Ansimando, Samwell Tarly fece un altro passo. “Questo è l’ultimo, davvero l’ultimo. Non ce la faccio ad andare avanti, non ce la faccio proprio.” Ma i suoi piedi continuarono a muoversi. Il destro, e poi il sinistro, e poi di nuovo il destro. Un passo e dopo un altro. “Non sono i miei piedi, appartengono a qualcun altro. È quest’altro che cammina, non posso essere io.”
Abbassò lo sguardo e li vide aprirsi la strada nella neve, cose goffe, prive di forma. I suoi stivali erano neri, questo gli sembrava di ricordarlo, ma ora le neve si era incrostata sul cuoio, tramutandoli in deformi sferoidi bianchi. Parevano due blocchi di ghiaccio.
La neve non aveva fine. I cumuli gli arrivavano alle ginocchia, altre croste gli si erano formate sulla parte inferiore delle gambe, simili a placche congelate. I sui passi erano strascicati, sussultanti. Il pesante zaino che aveva sulla schiena lo faceva apparire come una specie di gobbo deforme. Ed era tanto stanco, tanto stanco. “Non posso andare avanti. Madre, abbi misericordia.”
Ogni quattro o cinque passi era costretto ad afferrarsi il cinturone della spada e a tirarlo su. La spada l’aveva perduta sul Pugno dei Primi Uomini, ma il fodero continuava a essere appeso al cinturone. Sam aveva ancora i due pugnali, la daga che gli aveva dato Jon Snow, con la lama fatta di vetro di drago, e quello d’acciaio, con cui tagliava la carne. Era altro peso da trascinarsi dietro. Peggio ancora, il suo ventre era talmente grosso e tondo che, a dispetto di quanto stringesse la fibbia, se si fosse dimenticato di tirare periodicamente su il cinturone questo avrebbe finito per scivolare al suolo, attorcigliandosi alle caviglie. Una volta, aveva anche provato a serrare la fibbia al di sopra del girovita, ma il cinturone gli era salito fin quasi alle ascelle. A quella vista, Grenn si era quasi spaccato in due dalle risate. Quanto a Edd l’Addolorato, il suo commento era stato: «Conoscevo un individuo che portava la spada appesa a una catena attorno al collo. Un giorno però è scivolato e l’elsa gli ha attraversato il naso».
Anche Sam continuava a scivolare. C’erano rocce in agguato sotto il manto nevoso, e radici sporgenti, e a volte buche profonde nel terreno congelato. Tre giorni prima, Bernarr il Nero era finito in una buca e si era spezzato una caviglia. O forse era stato quattro giorni prima? O addirittura… in realtà, Sam non sapeva quanto tempo fosse passato, con esattezza. In ogni caso, dopo l’incidente, il lord comandante aveva messo Bernarr in sella a uno dei cavalli.
Con un singulto, Sam fece un altro passo. Gli sembrava di cadere più che di camminare. Una caduta senza fine, ma senza mai picchiare contro il terreno. Solo cadere e cadere e cadere. “Devo fermarmi. Fa troppo male. E fa così freddo, e io sono così stanco. Devo dormire. Solo per poco, vicino al fuoco. E magari mangiare qualcosa che non sia congelato.”
Solo che, se si fosse fermato, sarebbe morto.
Di questo, Samwell Tarly era consapevole. Tutti quanti lo erano, quei pochi di loro che rimanevano. In cinquanta, forse anche di più, se n’erano andati dal Pugno dei Primi Uomini. Ma alcuni si erano persi nella neve, e molti dei feriti erano morti dissanguati. A volte, Sam udiva delle grida provenire dalla retroguardia. Una volta, c’era stato un urlo orribile. Quando l’aveva sentito, si era messo a correre. Venti iarde, forse trenta. Aveva corso quanto più in fretta, quanto più lontano aveva potuto, i suoi piedi mezzo congelati avevano calciato la neve in alto. Avrebbe continuato a correre… se solo le gambe avessero retto. “Sono dietro di noi. Sono ancora dietro di noi. E ci stanno distruggendo uno dopo l’altro.”
Ansimando, Sam fece un altro passo. Era talmente tanto tempo che sentiva freddo da aver dimenticato che cosa fosse il calore. Indossava tre paia di mutande lunghe, due strati di maglia sotto una doppia tunica di lana. E su quella, una spessa giubba imbottita che lo difendeva dal gelido acciaio della cotta di maglia. Sopra l’acciaio portava un’ampia tunica, e sopra questa un mantello a triplo spessore con un singolo bottone d’osso che si serrava sotto i suoi svariati menti. Il cappuccio continuava a ondeggiargli sulla fronte. Grossi sopraguanti di pelliccia gli ricoprivano le mani, avvolte al di sotto da sottili guanti di lana e cuoio. Teneva una sciarpa stretta attorno alla parte inferiore della faccia, e sotto il cappuccio aveva una berretta di maglia di lana tirata giù sulle orecchie. Eppure, lui il freddo continuava ad averlo dentro. Specialmente dentro i piedi. Ormai non li sentiva più, mentre soltanto il giorno prima gli provocavano un tale inferno di sofferenza che quasi non riusciva a stare in posizione eretta, figurarsi a camminare. Voleva urlare a ogni passo. Questo era stato ieri? Non riusciva a ricordare. Era dal Pugno che non dormiva, da quando il corno aveva lanciato quei terribili tre richiami. A meno che non si fosse addormentato camminando. Poteva camminare, un uomo che dormiva? Sam non ne aveva idea. O forse aveva dimenticato e basta.
Ansimando, fece un altro passo. La neve vorticava su di lui. A volte cadeva da un cielo bianco, altre volte da un cielo nero. Era tutto quello che gli restava dei concetti del giorno e della notte. La portava sulle spalle come un secondo mantello, la neve. Si ammucchiava sopra lo zaino che aveva sulla schiena, rendendolo sempre più pesante, sempre più difficile da trasportare. La parte inferiore della schiena gli doleva in modo intollerabile. Era come se qualcuno gli avesse piantato un coltello nella spina dorsale e girasse dentro la lama a ogni passo. Il peso della maglia di ferro aveva tramutato le sue spalle in un altro incubo di sofferenza. Avrebbe dato qualsiasi cosa per togliersela, ma aveva paura di farlo. E comunque, per arrivarci, sarebbe stato costretto a rimuovere prima il mantello e poi la tunica. Ma a quel punto, il freddo avrebbe vinto.
“Se solo fossi più forte…” Solo che lui non era più forte, e desiderare di esserlo non serviva a niente. Sam era debole, ed era grasso, molto grasso. Riusciva a stento a trascinare il proprio peso, e la maglia di ferro era troppo per lui. A dispetto di tutti gli strati di tessuto, di tutte le imbottiture, aveva come l’impressione che il metallo gli stesse scavando due solchi direttamente nella carne delle spalle. L’unica cosa che poteva fare era piangere, ma quando piangeva le lacrime gli si congelavano sulle guance.
Ansimando, fece un altro passo. La crosta nevosa era già spezzata dove lui metteva i piedi, diversamente non sarebbe nemmeno riuscito a muoversi. Alla sua destra, alla sua sinistra, in un pulsare vacuo tra gli alberi avvolti dal silenzio, torce in movimento gettavano dilatati aloni arancione sulla neve che cadeva. Voltando la testa, riusciva a vedere le chiazze di luce spostarsi silenziosamente, ondeggiando su e giù, avanti e indietro, tra i tronchi. “L’anello di fuoco del Vecchio orso” ricordò a se stesso. “E guai a chi se ne allontana.” Marciando, gli sembrava di stare inseguendo le torce davanti a lui, ma anche quelle erano dotate di gambe, più lunghe, più forti delle sue, per cui non riusciva mai a raggiungerle.
Il giorno prima, li aveva implorati di lasciare portare a lui una di quelle torce, nonostante questo significasse avanzare al di fuori della colonna, con le tenebre che premevano da vicino. Voleva il fuoco, sognava il fuoco. “Se avessi il fuoco, non avrei freddo.” Poi qualcuno gli aveva detto che lui l’aveva avuta, una torcia. Che però l’aveva lasciata cadere nella neve, facendo spegnere la fiamma. Sam non ricordava di aver lasciato cadere nessuna torcia, ma probabilmente era accaduto. Era troppo debole per riuscire e tenere il braccio sollevato a lungo. Chi era stato a dirgli della torcia, Edd? O forse Grenn? Non ricordava nemmeno questo. “Grasso e debole e inutile, perfino la mente mi si sta congelando.” Fece un altro passo.
Si era avvolto la sciarpa su bocca e naso, ma adesso la lana era impregnata di muco, ed era diventata talmente rigida che doveva essersi congelata contro la sua faccia. Perfino respirare era difficile, l’aria talmente gelida che spingerla nei polmoni faceva male.
«Madre, abbi misericordia» mugolò con voce rauca da dietro la maschera di gelo. «Madre, abbi misericordia. Madre, abbi misericordia. Madre, abbi misericordia.»
Sua madre, quella vera, era lontana migliaia di leghe, al sicuro con le sue sorelle e il suo fratellino Dickon nella fortezza sulla collina del Corno. “Non è in grado di udirmi, non più di quanto possa udirmi la Madre nel più alto dei cieli.” La Madre era misericordiosa, tutti i septon concordavano su questo. Ma i Sette Dèi non avevano potere a nord della Barriera. Qui dominavano gli antichi dèi, le entità senza nome degli alberi e dei lupi e delle nevi.
«Pietà.» Lo sussurrò a chiunque stesse ascoltando, dèi antichi, dèi nuovi. O demoni. «Pietà di me, pietà di me…»
“Anche Maslyn ha urlato pietà.” Perché, di colpo, si era ricordato di questo proprio adesso? Non c’era nulla che lui volesse ricordare. Maslyn era crollato all’indietro, lasciando cadere la spada, implorando, arrendendosi, arrivando perfino a strapparsi gli spessi guanti neri per spingerli davanti a sé come se fossero stati guanti ferrati ormai inutili. Stava ancora urlando quando il morto che cammina lo aveva preso per la gola, strappandolo da terra, quasi staccandogli la testa. “I morti che camminano non conoscono la pietà, e gli Estranei… no, non devo pensare agli Estranei, non devo. L’unica cosa che devo fare è camminare, solo camminare, solo camminare.”
Ansimando, fece un altro passo.
Una radice sporgente gli afferrò la punta dello stivale. Sam inciampò e cadde duramente su un ginocchio, mordendosi la lingua. In bocca, ebbe il sapore del sangue, il calore del sangue. La cosa più calda che sentiva dal Pugno. “Questa è la fine” pensò. Adesso che era caduto, non credeva di essere in grado di mettere assieme la forza per rialzarsi. Annaspò alla ricerca di un ramo a cui appoggiarsi, lo trovò, cercò di trascinarsi nuovamente in piedi. Niente da fare, le gambe irrigidite non lo ressero. La maglia di ferro era troppo pesante, e lui era troppo grasso, troppo debole, troppo stanco.
«In piedi, porcello» grugnì qualcuno nel superarlo.
Sam non ci fece nemmeno caso. “Mi sdraio nella neve e chiudo gli occhi.” Non sarebbe stato così brutto morire lì, in quel momento. Difficilmente avrebbe avuto più freddo di quanto già ne provava. E dopo un po’, avrebbe cessato di sentire anche il dolore alla schiena e alle spalle, così come già non sentiva più i piedi. “Non sarò stato io il primo a morire, questo non potranno dirlo.” A centinaia, centinaia, erano morti sul Pugno dei Primi Uomini. Erano morti tutto attorno a lui, e altri ancora erano morti dopo. Li aveva visti con i suoi occhi. Tremando, Sam abbandonò la presa sul ramo e si adagiò sulla neve. Era fredda, bagnata, lui lo sapeva, ma attraverso tutti quegli strati di vestiti quasi non se ne accorse. Guardò in alto, verso il cielo livido, i fiocchi di neve che gli scendevano sul ventre, sul petto, sulle palpebre.
“La neve mi ricoprirà come una spessa coperta bianca. Farà più caldo sotto la neve, e quando parleranno di me, diranno che sono morto da uomo dei Guardiani della notte. È così, è così. Ho fatto il mio dovere. Nessuno potrà dire che mi sono tirato indietro. Sono grasso e sono debole e sono codardo. Ma ho fatto il mio dovere.”
I corvi messaggeri erano stati sua responsabilità. Era per questo che lo avevano portato con loro nella spedizione oltre la Barriera. Lui non voleva andare, glielo aveva detto, aveva detto a tutti quanti che razza di codardo era. Ma maestro Aemon era molto vecchio, ed era anche cieco, così avevano dovuto mandare Sam a occuparsi dei corvi. Il lord comandante gli aveva dato ordini precisi mentre stavano allestendo l’accampamento sulla cima del Pugno dei Primi Uomini.
«Tu non sei un guerriero. Questo lo sappiamo tutti e due, ragazzo. Se dovessero attaccarci, non cercare di provare il contrario, saresti solo d’impiccio e basta. Il tuo compito è mandare un messaggio. E non arrivare di corsa a chiedermi che cosa dire. Scrivilo tu, il messaggio. Manderai un uccello al Castello Nero e un altro alla Torre delle ombre.» Il Vecchio orso aveva spianato l’indice dritto in faccia a Sam. «Non m’importa niente se sarai così spaventato da fartela nelle brache, e non m’importa niente se mille bruti urlanti assetati del tuo sangue superano l’anello di pietre… tu fa’ volare quegli uccelli. Perché se non lo fai, ti giuro che verrò a darti la caccia fino al fondo dei sette inferi, e ti farò pentire in modo fottuto di non averli fatti volare!»
«Pentire!» aveva gridato il corvo di Mormont, appollaiato sulla sua spalla. «Pentire, pentire!»
Sam era pentito. Pentito di non essere più coraggioso, più forte, più abile con la spada. Pentito di non essere stato un figlio migliore per suo padre, un fratello migliore per Dickon e le ragazze. Era anche pentito di arrendersi alla morte. Ma uomini migliori di lui erano morti, sul Pugno, uomini validi e decisi, non bercianti ragazzi ciccioni com’era lui. Ma per lo meno, il Vecchio orso non sarebbe venuto a dargli la caccia all’inferno. “Li ho fatti volare, gli uccelli. Quella cosa l’ho fatta giusta, almeno quella.” Aveva scritto i messaggi in anticipo, messaggi brevi e semplici, che menzionavano un attacco contro il Pugno dei Primi Uomini. Poi li aveva tenuti al sicuro nella sua sacca delle pergamene, con la speranza di non dover mai mandarli…
Quando i corni avevano suonato, lui stava dormendo.
“Forse sto solo sognando”, fu quello il suo primo pensiero. Aprì gli occhi. Si era messa a cadere la neve. Ma non era per nulla un sogno: dappertutto, nell’accampamento, i confratelli in nero afferravano spade, picche e archi e correvano verso il muro perimetrale. Vicino a lui c’era soltanto Chett, che era stato attendente di maestro Aemon, un tipo con la faccia piena di vesciche pustolose e con un grosso porro sul collo. Quando il terzo ululato del corno si aprì lamentosamente la strada tra gli alberi, Sam vide i lineamenti del volto di Chett stravolti da un terrore senza pari, come mai aveva visto prima di allora.
«Aiutami a far partire i corvi!» gli gridò Sam.
Niente da fare, l’altro attendente si girò e scappò, la daga stretta in mano. “Lui ha i cani di cui occuparsi” ricordò Sam. E forse, il lord comandante aveva dato degli ordini anche a Chett.
Sotto i guanti, le sue dite erano goffe, rigide. Lui tremava di freddo e di paura. Trovò la sacca delle pergamene, tirò fuori i messaggi che aveva scritto. I corvi stavano urlando furiosamente. Nel momento in cui aprì la gabbia del Castello Nero, uno degli uccelli gli volò in faccia. Altri due riuscirono a scappare prima che Sam riuscisse ad afferrarne uno. Il corvo lo prese a beccate feroci, perforandogli un guanto e facendo scorrere il sangue. Eppure, in qualche modo, Sam riuscì a trattenerlo il tempo necessario per attaccargli alla zampa il piccolo rotolo di pergamena.
«Vola!» Sam lanciò l’uccello nell’aria.
I corvi per la Torre delle ombre si agitavano e gridavano in modo talmente folle che Sam aveva paura anche solo ad aprire la gabbia. Si costrinse a farlo. E questa volta, riuscì a prendere il primo uccello che cercò di scappare. Un momento dopo, anche il secondo corvo si sollevava nella neve, portando il messaggio dell’attacco.
Assolto il proprio compito, Sam finì di vestirsi con dita impacciate e tremanti. Mise la berretta, la tunica, il mantello con cappuccio. Si affibbiò il cinturone con la spada, serrandolo al massimo perché non scivolasse giù. Trovò il suo zaino, cacciò dentro tutto quanto: biancheria e calzini asciutti, i rostri di vetro di drago e la punta di lancia che Jon gli aveva dato, e perfino il vecchio corno. E poi le pergamene, gli inchiostri, le penne d’oca, le mappe che aveva tracciato, una salsiccia all’aglio ormai dura come un sasso che si era portato dietro fin dalla Barriera. Legò il tutto e si issò lo zaino sulla schiena. “Il lord comandante ha detto di non precipitarmi sull’anello di pietre” ricordò. “Ma non ha detto di non precipitarmi da lui.”
Sam inspirò a fondo. In realtà, non aveva idea di che cosa fare adesso. Si mise a girare in tondo, perduto, con la paura che gli montava dentro, come sempre. Cani abbaiavano e cavalli nitrivano, ma la neve attutiva i suoni, trasformandoli in cose lontane. Oltre le tre iarde di distanza, Sam non riusciva a vedere niente, nemmeno le torce che ardevano sul basso muro di pietre che circondava la sommità dell’altura. “Che le torce si siano spente?” Qualcosa che faceva troppa paura, anche solo a pensarci. “Il corno ha suonato tre volte. Tre volte vuol dire Estranei.” Gli erranti bianchi delle foreste, le ombre fredde, i mostri delle storie che gli raccontavano da bambino, che lo facevano tremare e mugolare: mostri assetati di sangue, che cavalcavano giganteschi ragni del ghiaccio…
Goffamente, estrasse la spada. Serrandola nel pugno, arrancò nella neve. Un cane lo superò abbaiando. Poi vide alcuni uomini della Torre delle ombre, grandi uomini barbuti armati di asce lunghe e di picche di quasi tre iarde. Si sentì più al sicuro assieme a loro, così li seguì fino all’anello perimetrale. Sulle antiche pietre, le torce stavano ancora bruciando. Questo gli fece tirare un sospiro di sollievo.
I confratelli in nero erano immobili, spade e picche in pugno, osservando la neve che cadeva, in attesa. Ser Mallador Locke passò alle loro spalle a cavallo, con in capo un elmo picchiettato di neve. Sam si tenne parecchio dietro lo schieramento, cercando Grenn ed Edd l’Addolorato. “Se devo morire” pensò “che almeno sia vicino ai miei amici.” Ma tutti gli uomini attorno a lui gli erano sconosciuti, guerrieri della Torre delle ombre al comando di un ranger di nome Blane.
«Eccoli che arrivano» disse uno dei confratelli.
«Incoccare» ordinò Blane.
Venti frecce nere scivolarono fuori da altrettante faretre, i tagli di coda andarono a innestarsi nelle corde di venti archi neri.
«Dèi misericordiosi» disse un’altra voce, in un soffio «sono centinaia.»
«Tendere» disse Blane. E poi: «Aspettate».
Sam non riusciva a vedere. E non voleva vedere. Gli uomini dei Guardiani della notte erano in piedi dietro le torce, gli impennaggi delle frecce arretrati a ridosso dell’orecchio. Mentre qualcosa saliva rapido lungo il pendio scivoloso, immerso nelle tenebre, strangolato dalla neve.
«Aspettate» disse nuovamente Blane. «Aspettate, aspettate…»
Qualcosa continuò a salire.
«Lanciare!»
Le frecce sibilarono nell’aria gelida.
Frammentate grida di esultanza si levarono dagli uomini sull’anello di pietre. Grida che morirono fin troppo presto.
«Non si fermano, milord» disse a Blane uno dei confratelli.
«Degli altri!» urlò un altro. «Guardate! Arrivano dagli alberi!»
«Dèi, abbiate pietà…» una terza voce. «Avanzano strisciando! Sono quasi qua… ci stanno addosso!»
Sam aveva continuato ad arretrare. Tremava come l’ultima foglia rimasta attaccata all’albero spoglio quando si alza il vento. Tremava per il freddo. E per il terrore…
Era stata una notte gelida, quella sul Pugno dei Primi Uomini.
“E questa notte è anche più gelida. La neve sembra quasi calda in confronto. Mi sento meglio, adesso. Un po’ di riposo era quello che mi ci voleva. Forse tra qualche momento avrò recuperato abbastanza forze per riprendere a camminare. Tra qualche momento.”
Un cavallo lo superò, passandogli a un palmo dalla testa, un’arruffata bestia grigia con la criniera piena di neve e gli zoccoli incrostati di ghiaccio. Sam lo guardò arrivare e lo guardò allontanarsi. Un altro cavallo apparve nella neve che continuava a cadere, trattenuto per le redini da un uomo vestito di nero. L’uomo vide Sam che giaceva in mezzo alla pista, imprecò e portò il cavallo ad aggirarlo.
“Quanto vorrei averlo anch’io, un cavallo” pensò. “Se avessi un cavallo potrei continuare a muovermi. E potrei stare seduto, e magari dormire un po’ sulla sella.”
Quasi tutti i loro cavalli erano andati perduti sul Pugno. E i pochi che restavano erano carichi di cibo, di torce e di feriti. Sam non era ferito. “Sono solo grasso e debole. E sono anche il più grande codardo dei Sette Regni.”
Era un tale codardo, lui… Randyll Tarly, il lord suo padre, lo aveva sempre detto. E aveva ragione. Samwell era il suo erede, ma non era mai stato degno del titolo, per questo suo padre lo aveva spedito sulla Barriera. Sarebbe stato Dickon, suo fratello minore, a ereditare le terre dei Tarly e il castello. E anche Veleno del cuore, la grande spada di acciaio di Valyria che i signori della collina del Corno avevano portato così orgogliosamente per secoli. Si chiese se suo fratello Dickon avrebbe mai versato almeno una lacrima per quel suo fratello morto nella neve, da qualche parte oltre l’ultimo margine del mondo. “Perché dovrebbe? Non vale la pena di versare lacrime per un codardo.” Qualcosa che Sam aveva udito suo padre ripetere a sua madre centinaia di volte. E questo, anche il Vecchio orso lo sapeva…
«…Frecce incendiarie!»
Il ruggito del lord comandante perforò la notte sulla cima del Pugno dei Primi Uomini. Jeor Mormont apparve dalle tenebre all’improvviso, in sella al suo destriero.
«Date loro la fiamma!» Fu in quel momento che notò Sam, tremante dietro gli schieramenti. «Tarly! Vattene via di qui! Il tuo posto è con i corvi!»
«Io… io… io ho fatto partire i messaggi.»
«Bene.»
«Bene, bene» fece eco il corvo sulla spalla di Mormont.
In pellicce e maglia di ferro, il lord comandante appariva immenso. «Sei di troppo qui, Tarly.» Dietro la feritoia nella celata, i suoi occhi brillavano di feroce determinazione. «Torna alle tue gabbie. Se avrò bisogno di mandare altri messaggi, non voglio doverti cercare. Provvedi che i corvi siano pronti.» Fece voltare il cavallo da guerra senza attendere una risposta e riprese a trottare attorno all’anello difensivo. «Fuoco! Date loro il fuoco!»
Sam non ebbe bisogno di farsi ripetere l’ordine. Tornò dagli uccelli quanto più in fretta le sue gambe grasse riuscirono a portarlo. “Meglio che scriva i messaggi in anticipo,” pensò “in modo da far volare gli uccelli al più presto possibile.” Questa volta, gli ci volle molto più tempo del previsto per accendere il piccolo fuoco e riscaldare l’inchiostro congelato. Si sedette accanto a una roccia con penna e pergamena e scrìsse i messaggi.
“Sotto attacco con neve e gelo, ma li abbiamo respinti usando frecce incendiarie” scrisse.
«Incoccare! Tendere…!» era la voce di Thoren Smallwood. «Lanciare!»
Il sibilo della nuova bordata di frecce gli parve più dolce della preghiera di una madre.
«Bruciate, bastardi! Bruciate tutti!» gridò Dywen, facendo schioccare i denti di legno.
Gli altri confratelli gridarono e imprecarono.
“Tutti salvi” scrisse. “Rimaniamo sul Pugno dei Primi Uomini.” Sam si augurò che quegli arcieri fossero migliori di lui.
«Continuano a venire avanti!» disse qualcuno.
“Esito dello scontro incerto.”
«Picche!» un’altra voce, forse quella di ser Mallador, ma Sam non poté esserne certo.
“Morti che camminano ci attaccano sul Pugno” scrisse. “Li respingiamo con il fuoco.”
Girò la testa. Tra la neve vorticante, l’unica cosa che riusciva a vedere era l’enorme fuoco che ardeva al centro dell’accampamento, e sagome nere di uomini a cavallo che si muovevano senza sosta attorno alle fiamme. La forza di riserva, Sam lo sapeva, era pronta ad abbattere qualsiasi cosa avesse superato l’anello difensivo perimetrale. Al posto delle spade, erano armati di torce, che stavano accendendo alle fiamme del grande braciere.
“Morti che camminano tutto attorno a noi” scrisse. Poi udì grida levarsi dal versante nord. “Arrivano a un tempo dal versante sud e da quello nord. Lance e spade non li fermano, solo il fuoco.”
«Lanciare! Lanciare! Lanciare!» urlò una voce nella notte.
Un’altra voce ancora: «Cazzo! È enorme!». Una terza: «Un gigante!». Una quarta: «Un orso! Un orso!».
Un cavallo nitrì e i cani si misero ad abbaiare. E poi le urla si tramutarono in una cacofonia abominevole e Sam non fu più in grado di distinguere nessuna voce. Ma continuò a scrivere, una nota dopo l’altra. “Bruti morti, un gigante, o forse un orso, su di noi, da tutte le parti.” Ci fu lo schianto dell’acciaio contro il legno. Poteva significare una sola cosa. “Morti che camminano superano l’anello difensivo. Battaglia all’interno dell’accampamento.” Una dozzina di confratelli a cavallo lo superarono, diretti alla muraglia ovest, ognuno di loro impugnava un ramo infuocato che si lasciava dietro nembi di scintille. “Il lord comandante Mormont li affronta con il fuoco. Abbiamo vinto. Stiamo vincendo. Stiamo tenendo la posizione. Rompiamo l’accerchiamento combattendo e ci ritiriamo verso la Barriera. Siamo intrappolati sul Pugno dei Primi Uomini, continuano ad attaccarci.”
Uno degli uomini della Torre delle ombre emerse dalle tenebre a passi barcollanti, venendo a crollare ai piedi di Sam. Riuscì a trascinarsi a un palmo dal fuoco prima di morire.
“Perduta” scrisse Samwell Tarly. “La battaglia è perduta. Tutti noi siamo perduti.”
Perché? Perché gli ritornava alla mente il combattimento sulla cima del Pugno? Non voleva ricordare, invece. Non quello. Cercò di costringersi a ricordare sua madre, o la sua sorellina Talla, o quella ragazza Gilly al castello di Craster. Qualcuno cominciò a scuoterlo per una spalla.
«Alzati» disse una voce. «Sam, non puoi dormire qua. Alzati e rimettiti a camminare.»
“Non sto dormendo, sto ricordando.” «Vattene» rispose Sam, con le parole che si cristallizzavano nell’aria glaciale. «Sto bene. Voglio riposare.»
«Alzati!» Era la voce di Grenn, aspra e roca. L’uomo incombeva su Sam, abiti neri incrostati di bianco. «Non c’è riposo, ha detto il Vecchio orso. Morirai.»
«Grenn…» Sam sorrise. «No, sul serio, qui io sto bene. Tu vai avanti. Ti raggiungo dopo che mi sono riposato un altro po’.»
«No, invece.» Tutto attorno alla bocca, la spessa barba castana di Grenn era piena grumi di ghiaccio. Questo lo faceva sembrare un vecchio. «Finirai per congelare, o se no ti prendono gli Estranei. Sam, in piedi!»
La notte prima che lasciassero la Barriera, Pyp aveva a lungo preso in giro Grenn, Sam se ne ricordava. Pyp con un sorriso aveva detto che Grenn era in assoluto il miglior ranger, perché era troppo stupido per essere terrorizzato. Grenn aveva negato con veemenza, fino a quando non si era reso conto di quello che stava dicendo. Era un giovane tozzo, dal collo grosso, fisicamente molto forte. Ser Alliser Thorne, il tetro maestro d’armi del Castello Nero, lo chiamava “Bue”, così come chiamava Sam “Messer Porcello” e Jon “Lord Snow”. Grenn però aveva sempre trattato Sam abbastanza bene. “Ma l’ha fatto perché aveva paura di Jon. Se non fosse stato per Jon, non sarei piaciuto a nessuno di loro.” Solo che adesso Jon era andato, disperso sul passo Skirling assieme a Qhorin il Monco. Molto probabilmente era morto. Sam avrebbe voluto piangere per lui, ma anche quelle nuove lacrime si sarebbero congelate. Inoltre, adesso riusciva a stento a tenere gli occhi aperti.
Un confratello alto di statura si fermò presso di loro, torcia in pugno. Per un momento meraviglioso, Sam sentì sul volto il calore della fiamma. «Lascialo» l’uomo disse a Grenn. «Quando non ce la fanno più a camminare, è finita. Risparmia le forze per quando ne avrai bisogno, Grenn.»
«Si alzerà» rispose Grenn. «Ha solo bisogno di una mano.»
Il confratello passò oltre, portando via con sé il meraviglioso calore della torcia. Grenn cercò di rimettere Sam in piedi.
«Fa male» si lamentò lui. «Fermati. Grenn, mi stai facendo male al braccio. Basta.»
«Sei troppo fottutamente pesante…»
Grenn piantò le mani sotto le ascelle di Sam, emise un grugnito e lo sollevò di forza. Ma l’attimo stesso in cui lasciò la presa, Samwell tornò ad accasciarsi sulla neve. Grenn gli assestò un calcio, un colpo solido che spezzò la crosta di ghiaccio attorno al suo stivale, lanciando frammenti bianchi in ogni direzione.
«Tirati su!» Gli diede un altro calcio. «Mettiti in piedi e cammina. Devi camminare!»
Sam crollò di lato, rannicchiandosi stretto su se stesso per resistere ai successivi calci. Sotto tutti quegli strati di lana e di cuoio, quasi non li aveva sentiti. Ma facevano male lo stesso. “Pensavo che Grenn fosse mio amico. Non si devono dare calci agli amici. Perché non mi lasciano in pace e basta? Devo soltanto riposare un po’, tutto qui. E poi, forse, anche morire un po’.”
«Se la torcia la prendi te, il ragazzo grasso lo porto io.»
E poi, di colpo, Samwell Tarly volò nell’aria gelida, lontano dalla neve soffice: stava fluttuando. Sentiva un braccio sotto le ginocchia, un altro braccio sotto la schiena. Sam sollevò la testa e strizzò gli occhi. Una faccia incombeva su di lui. Una faccia larga e brutale, dal naso schiacciato e dai piccoli occhi scuri, contornata da un’ispida barba marrone. Aveva già visto quella faccia, ma gli ci volle qualche attimo per ricordare. “Paul, Piccolo Paul.” Il calore della torcia sciolse il ghiaccio che Sam aveva sulla fronte, facendogli colare l’acqua negli occhi.
«Riesci a reggerlo?» chiese Grenn.
«Una volta ho portato un vitello anche più grosso di lui. L’ho portato dalla sua mamma, così gli faceva bere un poco del latte.»
La testa di Sam andava su e giù a ogni passo di Piccolo Paul. «Fermati» gorgogliò. «Mettimi giù. Non sono un bambino. Sono un uomo dei Guardiani della notte.» Ebbe un singulto. «Lasciatemi morire.»
«Stai zitto, Sam» intimò Grenn. «Risparmia le forze. Pensa alle tue sorelle e a tuo fratello. A maestro Aemon. Al tuo mangiare preferito. Canta una canzone, magari.»
«A voce alta?»
«Solo nella testa.»
Sam ne conosceva cento, di canzoni. Ma quando cercò di farsene venire in mente anche solo una, non ci riuscì. Tutte le rime sembravano essere svarate. Singhiozzò ancora una volta. «Non conosco canzoni, Grenn. Ne sapevo qualcuna, ma adesso non più.»
«Sì che le sai» disse Grenn. «Che ne dici di L’orso e la fanciulla bionda, la conoscono tutti, quella lì. Dài: Un orso, c’era. Un orso, un orso! Tutto marrone e nero, tutto coperto di pelo…»
«No, non quella» pregò Sam. L’orso che era arrivato sulla cima del Pugno dei Primi Uomini non aveva pelo a coprire la sua carne putrescente. Non voleva pensare agli orsi. «Niente canzoni. Ti prego, Grenn.»
«Pensa ai corvi, allora.»
«Non sono mai stati miei, quei corvi.» “Erano i corvi del lord comandante, i corvi dei Guardiani della notte.” «Appartenevano al Castello Nero e alla Torre delle ombre.»
Piccolo Paul corrugò la fronte. «Chett diceva che potevo prendermelo io, il corvo del Vecchio orso, quello che parla. Avevo messo da parte il cibo e tutto quanto» scosse il capo. «Ma mi sono dimenticato. Ho lasciato il cibo dov’è nascosto.» Il gigantesco confratello continuò ad avanzare, con Sam tra le braccia e il fiato che gli si condensava fuori dalla bocca a fiotti ritmici. «Posso avere uno dei corvi tuoi?» chiese all’improvviso. «Solo uno. Non glielo permetto a Lark che se lo mangia.»
«Sono andati» disse Sam. «Mi dispiace.» “Così tanto, mi dispiace.” «Stanno tornando in volo alla Barriera, adesso…»
Stava liberando i corvi, tutti i corvi, quando udì il corno urlare di nuovo, lanciando ai confratelli in nero il segnale di montare a cavallo.
“Due suoni corti, uno lungo: l’ordine di mettersi in sella.” Poteva esistere una sola ragione per quell’ordine: abbandonare il Pugno dei Primi Uomini. Il che significava che la battaglia era perduta.
Il terrore lo aggredì con tale ferocia, che Samwell Tarly ebbe solo la forza di fare quell’unica cosa: aprire le gabbie. Solo quando l’ultimo degli uccelli fu inghiottito dalla tormenta di neve si rese conto di ciò che non aveva fatto: non aveva inviato nessuno degli altri messaggi che aveva scritto.
«No… no!» gridò al buio. «Oh, no, no, no…»
I corni dei Guardiani della notte urlavano nella neve che cadeva incessante: ahooo, ahooo, ahoooooooo. A cavallo, a cavallo, urlavano. Sam vide due corvi appollaiati su una roccia. Corse verso di loro. Entrambi si levarono pigramente in volo tra i turbini di neve, andando in direzioni opposte. Sam ne rincorse uno, il fiato che si condensava in nuvolette livide. Finì con l’inciampare, cadendo a dieci piedi dal muro difensivo perimetrale.
E lì… vide i morti che camminavano scavalcare l’anello di roccia. Avevano frecce piantate in faccia, in gola, eppure continuavano ad avanzare. Alcuni portavano maglie di ferro, altri erano pressoché nudi. Bruti, quasi tutti, ma tra essi ce n’era qualcuno che indossava scoloriti abiti neri della Confraternita. Vide un uomo della Torre delle ombre piantare la picca nel molle ventre bianco di uno dei cadaveri e fargli uscire la punta dalla schiena. L’orribile essere cadde, poi si rialzò barcollando, afferrò la gola del confratello nero e gliela torse fino a quando il sangue non eruttò dalla sua bocca. Fu a quel punto che la vescica di Samwell Tarly cedette per la seconda volta.
Forse si mise a correre. Non ne era più certo. Ma doveva averlo fatto: si ritrovò in prossimità del grande fuoco al centro dell’accampamento, assieme all’anziano ser Ottyn Wythers e ad alcuni arcieri. Ser Ottyn era in ginocchio nella neve, fissando il caos tutto attorno. Un cavallo privo di cavaliere arrivò da chissà dove e gli assestò un calcio in piena faccia. Gli arcieri non diedero nemmeno un’occhiata. Erano troppo occupati a lanciare una freccia incendiaria dopo l’altra contro le ombre che si muovevano verso di loro dalle tenebre. Sam vide uno dei morti viventi venire colpito. In un attimo, divenne una torcia. Inutile: dietro di lui ne arrivava un’altra dozzina Venne anche qualcosa d’altro, un’immane, oscena forma biancastra che doveva essere stato un orso. E di colpo, gli arcieri non ebbero più frecce.
Poi Sam fu a cavallo. Non era il suo cavallo, e non ricordava neppure di essere montato in sella. Forse era lo stesso cavallo che aveva sfondato la faccia a ser Ottyn Wythers. I corni stavano suonando di nuovo. Sam diede di speroni e fece voltare l’animale verso l’origine del suono.
Nel mezzo della carneficina, del caos, della neve che vorticava, trovò Edd l’Addolorato sul suo destriero, con un semplice vessillo nero sulla cima di una lancia.
«Sam,» disse Edd nel riconoscerlo «ti dispiace svegliarmi, per favore? Ho un terribile incubo.»
Da tutte le parti, altri confratelli volteggiavano in sella. I corni continuavano a richiamarli verso il centro. Ahooo, ahooo, ahooo, ahoooooooooooo.
«Hanno sfondato il perimetro ovest, mio lord!» urlò Thoren Smallwood al Vecchio orso, cercando di controllare il cavallo. «Mando le riserve…»
«No!» Jeor Mormont fu costretto a urlare a pieni polmoni per farsi udire al di sopra del fragore dei corni. «Richiamali, Thoren! Richiamali! Dobbiamo aprirci la strada fuori di qui a colpi di spada!» Si erse sulle staffe, il mantello nero che sbatteva nel vento gelido, il chiarore del fuoco riflesso sull’armatura. «Sfondamento, fratelli!» ruggì. «Andiamo giù a cuneo! Versante sud, poi a est!»
«Mio lord, il versante sud brulica di quei mostri!»
«Gli altri lati sono troppo ripidi» dichiarò Mormont. «Dobbiamo…»
Il suo destriero nitrì, arretrando a sussulti. Per poco Mormont non fu disarcionato. L’orso mostruoso apparve dalla neve. Per la terza volta, Sam si pisciò addosso. “Non credevo che dentro me ne fosse rimasto ancora, di piscio.” L’orso era un cadavere livido, in putrefazione, pelo e pelle devastati, metà del braccio destro divorata dal fuoco. Eppure venne avanti lo stesso. Solamente negli occhi c’era una traccia di vita. “Occhi di un blu scintillante, proprio come aveva detto Jon.” Occhi simili a stelle congelate. Thoren Smallwood andò all’assalto, la spada lunga da combattimento che mandava lampi arancioni al chiarore del fuoco. Con un singolo fendente quasi staccò di netto la testa dell’orso. Poi l’orso la staccò a Thoren Smallwood.
«Al galoppo!» urlò il lord comandante, voltando il cavallo.
Erano in piena corsa quando arrivarono all’anello di pietre. Prima di quel momento, Sam non aveva mai avuto il coraggio di far saltare un cavallo. Vide arrivare la bassa muraglia di roccia. E seppe di non avere scelta. Diede di speroni, chiuse gli occhi, emise un gemito. E il destriero lo portò dall’altra parte. In qualche modo, in qualche modo, il destriero lo portò dall’altra parte. Il confratello alla sua destra cadde in un groviglio d’acciaio, cuoio e zampe di cavallo che scalciavano nel vuoto. I morti viventi gli furono addosso in un battito di ciglia, mentre la coda del cuneo degli uomini in nero sciamava nel buio.
Si scaraventarono giù per la collina aprendosi la strada attraverso mani nere che cercavano di afferrarli, fiammeggianti occhi azzurri, turbini di neve. Cavalli inciamparono e crollarono, uomini schizzarono via di sella, torce volteggiarono nell’aria, asce e spade fecero a pezzi carne putrescente. Singhiozzando, Samwell Tarly si aggrappò disperatamente al cavallo. Si aggrappò con una forza che non aveva mai creduto di possedere.
Era nel centro del cuneo, confratelli a destra e a sinistra, altri confratelli davanti e dietro. Per un tratto, uno dei cani corse giù con loro per il pendio innevato, dentro e fuori dalla falange dei cavalli, ma alla fine non resse e rimase indietro, nella notte. I morti viventi che si trovavano di fronte alla cavalleria vennero schiacciati sul terreno e macellati dagli zoccoli. Ma perfino nell’andare giù, perfino mentre venivano squartati, le loro mani nere cercarono di afferrare spade, staffe, zampe dei destrieri. Sam ne vide uno squarciare il ventre di un cavallo con la mano destra, mentre con la sinistra rimaneva aggrappato alla sella.
Di colpo, il paesaggio fu pieno di alberi. Sam si ritrovò nel mezzo di un torrente congelato, i suoni del massacro che si affievolivano alle sue spalle. Si voltò, senza fiato per il sollievo…
Qualcuno a cavallo schizzò fuori dai cespugli e lo strappò dalla sella. Chi fosse, Sam non riuscì a vederlo. L’altro era già andato, svanito nella foresta. Sam cercò di correre dietro al cavallo. Inciampò in una radice affiorante e stramazzò faccia avanti. Rimase là, piangendo come un bambino, fino a quando Edd l’Addolorato non lo trovò nel ghiaccio frantumato.
Fu la sua ultima memoria coerente del luogo maledetto chiamato Pugno dei Primi Uomini. Più tardi, ore più tardi, si risvegliò immobile, tremante di freddo, in mezzo agli altri superstiti. Metà erano a cavallo, l’altra metà a piedi. Si trovavano a miglia di distanza dal Pugno, anche se Sam non ricordava come avessero fatto ad arrivare fino là. Dywen era riuscito a portare giù cinque cavalli da soma, stracarichi di cibo, olio e torce. Tre di essi ce l’avevano fatta ed erano ancora con loro. Il Vecchio orso fece ridistribuire il carico, in modo che un’altra perdita di materiali non si tramutasse in una definitiva catastrofe. Fece smontare gli uomini sani, diede i loro cavalli ai feriti, organizzò l’ordine di marcia e sistemò fiancheggiatori muniti di torce a sorvegliare i lati e la coda dello schieramento.
“Tutta quello che devo fare è camminare” Sam ripeté a se stesso. E aveva compiuto il primo passo verso casa. Camminare, certo. Non era passata neppure un’ora che lui si ritrovò ad arrancare, e poi cominciò a restare indietro…
Stavano restando indietro anche adesso, si rese conto. Si ricordò di qualcosa che aveva detto Pyp riguardo a Piccolo Paul: l’uomo più forte della Confraternita. “Deve esserlo, per riuscire a trasportare me.” Ma la neve era più alta, adesso, e il terreno più ripido, e i passi di Piccolo Paul cominciavano a farsi più corti. Altri feriti a cavallo li superarono, osservando Sam con occhi opachi, increduli. Anche alcuni dei confratelli che reggevano le torce li superarono.
«State restando indietro» disse uno di loro.
«Nessuno rimarrà ad aspettarti, Paul» concordò un altro. «Lascialo ai morti che camminano, quel porcello.»
«Mi ha promesso che posso avere un corvo» rispose Piccolo Paul, anche se Sam non aveva promesso, non realmente. “Non sono miei, non posso darli via.” «Voglio un uccello che parla, e che mi mangia il grano dalla mano.»
«Fottuto idiota» disse l’uomo con la torcia. Poi anche lui svanì.
Dopo un po’, Grenn si fermò all’improvviso. «Siamo soli» disse con voce rauca. «Non vedo nessun’altra torcia. Era la retroguardia, quella?»
Piccolo Paul non aveva risposte da dargli. L’uomo gigantesco emise un grugnito e scivolò in ginocchio. Le sue braccia erano scosse da tremiti violenti quando, gentilmente, depositò Sam sulla neve. «Non ti posso portare più. Lo voglio fare, ma non posso più.» Il suo corpo gigantesco continuò a tremare.
Il vento sussurrava tra gli alberi e li colpiva in faccia con un esile pulviscolo nevoso. Il freddo era talmente brutale che Sam ebbe l’impressione di essere nudo. Con lo sguardo, andò alla ricerca della luce di altre torce. Sparite, tutte quante. L’unica torcia rimasta era quella di Grenn, le fiamme che si levavano simili a pallidi veli di seta. “Presto il fuoco si estìnguerà” si rese conto. “E noi siamo soli, senza cibo, senza amici.”
Si sbagliava.
Non erano affatto soli.
Plop! I rami bassi di un grande albero-sentinella verde scaricarono il loro fardello di neve con un tonfo viscido. Grenn roteò su se stesso, torcia protesa. «Chi va là!»
La testa di un cavallo emerse dalle tenebre. Sam provò quasi un sollievo… fino a quando non vide tutto il cavallo. Era interamente coperto da una livida patina gelida, simile a sudore congelato. Dal ventre dilaniato, l’animale si trascinava dietro un rigido groviglio di viscere nere. Sulla sella c’era un cavaliere pallido come il ghiaccio.
Un Estraneo.
Dal fondo della gola, Sam si lasciò sfuggire un suono lamentoso. Era talmente terrorizzato che si sarebbe pisciato addosso nuovamente. Ma aveva il freddo dentro, un freddo così selvaggio, così ancestrale, che la vescica gli era diventata un unico blocco solido.
L’Estraneo scese elegantemente di sella, rimanendo in piedi nella neve. Era esile come una lama, bianco come il latte. A ogni movimento, la sua armatura pareva incresparsi, pareva mutare. E i suoi piedi non incrinavano la crosta di neve appena caduta.
«Perché gli hai fatto male, a quel cavallo lì?» Piccolo Paul impugnò l’ascia dal manico lungo che portava sulla schiena. «È il cavallo di Mawney.»
Sam annaspò alla ricerca dell’elsa della sua spada. Trovò solo un fodero vuoto. La spada l’aveva perduta sul Pugno, se ne stava ricordando troppo tardi.
«Sta’ lontano!» Grenn fece un passo, spingendo la torcia in avanti. «Lontano… se no bruci!» minacciò l’entità livida con le fiamme.
La spada dell’Estraneo emetteva un debole chiarore bluastro. La creatura avanzò verso Grenn, rapida come la folgore. Quando la lama azzurro ghiaccio sfiorò il fuoco, un suono stridente, penetrante come uno spillo, perforò le orecchie di Sam. Il bulbo della torcia cadde rotolando e venne inghiottito da un grosso tumulo di neve. Le fiamme si spensero in un battito di ciglia. E nel pugno di Grenn rimase solo un corto pezzo di legno. Imprecando, lo lanciò addosso all’Estraneo. Al tempo stesso, Piccolo Paul caricò con l’ascia.
La paura che dilagò dentro Samwell Tarly in quel momento fu peggiore di qualsiasi altra paura avesse mai provato, e lui conosceva ogni genere di paura.
«Madre, abbi misericordia» pianse, gli antichi dèi dimenticati nel terrore. «Padre, proteggimi…» Le sua dita incontrarono l’impugnatura della daga, si serrarono attorno a essa.
I morti che camminano erano esseri lenti, goffi. Non l’Estraneo. L’Estraneo era leggero come neve nel vento. Scivolò via dall’ascia di Paul, e la sua armatura s’increspò lievemente. La lama azzurra della sua spada volteggiò, scivolò, danzò. E si aprì la strada tra gli anelli della maglia di ferro di Paul, e attraversò cuoio, pelle, carne, ossa. Sssssssssssss! Emerse dalla schiena del gigantesco confratello con un sibilo simile a quello di un rettile.
«Oh…» fu tutto quello che Sam udì uscire dalla bocca di Paul, mentre abbandonava la presa sull’ascia. Attraversato da parte a parte, con il sangue che fumava attorno alla lama, il confratello cercò ancora di afferrare il suo assassino. Quasi ce la fece. Quasi… prima di crollare. Il peso del suo corpo strappò la strana pallida spada dalla presa dell’Estraneo.
“Adesso. Fallo adesso. Smetti di piangere e combatti, bamboccio. Combatti, vigliacco.” Era la voce di suo padre che Samwell Tarly udiva, e anche la voce di ser Alliser Thorne, il maestro d’armi, di suo fratello Dickon, della nuova recluta Rast. “Codardo, codardo, codardo.” Ridacchiò istericamente. Forse avrebbero tramutato anche lui in uno di quei morti viventi, un grasso, ridicolo cadavere bianco che inciampava di continuo nei propri piedi morti. “Adesso, Sam.” Questa voce… era di Jon Snow? No, Jon era morto. “Puoi farcela, puoi farcela… Avanti, fallo e basta. Distruggilo!”
Samwell Tarly si precipitò in avanti, cadendo più che correndo, occhi chiusi, daga protesa a due mani, alla cieca. Crack! Udì uno schianto secco, come di ghiaccio che si spezza sotto il piede di un uomo. E poi udì un urlo stridente, talmente acuto, talmente terribile, che quando Sam caracollò all’indietro fu costretto a coprirsi le orecchie con le mani, finendo con il culo nella neve. Poi si costrinse a riaprire gli occhi.
L’armatura dell’Estraneo stava liquefacendosi, colando giù a rivoli lungo le sue gambe esili. Pallido sangue azzurro sibilava e ribolliva attorno alla lama nera della daga di vetro di drago conficcata nella gola. Due mani bianche come ossa artigliarono la daga, quando le dita toccarono l’ossidiana, si misero a fumare.
Sam rotolò di lato. Con gli occhi sbarrati, osservò l’Estraneo che si scioglieva, riducendosi a una pozza livida, anche quella in progressiva dissoluzione. In venti battiti del cuore, la sua carne svanì, disperdendosi in una impalpabile nebbia biancastra. Al di sotto, c’erano ossa dal colore lattiginoso, pallide, lucide. Ma anche quelle si stavano sciogliendo. Alla fine, la lama di vetro di drago fu l’unica cosa rimasta, avvolta da vapori che parevano dotati di vitalità propria.
Grenn si precipitò a raccoglierla, per lasciarla cadere un istante dopo. «Madre… è gelida!»
«Ossidiana.» Sam lottò per rimettersi in piedi. «Vetro di drago, la chiamano i maestri della Cittadella. Vetro di drago. Di drago.» Ridacchiò, pianse, si piegò in avanti e rovesciò il suo coraggio nella neve.
Grenn lo tirò su e lo rimise in piedi. Poi verificò se Paul desse segni di vita, gli abbassò le palpebre e raccolse di nuovo la daga. Questa volta fu in grado di tenerla in mano.
«Tienila tu» disse Sam. «Tu non sei un codardo come me.»
«Tanto codardo che hai ucciso un Estraneo.» Grenn indicò con la punta dell’arma. «Guarda là, tra gli alberi. Luce rossa. L’alba, Sam. L’alba. Quello dev’essere l’est. Se andiamo da quella parte, dovremmo riuscire a raggiungere Mormont.»
«Se lo dici tu.» Samwell Tarly calciò un albero con il piede sinistro, spezzando la neve incrostata. Calciò anche con il destro. «Ci provo.» Stringendo i denti, fece un passo. «Ce la metto tutta.» E ricominciò a camminare.