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Il dottor Stanley Philpott ha lo studio in una casa bianca di Main Street, nel quartiere del Fan. È stato molto gentile, quando Kay Scarpetta lo ha chiamato per telefono ieri pomeriggio per chiedergli informazioni su Edgar Allan Pogue.

“Sono legato al segreto professionale, lei lo sa meglio di me” le ha risposto lì per lì.

“Posso farmi emettere un mandato” ha replicato lei. “Preferisce che facciamo così?”

“Ma no, è lo stesso.”

“Ho bisogno di parlare con lei. Posso venire domattina presto nel suo studio?” gli ha chiesto. “Altrimenti, verrà la polizia.”

Il dottor Philpott non ha voglia di parlare con la polizia. Non vuole volanti parcheggiate davanti a casa sua a mettere paura ai suoi pazienti in sala d’aspetto. È un uomo dall’aria tranquilla, bianco di capelli, molto aggraziato nei movimenti. Quando la segretaria accompagna da lui Kay Scarpetta, la accoglie con gentilezza.

La fa accomodare in cucina e, versandole una tazza di caffè, le dice: «L’ho sentita parlare diverse volte. Una volta alla Richmond Academy of Medicine, un’altra al Commonwealth Club… Ma lei non può ricordarsi di me. Zucchero? Latte?».

«Niente, grazie» risponde. È seduta al tavolo, davanti a una finestra che dà su una strada lastricata. «Al Commonwealth Club ho parlato un sacco di tempo fa.»

Philpott posa le tazze sul tavolo e si siede con le spalle alla finestra. La luce che filtra attraverso il cielo coperto fa sembrare ancora più bianchi i suoi folti capelli e il camice perfettamente stirato. Ha ancora il fonendoscopio intorno al collo. Prende la tazza con la mano fermissima. «Ricordo che raccontò alcuni aneddoti molto interessanti» dice meditabondo. «Con grande garbo. Pensai che era una donna coraggiosa. A quei tempi non eravate in molte a venire invitate al Commonwealth Club, tuttora frequentato prevalentemente da uomini. Sa, dopo aver ascoltato lei rimpiansi di non aver scelto la sua specializzazione. Trasmetteva un grande amore per il suo lavoro.»

«Può ancora farlo» replica Kay Scarpetta con un sorriso. «C’è carenza di medici legali, a quanto so. Ed è un problema, visto che per firmare i certificati di morte e valutare se procedere o meno all’autopsia nei casi di morti sospette ci vuole un medico legale. Quando dirigevo l’istituto, in tutta la Virginia ce n’erano circa cinquecento. Perlopiù si trattava di medici che avevano il loro studio e collaboravano con l’istituto occasionalmente, quando si presentava un caso nella loro zona. Non sarei mai riuscita a gestire tutto il lavoro, senza il loro aiuto.»

«Immagino glielo offrissero gratuitamente» dice Philpott, tenendo la tazza con tutte e due le mani. «Oggigiorno nessuno fa più niente per niente. I giovani, poi, non ne parliamo. L’egoismo regna sovrano, ormai.»

«Cerco di non pensarci, per non deprimermi.»

«Fa bene. Mi dica, in che cosa posso aiutarla?» C’è un velo di tristezza negli occhi celesti del dottore. «So che non è qui per darmi buone notizie. Di che cosa è sospettato Edgar Allan Pogue?»

«Omicidio, tentato omicidio, fabbricazione di ordigni esplosivi e aggressione» risponde Kay Scarpetta. «Ricorda la ragazzina di quattordici anni morta alcune settimane fa non distante da qui? Sono certa che ne ha sentito parlare al telegiornale.» Non vuole essere più specifica.

«Mio Dio!» esclama Philpott, scuotendo la testa e abbassando gli occhi sul caffè.

«Da quanto è suo paziente, dottor Philpott?»

«Da sempre» risponde lui. «Da quando era ragazzo… Avevo già in cura sua madre.»

«È ancora viva?»

«No, è mancata una decina di anni fa. Una donna piuttosto autoritaria, dal carattere difficile. Edgar Allan è figlio unico.»

«E il padre?»

«Alcolista, si suicidò molto tempo fa, forse una ventina di anni. Premetto che non conosco bene Edgar Allan. Viene regolarmente, in genere a settembre, per fare il vaccino contro l’influenza e la polmonite, ma a parte questo…»

«È venuto anche il settembre scorso?» domanda Kay Scarpetta.

«No. Ho controllato la cartella clinica prima che arrivasse lei e ho visto che la sua ultima visita è stata il quattordici ottobre. Gli ho somministrato il vaccino contro la polmonite. Avevo già terminato le scorte di quello antinfluenzale e non sono riuscito a procurarmene altro. Avrà saputo che quest’anno è andato esaurito abbastanza in fretta. Così ne ha fatto uno solo.»

«Ricorda se le disse qualcosa, nel corso di quella visita?»

«Be’, ricordo che ci salutammo, gli chiesi come andavano i polmoni. Ha una fibrosi polmonare interstiziale piuttosto seria, causata dai liquidi di imbalsamazione. Credo lavorasse in un’impresa di pompe funebri.»

«Lavorava per me, veramente» precisa Kay Scarpetta.

«Davvero?» si meraviglia Philpott. «Non lo sapevo! Mi chiedo perché mi abbia mentito… Cioè, sono sicuro che mi disse di essere il vicedirettore di un’impresa di pompe funebri.»

«No, lavorava all’Istituto di medicina legale, nella divisione di Anatomia. Era già dipendente quando fui nominata direttore, alla fine degli anni Ottanta. Smise di lavorare nel ’97, appena prima che ci trasferissimo nella sede nuova, in East Fourth Street. Come le disse di essersi procurato la fibrosi polmonare? Per esposizione eccessiva ai liquidi di imbalsamazione?»

«Mi disse che ebbe un incidente a seguito del quale inalò formaldeide. È scritto anche sulla sua cartella. La sua versione dei fatti era alquanto grottesca, devo dire. Edgar Allan è uno strano personaggio, lei lo saprà meglio di me. Mi disse che un giorno stava imbalsamando un corpo nell’impresa di pompe funebri in cui lavorava e dimenticò di chiudere la bocca del morto, da cui a un certo punto cominciò a zampillare liquido di imbalsamazione a causa della rottura di un tubo. Una storia a forti tinte, insomma. Edgar Allan ama quel genere di cose. Ma lei lo conosce: è inutile che le ripeta cose che probabilmente sa già.»

«No, non so nulla» gli dice. «Solo che aveva una fibrosi polmonare causata da liquido di imbalsamazione. La ha tuttora, immagino.»

«Certo. Il tessuto interstiziale risulta danneggiato alla biopsia: non è una finta.»

«Lo stiamo cercando» spiega Kay Scarpetta. «Ha qualche elemento che ci possa facilitare nella ricerca?»

«Non voglio dire una cosa ovvia, ma avete provato a parlare con i suoi ex colleghi?»

«La polizia li sta cercando, ma non credo che sia una pista utile. Io me lo ricordo come un tipo solitario» replica Kay Scarpetta. «So che la sua ricetta per il prednisone va rinnovata fra qualche giorno. In genere è preciso nel richiederla?»

«Va a momenti» risponde Philpott. «In certi periodi è puntigliosissimo, poi sta a lungo senza prenderlo perché lo fa ingrassare.»

«È sovrappeso?»

«L’ultima volta che l’ho visto, sì. E parecchio.»

«Sa dirmi statura e peso?»

«È alto un metro e settantadue e, l’ultima volta che l’ho visto, a ottobre, doveva essere più di cento chili. L’ho avvertito che, così sovrappeso, faceva più fatica a respirare e affaticava il cuore. Di tanto in tanto gli sospendo i corticosteroidi per via dell’obesità, e anche perché tende a diventare paranoico, quando li prende.»

«Teme la psicosi da steroidi, dottor Philpott?»

«Non solo nel caso di Pogue. Chi la conosce, non può non temerla. Il problema è che non ho mai capito se Edgar Allan è disturbato di suo o se sono i farmaci a renderlo così. Come ha ucciso quella ragazzina? Posso chiederglielo?»

«Ha mai sentito parlare di Burke e Hare? Erano due scozzesi dell’inizio del XIX secolo che uccidevano per vendere i cadaveri agli studenti di medicina. A quei tempi i corpi da sezionare scarseggiavano e l’unico modo per esercitarsi era profanare le tombe o procurarsi morti con altri mezzi illeciti.»

«Sapevo che esistevano i cosiddetti “resurrezionisti”» replica il dottore. «Ma credevo fosse storia passata.»

«Infatti adesso nessuno più uccide per vendere il cadavere. Ebbene, Burke e Hare uccidevano in maniera che l’omicidio non fosse palese. E queste tecniche temo siano ancora in uso.»

«Soffocamento? Arsenico?»

«Nel caso specifico, asfissia meccanica. Si dice che Burke scegliesse persone di debole costituzione, vecchi, bambini o infermi, e ci si sedesse sopra, tappando loro naso e bocca.»

«Così è morta la Paulsson?» si stupisce Philpott, facendo una faccia sgomenta. «Edgar Allan l’ha soffocata in questo modo?»

«Come lei ben sa, a volte si arriva a una diagnosi a partire dall’assenza di una diagnosi precisa. Si procede per eliminazione, insomma» replica Kay Scarpetta. «Sul corpo di Gilly Paulsson non c’era nulla di sospetto, a parte alcuni lividi recenti, coerenti con l’ipotesi che qualcuno le si sia seduto sul petto tenendole le mani sopra la testa. C’è stata epistassi.» Non vuole dirgli troppo. «Naturalmente, si tratta di informazioni estremamente riservate.»

«Non so proprio dove possa essere Edgar Allan» dice Philpott cupo. «Se dovesse chiamarmi, per qualsiasi ragione, la avverto immediatamente.»

«Le lascio anche il numero di Pete Marino.» Lo scrive su un foglietto.

«Non lo conosco bene e, se devo dire la verità, non l’ho mai trovato granché simpatico. È un uomo strano, mi ha sempre inquietato. Pensi che veniva immancabilmente accompagnato dalla madre. Finché la signora Pogue non morì. Voglio dire, lui era adulto…»

«Di cosa morì la signora Pogue?»

«Vede, con il senno di poi mi viene paura» dice Philpott con espressione preoccupata. «Era obesa e non si curava minimamente della propria salute. Un inverno prese l’influenza e morì, a casa sua. Allora non mi insospettii affatto ma, adesso che so che…»

«Posso guardare la cartella clinica di Edgar Allan? E quella di sua madre, se ce l’ha a portata di mano?» domanda Kay Scarpetta.

«Quella della madre dovrei cercarla, visto che è morta parecchi anni fa. Quella di Edgar Allan posso dargliela subito: vado a prendergliela. Mi aspetta qui?» Si alza. Sembra più stanco e lento di prima.

Kay Scarpetta guarda dalla finestra una ghiandaia azzurra che becca i semi dentro una mangiatoia appesa al ramo spoglio di una quercia e vola via. Edgar Allan Pogue può farla franca, pensa. Le impronte digitali non sono una prova schiacciante e la causa della morte di Gilly Paulsson è controversa. Non si sa quante persone ha ucciso. È preoccupata di cosa facesse quando lavorava per lei. Di quali traffici si occupava nella divisione di Anatomia? Lo rivede, in divisa, pallido e magro, con la faccia bianca come un cencio. Ricorda il suo sguardo furtivo quando lei scendeva dal montacarichi e chiedeva di Dave, il quale peraltro non ha mai trovato simpatico Edgar Allan e certamente non ha idea di dove si trovi in questo momento.

Kay Scarpetta scendeva nella divisione di Anatomia meno che poteva. Era un luogo deprimente e i finanziamenti per tenerla in piedi erano scarsi, troppo esigui per permettere di trattare i corpi che vi arrivavano con adeguato rispetto. Il crematorio, poi, cadeva a pezzi. Le ceneri, una volta estratte dal forno, venivano polverizzate a mano perché gli appositi macchinari erano troppo costosi. I frammenti di ossa troppo grossi per entrare nelle urne fornite dallo Stato venivano spaccati con le mazze da baseball. Kay Scarpetta preferiva non pensarci, scendeva nella divisione di Anatomia soltanto quando era assolutamente indispensabile ed evitava del tutto il crematorio e le mazze da baseball. Sapeva che il personale le usava, ma faceva finta di non esserne al corrente.

Seduta nella cucina del dottor Philpott, pensa che avrebbe dovuto comprare una macchina per polverizzare i resti di cremazione con i suoi soldi, piuttosto che sopportare quel deplorevole andazzo. Adesso non permetterebbe più al personale di usare mazze da baseball.

«Ecco qui» dice Philpott tornando in cucina e porgendole la cartella di Edgar Allan Pogue. «Adesso, se non le dispiace, dovrei tornare dai miei pazienti. Fra una visita e l’altra tornerò a vedere se ha bisogno di qualcosa.»

Il fatto è che la divisione di Anatomia non le piaceva. È un’anatomopatologa laureata in giurisprudenza, non un impresario di pompe funebri, un imbalsamatore. I morti che passavano di lì non avevano niente da dirle, perché erano morti per cause naturali. Il loro era stato un trapasso sereno, senza problemi, e lei si occupava di chi invece aveva subito una morte tutt’altro che serena. La sua missione era scoprire che cosa era successo a chi moriva di morte violenta, in circostanze sospette. E così cercava di non avere niente a che fare con i cadaveri che stavano immersi nelle vasche, con la divisione di Anatomia e con chi ci lavorava. Non frequentava volentieri Dave o Edgar Allan e i morti che sollevavano con l’argano appesi per le orecchie. Preferiva non vederli.

Avrebbe dovuto fare più attenzione, pensa adesso, con un fastidiosissimo bruciore allo stomaco. Forse glielo ha provocato il caffè, forse i sensi di colpa. Guarda la cartella di Pogue e rimpiange di avergli lasciato usare quelle mazze da baseball per polverizzare i residui di cremazione. Controlla il recapito fornito da Pogue al dottor Philpott: fino al 1996 era un indirizzo di Ginger Park, nella zona nord di Richmond, poi una casella postale. Vedendo che non è indicato un domicilio più recente, Kay Scarpetta si chiede se Edgar Allan Pogue non sia andato a stare nella casa della signora Arnette, quella dietro alla casa dei Paulsson, proprio nel 1996. Forse ha ucciso anche lei, per impossessarsi della sua casa.

Sulla quercia adesso si è posata una cincia, che Kay osserva con la cartella aperta fra le mani e il sole che le scalda piacevolmente la faccia. Conosce i pregiudizi della gente e sa che molte persone ignoranti ritengono che chi si occupa dei morti ha il gusto del macabro. Ma Kay Scarpetta è fatta così, e preferisce occuparsi dei morti che dei vivi. La gente dice che gli anatomopatologi sono tipi antisociali, eccentrici e freddi, spesso privi di compassione. Che fanno autopsie perché non sanno curare le malattie e sono dei falliti sia come medici che come esseri umani.

Forse è stato proprio a causa di questi pregiudizi che Kay Scarpetta ha evitato gli aspetti più oscuri della propria professione e non vuole addentrarsi nei suoi meandri. Edgar Allan Pogue, invece, deve averlo fatto. Kay Scarpetta non prova gli stessi suoi sentimenti, ma per certi versi li capisce. Ripensa al suo viso bianco, al suo sguardo furtivo, e ricorda il giorno in cui Lucy scese con lei nella divisione di Anatomia. Erano le vacanze di Natale ed era andata a trovarla. Lucy adorava andare con lei in ufficio e quel giorno Kay Scarpetta doveva parlare con Dave ed era scesa nella divisione di Anatomia con Lucy, che faceva la matta per i corridoi. Giocava con le lettighe, faceva baccano. Successe qualcosa, quel giorno, ricorda vagamente. Un incidente, forse. Che cosa?

La cincia di là dal vetro sembra guardarla negli occhi. Kay Scarpetta alza la tazza e l’uccello vola via. Il sole, pallido, brilla sulla tazza bianca con lo stemma del Medical College of Virginia. Kay Scarpetta si alza e compone il numero di Marino.

«Pronto» risponde lui.

«Non tornerà a Richmond» gli dice Kay Scarpetta. «Sa che lo stiamo cercando. E poi la Florida è l’ideale per chi ha problemi all’apparato respiratorio.»

«Sarà meglio che io torni in Florida, allora. Tu che cosa pensi di fare?»

«Devo ancora sbrigare una faccenda, poi riparto anch’io» replica lei.

«Ti serve una mano?»

«No, grazie.»

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