Allan Pogue era veramente inalato. Lo è ancora, secondo lei?»
«Be’, se non c’è più stata esposizione alla formaldeide e ad altri irritanti, probabilmente la fibrosi non è peggiorata. Ma certamente non è neanche guarita, perché il danno polmonare è permanente. Quindi sì, immagino che sia ancora malato. In che misura, però, non saprei dire.»
«Sarà in cura da un medico, quindi. Pensa che riusciremo a risalire al suo medico curante dai documenti che presentò a suo tempo per il congedo?»
«Probabilmente la sua cartella è conservata in qualche archivio statale. Chieda al dottor Marcus. Io ormai non ho più nessuna autorità.»
«Già. Senta, secondo lei, Pogue potrebbe avere problemi di salute abbastanza gravi da dover essere seguito da un centro specializzato o da dover assumere farmaci con regolarità?»
«È molto probabile che assuma regolarmente farmaci. Non è detto, però: se ha uno stile di vita sano, potrebbe bastargli evitare le fonti di contagio, e cioè stare alla larga da gente con raffreddore, tosse e influenza. Le malattie dell’apparato respiratorio per lui sono un problema, perché ha i polmoni che funzionano già a capacità ridotta e quindi rischia di stare molto male. Se soffre di asma, deve evitare il contatto con gli agenti che gliela scatenano. Potrebbe prendere degli steroidi, o fare regolarmente qualche vaccino antiallergico. Ma potrebbe limitarsi a usare farmaci da banco. Insomma, non so dirle niente di preciso.»
«Ho capito» fa lui, masticando sempre più rumorosamente. «Se si trovasse impegnato in un corpo a corpo, però, resterebbe senza fiato.»
«Penso di sì.»
È più di un’ora che Kay Scarpetta parla con Browning ed è molto stanca. Ha mangiato poco o niente tutto il giorno e si sente priva di energie. «Voglio dire, potrebbe essere forte e robusto, ma sicuramente non è in grado di svolgere un’attività fisica intensa. Di certo non corre né gioca a tennis. Se prende steroidi, potrebbe essere sovrappeso. E avrà poca resistenza.» Kay Scarpetta continua a seguire le ricerche dalla finestra: vede un agente che taglia con un tronchese il lucchetto alla porta del capanno degli attrezzi.
«Non è strano che abbia aggredito Gilly Paulsson proprio mentre aveva l’influenza? Non temeva di ammalarsi?» domanda Browning.
«Evidentemente no» risponde lei, guardando gli agenti che entrano nel casotto.
«Perché, secondo lei?» chiede Browning.
Le vibra il cellulare.
«Per lo stesso motivo per cui i tossicodipendenti in crisi di astinenza non si preoccupano di beccarsi l’epatite o l’AIDS e gli stupratori una malattia a trasmissione sessuale» risponde Kay Scarpetta, prendendo in mano il telefonino. «Non penso che un assassino assetato di sangue si preoccupi di buscarsi un malanno. Mi scusi» dice poi, accettando la chiamata.
«Sono io» si presenta Rudy. «Abbiamo fatto una scoperta che potrebbe interessarti. Le impronte latenti rilevate nel caso a cui stai lavorando tu a Richmond corrispondono a quelle che abbiamo rilevato noi qui in Florida. Allo IAFIS risultano appartenere alla stessa persona, di identità ignota.»
«Parli al plurale: a chi ti riferisci?»
«A me e Lucy. Stiamo lavorando a un caso di cui tu non sai niente e del quale non ti posso parlare nemmeno adesso. Lucy preferiva che non ne fossi informata.»
Kay Scarpetta ascolta incredula e vede dalla finestra una sagoma vestita di scuro che esce a grandi passi dal casotto muovendo la torcia elettrica. È Marino, che sta rientrando in casa. «Che genere di caso?» domanda a Rudy.
«Non posso dirti niente.» Si zittisce, prende fiato. «Ma non riesco a contattare Lucy. Non so perché, non risponde al telefono. Sono due ore che provo, maledizione. Comunque, è un tentato omicidio ai danni di una nostra collaboratrice. Avvenuto in casa di Lucy.»
«Mio Dio.» Kay Scarpetta chiude gli occhi, scioccata.
«Una cosa molto strana. Tanto che all’inizio abbiamo sospettato una messinscena allo scopo di attirare l’attenzione. Però le impronte sull’ordigno esplosivo corrispondono a quelle ritrovate nella camera in cui è avvenuta l’aggressione. E a quelle del tuo caso di Richmond, l’omicidio della ragazzina per cui ti hanno mandato a chiamare.»
«Che genere di aggressione ha subito questa vostra collaboratrice?» domanda Kay Scarpetta, sentendo i passi di Marino nel corridoio. Browning si alza e va alla porta.
«Era a letto con l’influenza. Pare che l’aggressore sia entrato da una porta che lei si era dimenticata di chiudere e sia scappato sentendo tornare Lucy. La vittima era priva di sensi, nuda, a faccia in giù sul letto. Sotto shock, non ricorda niente di quello che è successo.»
«Lesioni?» Sente Marino e Browning che parlottano fuori dalla porta a proposito di certe “ossa”.
«Solo qualche livido. Sulle mani, sul petto e sulla schiena, ha detto Benton.»
«Dunque a Benton ne avete parlato. Lo sanno tutti tranne me» dice, incollerita. «Lucy mi ha voluto tenere all’oscuro di tutto. Perché?»
Dopo un attimo di esitazione, Rudy risponde: «Motivi personali, penso».
«Capisco.»
«Mi dispiace. Non voglio entrare nei dettagli, ma sappi che mi dispiace. Non avrei dovuto dirti niente nemmeno adesso, ma penso che sia giusto farlo, visto che i due casi sembrano collegati. Ti assicuro che questa cosa mi fa venire i brividi. Con chi abbiamo a che fare? Con uno psicopatico?»
Marino entra nella stanza e guarda Kay Scarpetta negli occhi. «Sì, pensiamo che si tratti di uno psicopatico» risponde lei a Rudy, guardando Marino. «Bianco, di sesso maschile, sui trenta-trentacinque anni. Si chiama Edgar Allan Pogue. Riteniamo che assuma con regolarità steroidi a causa di un problema respiratorio, quindi i suoi dati potrebbero essere contenuti nei database delle farmacie. Non posso aggiungere altro.»
«Non è poco» replica Rudy, incoraggiato. Kay Scarpetta chiude la chiamata e guarda Marino pensando fugacemente a come si può cambiare in fretta opinione sulle cose: si sposta il punto di vista e la prospettiva cambia completamente. L’Ultimo Distretto è in grado di accedere a qualsiasi database, anche i più riservati. Un tempo Kay Scarpetta sarebbe stata più ligia e rispettosa delle regole, adesso la priorità è fermare quel mostro. Cerca di fugare dubbi e sensi di colpa, riflette che certe volte il fine giustifica i mezzi.
Si rimette il telefono in tasca e dice a Marino e a Browning: «Dalla finestra della camera da letto si vede la stanza di Gilly. Se la signora Paulsson si esibiva in qualcuno dei suoi “giochetti”, è probabile che lui la osservasse con grande attenzione. Se poi si svolgevano anche in camera della ragazzina — Dio ce ne scampi — la visuale era ottima».
«Capo!» Marino ha l’aria feroce.
«Voglio dire che le persone disturbate possono fare associazioni strane» continua lei. «Vedere qualcuno nel ruolo di vittima può far scattare il desiderio di diventare carnefici. Assistere a uno stupro dalla finestra può mettere certe idee in testa a un uomo timido ed emarginato…»
«A quali “giochetti” si riferisce, dottoressa?» la interrompe Browning.
«Capo!» la riprende Marino, fulminandola con gli occhi. «Il capanno degli attrezzi è pieno di morti. Vuoi andare a vedere?»
«Stava parlando di un altro caso?» sonda Browning, seguendoli lungo il corridoio buio, che puzza di chiuso e di muffa. Kay Scarpetta si sente mancare il fiato e cerca di non pensare a Lucy, di non impermalirsi. Spiega a Marino e a Browning quello che le ha appena riferito Rudy Browning si emoziona, Marino tace.
«Probabilmente Pogue adesso è in Florida» dichiara Browning. «Vi raggiungo fra un momento» dice un attimo dopo, fermandosi in cucina.
Un tecnico della Scientifica in tuta blu e berretto da baseball sta rilevando le impronte dall’interruttore. Kay Scarpetta sente che ci sono altri agenti al lavoro in salotto. Accanto alla porta di servizio sono allineati diversi sacchi neri ordinatamente etichettati. Le viene in mente Junius Eise, che dovrà analizzare le tracce della folle vita di Edgar Allan Pogue.
«Ti risulta che questo Pogue lavorasse in un’impresa di pompe funebri?» le domanda Marino, uscendo nel cortile dietro la casa, che è pieno di erbacce e di foglie morte e bagnate. «Perché il casotto per gli attrezzi è pieno di urne. E, quando dico “pieno”, intendo proprio “pieno”. Non sono nuovissime, ma secondo me sono qui da poco. Chissà dove erano prima.»
Kay Scarpetta non dice niente finché non arrivano sulla porta del casotto. Si fa dare una torcia elettrica da uno dei poliziotti e dirige il fascio di luce su un mucchio di sacchi neri di plastica, che sono appena stati aperti. Traboccano di ceneri, frammenti di ossa, urne di metallo da pochi soldi e scatole da sigari ricoperte di polvere bianca, alcune ammaccate. Vicino alla porta c’è un agente che fruga in un sacco aperto con un bastone telescopico.
«Secondo lei, li ha bruciati lui tutti ’sti cadaveri?» chiede a Kay Scarpetta, che sposta il fascio di luce verso il fondo del casotto e illumina un teschio fra alcune lunghe ossa color avorio.
«Non credo» risponde lei. «Ameno che non avesse un forno crematorio da qualche parte. Sembrano resti di cremazione.» Fa luce su una scatola di metallo, ammaccata e polverosa, in un sacco nero per la spazzatura. «Le ceneri vengono restituite ai familiari in urne come questa. Chi desidera qualcosa di un po’ più sofisticato, se lo deve procurare a spese proprie.» Illumina di nuovo il teschio e le ossa lunghe non bruciate. «Per ridurre un corpo in cenere ci vogliono temperature nell’ordine dei milleottocento-duemila gradi.»
«E le ossa che non sono bruciate?» L’agente indica con il bastone telescopico le ossa lunghe e il cranio. Ha la mano ferma, ma è chiaramente teso.
«Bisognerà controllare se ultimamente sono state trafugate salme dai cimiteri» risponde Kay Scarpetta. «A occhio, direi che sono ossa vecchie. E poi qui dentro non c’è odore, il che significa che non è in atto alcun processo di decomposizione.» Osserva il teschio.
«Maledetto necrofilo» commenta Marino, illuminando l’interno del casotto, pieno delle ceneri di chissà quante persone.
«Non credo che sia un necrofilo» replica lei spegnendo la torcia elettrica e andando verso l’uscita. «Ma probabilmente si faceva pagare per spargere le ceneri di qualche poveraccio in mare, in montagna o in qualche giardino e poi non lo faceva. Intascava i soldi e nascondeva l’urna da qualche parte. Recentemente, deve aver spostato tutto qui dentro, chissà perché. Avrà cominciato i suoi traffici quando lavorava nell’istituto. Ricordiamoci di controllare nei vari crematori per vedere se lo conoscono, anche se probabilmente diranno di no.» Esce.
«Quindi lo faceva per soldi?» chiede incredulo l’agente con il bastone telescopico in mano.
«Probabilmente la morte lo attirava troppo e ha voluto provare a uccidere» risponde Kay Scarpetta camminando sulle foglie bagnate del cortile. Ha smesso di piovere e il vento è calato. La luna ha fatto capolino dalle nuvole e brilla come un frammento di cristallo sul tetto bagnato di ardesia della casa in cui abitava Edgar Allan Pogue.