ARYA

Quando raggiunsero la sommità dell’argine e videro il fiume, Sandor Clegane tirò con forza le redini, imprecando.

La pioggia continuava a cadere da un cielo nero come metallo, flagellando le ribollenti acque verdi e marrone con migliaia di punte di spada. “Sarà largo almeno un miglio” pensò Arya Stark. Le cime di centinaia di alberi emergevano dalle acque turbinose, i loro rami protesi verso il cielo parevano braccia di uomini in procinto di annegare. Le sponde erano assediate da spessi strati di foglie fradicie. Più avanti nel canale tumultuoso, Arya distinse qualcosa di pallido e gonfio. Il cadavere di un cervo, o forse di un cavallo, che andava rapidamente a valle. C’era anche un suono, una specie di rombo continuo, al limite dell’udibile, simile al bramito emesso da un cane appena prima del ringhio.

Nel contorcersi sulla sella, Arya sentì gli anelli della maglia di ferro del Mastino affondarle nella schiena. Le braccia di lui la circondavano. Sul braccio sinistro, quello ustionato, Clegane aveva indossato un bracciale protettivo d’acciaio. Lei lo aveva visto toglierselo e cambiare la medicazione: la carne ferita era ancora vivida, grondante siero. Se anche l’ustione continuava a farlo soffrire, Sandor Clegane non lo aveva dato a vedere in alcun modo.

«È il fiume delle Rapide Nere?» Avevano cavalcato così a lungo nella pioggia e nelle tenebre, superando boschi privi di sentieri e villaggi senza nome, che Arya aveva perduto il senso dell’orientamento.

«È un fiume che dobbiamo attraversare. Non hai bisogno di sapere altro.»

Clegane le rispondeva, di quando in quando, ma l’aveva avvertita di non fare domande. Le aveva dato molti, troppi avvertimenti durante quel loro primo giorno. «La prossima volta che cerchi di colpirmi, ti lego le mani dietro la schiena» aveva detto. «La prossima volta che cerchi di scappare, ti lego i piedi. Urla, strepita, cerca di mordermi, e ti metto un bavaglio. Possiamo cavalcare assieme, oppure posso sbatterti di traverso alla sella come una scrofa da macello. La scelta è tua.»

La scelta di Arya era stata cavalcare, ma quando si erano accampati aveva atteso finché lui non si fu messo a dormire, poi era andata alla ricerca della pietra più grossa che riuscisse a maneggiare, in modo da sfondargli quel suo brutto cranio. “Silenziosa come un’ombra” aveva ripetuto a se stessa nello strisciare verso di lui. Ma non lo era stata abbastanza. Il Mastino non stava affatto dormendo. Forse si era svegliato o forse era stata lei a svegliarlo. Quale che fosse la spiegazione, aveva aperto gli occhi di colpo, la bocca piegata in un sogghigno. Clegane le aveva strappato la pietra dalle dita come se fosse stata un’infante inerme. Arya era riuscita solo a sferrargli un calcio.

«Per questa volta te la cavi» aveva detto il Mastino, lanciando la pietra tra i cespugli. «Ma se sarai così stupida da riprovarci, ti farò del male.»

«Perché non mi ammazzi e basta? Come hai fatto con Mycah?» Arya gli aveva gridato in faccia. Era ancora pronta alla sfida in quei momenti, era ancora più inferocita che spaventata.

Per tutta risposta, Clegane l’aveva afferrata per la tunica, tirandola verso di sé finché la sua ghigna ustionata fu a un pollice dalla faccia di Arya. «Pronuncia quel nome un’altra volta soltanto, e io ti pesto tanto da farti desiderare di essere ammazzata.»

Dopo quell’episodio, ogni sera prima di dormire, il Mastino avvolgeva Arya nella coperta del cavallo, poi legava con tratti di fune le due estremità, impacchettandola come una neonata nelle fasce.

Deve essere il fiume delle Rapide Nere” decise Arya, guardando la pioggia martellare la corrente. Il Mastino era il cane di Joffrey. La stava riportando alla Fortezza Rossa, per gettarla di nuovo in pasto a Joffrey e alla regina Cersei. Avrebbe voluto che spuntasse il sole, in modo da poter capire in quale direzione stavano andando. Ma più osservava la crescita del muschio sugli alberi più si sentiva confusa. “Il fiume delle Rapide Nere non è così largo presso Approdo del Re, ma c’è da tener conto delle piogge.”

«I guadi saranno scomparsi» disse Sandor Clegane «e non è proprio il caso di attraversare a nuoto né di provarci.»

“Non c’è modo di passare” intuì Arya. “Lord Beric ci riprenderà di sicuro.” Clegane aveva spinto il suo stallone nero allo stremo, tornando sui propri passi due, anche tre volte, in modo da confondere gli inseguitori. Aveva addirittura cavalcato per mezzo miglio dentro un fiume… Eppure, quando Arya si voltava indietro, si aspettava di vedere i fuorilegge della fratellanza senza vessilli. Aveva cercato di aiutarli incidendo il suo nome sui tronchi ogni volta che andava tra i cespugli a liberare la vescica, ma la quarta volta che lo aveva fatto il Mastino l’aveva sorpresa. Fine del tentativo. “Non importa” si era consolata Arya. “Thoros mi troverà con le sue fiamme.” Ma Thoros non l’aveva trovata. O comunque non ancora, e una volta che avessero attraversato il fiume…

«Città di Harroway non dovrebbe essere lontana» disse il Mastino. «E là lord Foote tiene nelle sue stalle il cavallo acquatico con due teste del Vecchio Re Andahar. Forse con quello riusciremo a raggiungere l’altra sponda.»

Arya non aveva mai sentito parlare di Andahar. E nemmeno aveva mai visto un cavallo con due teste, specialmente uno che potesse correre sull’acqua. Ma aveva imparato la lezione, per cui si morse la lingua per non chiedere altro e rimase rigidamente seduta sulla sella. Il Mastino fece voltare la testa dello stallone e si diresse al trotto lungo la sommità dell’argine, seguendo il fiume verso valle. Per lo meno, muovendosi in quella direzione, la pioggia li investiva sulla schiena. Arya ne aveva abbastanza di venire accecata dal diluvio, di sentire le gocce scorrerle lungo le guance come lacrime. “I lupi non piangono mai” ricordò a se stessa per l’ennesima volta.

Non poteva essere più tardi di mezzogiorno, eppure il cielo era scuro come al crepuscolo. Arya aveva perso il conto di quanti giorni erano passati senza vedere il sole. Era fradicia fino al midollo, piena di piaghe da sella, con il naso intasato, dolorante in ogni parte del corpo. Aveva anche la febbre, e a volte era scossa da brividi incontrollabili. Ma quando aveva detto al Mastino che si sentiva male, in risposta aveva avuto una specie di ringhio. «Soffiati il naso e tappati la bocca» le aveva detto. Per metà del tempo lui dormiva in sella, confidando nel suo stallone per proseguire lungo malridotte piste agricole o sentieri di animali migratori. Il cavallo era un corsiero da guerra, grosso quasi quanto un destriero ma molto più veloce. “Straniero”, lo chiamava il Mastino. Una volta, mentre Clegane faceva una pisciata contro un albero, Arya aveva cercato di rubarlo, pensando di riuscire a dileguarsi prima che lui potesse riprenderla. C’era mancato poco che Straniero le staccasse la faccia con un morso. Con il suo padrone era mansueto come un vecchio castrato, ma con chiunque altro mostrava un’anima nera quanto quella del Mastino. Arya non aveva mai visto un cavallo così veloce a mordere o a tirare calci.

Per ore continuarono a cavalcare seguendo il corso del fiume, tra alti zampilli sollevati dalle zampe di Straniero nel guadare piccoli affluenti, prima di raggiungere il posto di cui Sandor Clegane aveva parlato. «La città di lord Harroway…» cominciò, poi la vide. «Per i sette inferi!»

Il villaggio era una desolazione: quando le acque crescenti avevano superato gli argini era stato allagato. Tutto quello che restava di Città di Harroway era il piano superiore di una locanda di tronchi, la cupola a sette spicchi di un tempio invaso dall’acqua, due terzi di un torrione di pietra, pochi tetti coperti di vegetazione acquatica e una selva di comignoli.

Però Arya notò che dalla torre si levava del fumo. E sotto una delle finestre ad arco era saldamente ormeggiata una chiatta a fondo piatto. La chiatta era munita di una dozzina di scalmi, al centro del ponte c’era un casotto di legno con il tetto di zolle erbose, a poppa e a prua si ergevano due teste di cavallo di legno scolpito. “Eccolo, il cavallo con due teste…” Il Mastino si portò le mani a coppa attorno alla bocca e lanciò un richiamo. Subito due uomini uscirono dal casotto. Un terzo uomo si appostò a una delle finestre del torrione, imbracciando una balestra con il dardo incoccato. «Che cosa vuoi?» urlò.

«Portateci dall’altra parte» gridò di rimando il Mastino.

I due uomini sulla barca confabularono tra loro. Uno dei due, un individuo irsuto dai capelli grigi, le braccia massicce e la schiena incurvata, si avvicinò al parapetto. «Ti costerà.»

«Pagherò.»

“Con cosa?” si chiese Arya. I fuorilegge avevano preso a Clegane tutto il suo oro, ma forse lord Beric gli aveva lasciato qualche moneta d’argento e di rame. Un passaggio in traghetto non poteva costare più di pochi pezzi di rame…

I barcaioli avevano ripreso a confabulare. Alla fine, quello con la schiena incurvata si voltò e lanciò un grido. Comparvero altri sei uomini, che si coprirono con i cappucci per proteggersi dalla pioggia. Altri ancora uscirono contorcendosi dalla finestra del fortilizio, saltando poi sul ponte della chiatta. La maggior parte di loro assomigliava quanto bastava all’uomo dalla schiena curva per essere membri della sua famiglia. Alcuni staccarono le catene d’ormeggio e si munirono di lunghi pali, altri sistemarono negli scalmi pesanti remi a pala larga. La chiatta ruotò e scivolò lentamente sul basso fondale, mentre i remi lavoravano da entrambe le murate. Sandor Clegane cavalcò giù per il fianco della collina, dirigendosi verso l’imbarcazione.

Quando la prora arrivò a contatto con la terraferma, i barcaioli aprirono un ampio portello sotto la testa scolpita del cavallo e spinsero in posizione una pesante passerella di quercia. Sul margine dell’acqua, Straniero ebbe un’esitazione. Il Mastino lo spronò e lo costrinse a salire a bordo.

L’uomo dalla schiena curva li stava aspettando sul ponte. «Abbastanza bagnato per i tuoi gusti?» chiese sorridendo.

La bocca del Mastino si piegò in una smorfia. «È la tua barca che mi serve, non il tuo fottuto umorismo.» Smontò di sella e tirò giù Arya al suo fianco. Uno dei barcaioli fece per prendere le briglie di Straniero. «Io non lo farei» avvertì Clegane, mentre il cavallo scalciava. L’uomo balzò indietro e scivolò sul fasciame reso viscido dalla pioggia, imprecando nel picchiare duramente sul didietro.

L’uomo dalla schiena incurvata aveva smesso di sorridere. «Ti possiamo portare di là» disse in tono aspro. «Ti costerà un conio d’oro. Più un altro per il cavallo. E un terzo per il ragazzo.»

«Tre dragoni d’oro?» Clegane gli scoppiò a ridere in faccia. «Tre dragoni d’oro bastano a comprarla, la tua barca fottuta.»

«L’anno scorso poteva anche essere. Ma con il fiume così ingrossato, avrò bisogno di altre mani ai pali e ai remi solo per evitare che finiamo sbattuti cento miglia in mezzo al mare. Ecco la tua scelta. Tre dragoni, altrimenti è meglio che insegni a quel tuo cavallo degli inferi a cavalcare sull’acqua.»

«Un bandito onesto. Mi piace. Tre dragoni… dopo che ci avrai fatti sbarcare tutti interi sulla riva nord.»

«No, devo averli adesso. Se no, non ci muoviamo.» L’uomo tese di colpo una mano tozza, callosa, con il palmo rivolto in alto.

«No, ecco la tua scelta. Oro sulla riva nord…» Clegane scosse la spada lunga, sbloccando la lama all’interno del fodero. «Oppure acciaio su quella sud.»

Il barcaiolo studiò la faccia del Mastino. Arya percepì chiaramente che quello che vide non gli piacque affatto. Dietro di lui c’era una dozzina di uomini, tutti individui forti che impugnavano remi e pali di legno massiccio. Ma nessuno di loro si fece avanti per spalleggiarlo. Assieme, sarebbero stati in grado di sopraffare Sandor Clegane, anche se lui sarebbe riuscito a farne fuori tre o quattro prima che gli altri potessero abbatterlo.

«Come faccio a essere sicuro che il conio ce l’hai davvero?» chiese il barcaiolo dopo qualche momento.

“Non ce l’ha” avrebbe voluto gridare Arya. Invece si morse il labbro.

«Onore di cavaliere» dichiarò il Mastino, senza neppure l’ombra di un sorriso.

“Non lo è nemmeno, un cavaliere.” Ma di nuovo Arya non parlò.

«Questo andrà bene.» Il barcaiolo sputò. «Muoviamoci. Possiamo scaricarvi dall’altra parte prima che faccia buio. Lega il cavallo, non voglio che si agiti quando saremo in mezzo. C’è un braciere giù in cabina, se tu e tuo figlio volete riscaldarvi.»

«Non sono il suo stupido figlio!» gridò Arya, piena di rabbia. Quello era anche peggio che essere presa per un ragazzo. Era talmente inferocita che stava per rivelare chi era realmente. Sandor Clegane l’afferrò per la collottola e la sollevò dalla tolda con una mano sola. «Quante volte ti ho detto di tenere chiusa quella boccaccia?» La scosse con tanta violenza, che Arya sentì i denti, sbattere gli uni contro gli altri. Il Mastino la lasciò cadere. «Vattene dentro e cerca di asciugarti, come ha detto quest’uomo.»

Arya obbedì. Il grande braciere di ferro era pieno di braci ardenti e nel casotto l’aria era caldissima, soffocante. Eppure era piacevole sentire quel calore, scaldarsi le mani e asciugarsi un po’. Ma appena sentì che la chiatta si muoveva, Arya corse fuori.

Il cavallo con due teste avanzò lentamente sui bassi fondali, destreggiandosi tra le cime degli alberi e i comignoli affioranti della inondata Harroway. Una dozzina di uomini era ai remi, altri quattro si servivano di lunghi pali per tenere a distanza qualsiasi oggetto arrivasse troppo vicino allo scafo, rocce, alberi, case sommerse. L’uomo dalla schiena curva teneva il timone. La pioggia martellava le assi lisce della tolda, ruscellando lungo le grandi teste scolpite a prora e a poppa. Arya si stava di nuovo infradiciando, ma non le importava. Voleva vedere. Notò che l’uomo armato di balestra era ancora appostato alla finestra del torrione. Seguì con lo sguardo la chiatta mentre scivolava sotto il mastio. Arya si chiese se si trattasse del lord Foote che il Mastino aveva menzionato. “Non ha esattamente l’aspetto di un lord.” D’altra parte, nemmeno lei aveva esattamente l’aspetto di una lady.

Quando si furono lasciati alle spalle la città ed entrarono nel fiume vero e proprio, la corrente divenne molto più forte. Attraverso la grigia foschia della pioggia, Arya riuscì a distinguere sulla sponda opposta l’alto pilastro di pietra che segnalava l’approdo del traghetto. Ma nel momento stesso in cui lo vide, si rese conto che venivano spinti lontano, a valle. I rematori adesso vogavano più vigorosamente, lottando contro la furia del fiume. Foglie e rami spezzati vorticavano ai fianchi dell’imbarcazione con tale rapidità che parevano lanciati da una catapulta. Gli uomini con i pali si protendevano in fuori, allontanando tutto ciò che minacciava la chiatta. Là fuori, anche il vento era più forte. Ogni volta che si voltava verso monte, Arya riceveva scariche di pioggia in piena faccia. A ogni sussulto della tolda, Straniero nitriva e scalciava.

“Se saltassi fuoribordo, il fiume mi trascinerebbe via perfino prima che il Mastino si rendesse conto che non ci sono più.” Arya gettò uno sguardo dietro di sé. Sandor Clegane lottava con il suo cavallo terrorizzato, cercando di calmarlo. Non si sarebbe mai più presentata un’occasione come quella per fuggire. “Solo che potrei annegare” Il suo fratello bastardo Jon Snow diceva sempre che lei sapeva nuotare come un pesce, ma perfino un pesce avrebbe avuto dei problemi in quel fiume. E poi annegare poteva essere comunque meglio che tornare ad Approdo del Re. Il pensiero di Joffrey fece decidere Arya. Si spostò cautamente verso la prora. L’acqua del fiume era di un torbido colore marrone a causa del fango in sospensione, la pioggia ne flagellava la superficie. Più che acqua sembrava zuppa. Arya si chiese quanto fosse fredda. “Tanto, più bagnata di così…” Mise una mano sul parapetto.

Il grido esplose all’improvviso, appena dietro di lei, un attimo prima che saltasse. I barcaioli stavano precipitandosi in avanti, con i pali protesi. Per qualche attimo, Arya non capì che cosa stesse succedendo. Poi lo vide: un albero sradicato, nero, enorme. Stava arrivando dritto addosso alla chiatta. Un groviglio di radici contorte, di rami spezzati sporgeva dalla sua superficie, simile ai tentacoli di un calamaro degli abissi. I rematori spinsero freneticamente indietro, cercando di evitare una collisione che avrebbe potuto rovesciare la chiatta o sventrarla. Il vecchio dalla schiena curva aveva girato il timone, il cavallo di prora stava ruotando, ma troppo lentamente. L’albero sradicato, legno nero e marrone che scintillava nella pioggia, continuò a precipitarsi in avanti come un ariete di sfondamento.

Non poteva essere a più di dieci piedi dalla prua quando due dei barcaioli riuscirono a intercettarlo con i pali. Crrraaack! All’impatto, uno si spezzò. Ci fu un lungo, lamentoso scricchiolio. La chiatta stessa parve spezzarsi sotto i loro piedi. Ma il secondo uomo era riuscito a dare all’albero una robusta spinta, sufficiente a mandarlo lontano da loro. Il tronco sfrecciò di fianco al traghetto, uno scarto di appena una manciata di pollici, mentre le radici strisciavano come artigli contro la testa di cavallo scolpita. Forse era fatta… No. Uno dei rami contorti dell’albero mostruoso volle infliggere un colpo d’addio. La chiatta parve impennarsi, Arya scivolò, picchiando dolorosamente un ginocchio sul ponte. L’uomo con il palo spezzato non ebbe altrettanta fortuna. Arya lo udì urlare, lo vide volare fuoribordo. Le furibonde acque marrone si chiusero sopra di lui. Quando Arya riuscì ad alzarsi in piedi, guardò oltre la murata: l’uomo era scomparso. Uno dei barcaioli aveva afferrato un rotolo di fune, ma non c’era nessuno a cui gettarla.

“Forse toccherà terra da qualche parte a valle” cercò di convincersi Arya. Ma le parve solo una vana speranza. E adesso aveva perduto qualsiasi desiderio di farsi una nuotata. Sandor Clegane le gridò di tornare dentro e lei obbedì mestamente. Il traghetto aveva ripreso a lottare per rimettersi in rotta, a lottare contro un fiume che voleva trascinarlo fino al mare.

Toccarono terra, alla fine. Almeno due miglia lontano dal pilastro di pietra del normale approdo. Lo scafo urtò contro la riva con tale violenza che un altro dei pali si spezzò e per poco Arya non perse di nuovo l’equilibrio. Sandor Clegane la sollevò e la rimise in sella a Straniero come se pesasse quanto una bambola di pezza. I barcaioli li fissavano con occhi vacui, esausti. Tutti tranne l’uomo dalla schiena curva, il quale stese di nuovo la mano.

«Sei dragoni» impose. «Tre per il passaggio, tre per l’uomo che ho perso.»

«Qui.» Sandor Clegane frugò nella bisaccia, mise nel palmo del traghettatore un rotolo di pergamena tutto raggrinzito. «Prendine dieci.»

«Dieci?» L’uomo era confuso. «Che storia è questa?»

«La ricevuta di un uomo morto, del valore di novemila dragoni, o giù di lì.» Il Mastino volteggiò in sella dietro ad Arya e gli rivolse un sorriso sgradevole. «Dieci di quei novemila sono tuoi. Tornerò a riprendermi il resto, un giorno. Per cui vedi di non spenderli.»

L’uomo accennò al documento. «Roba scritta. Che cosa me ne faccio di roba scritta? Tu avevi promesso oro. Onore di cavaliere, avevi detto.»

«I cavalieri non ce l’hanno, l’onore. È ora che tu lo impari, vecchio.»

Il Mastino diede di speroni, spingendo Straniero al galoppo nella pioggia. I barcaioli gli urlarono dietro oscenità, un paio lanciarono pietre. Clegane ignorò gli insulti e ignorò le pietre. In breve, lui e Arya svanirono nella semioscurità plumbea degli alberi, il ruggito del fiume che si affievoliva alle loro spalle.

«Il traghetto non ritornerà sull’altra sponda fino a domani mattina» disse il Mastino «e stai sicura che quella masnada non accetterà pezzi di carta dal prossimo branco di fessi che passerà dalle loro parti. Se i tuoi amici ci stanno dietro, sarà meglio che siano dei nuotatori fottutamente poderosi.»

Arya si morse la lingua e si concentrò. “Vaiar morghulis” pensò cupamente. “Ser Ilyn, ser Meryn, re Joffrey, regina Cersei. Dunsen, Polliver, Raff Dolcecuore, ser Gregor e Messer Sottile… e il Mastino, il Mastino, il Mastino!”


Quando la pioggia cessò e uno squarcio si aprì tra le nubi, Arya tremava e ormai starnutiva così di frequente che Clegane decise di fermarsi per la notte. Cercò addirittura di accendere un fuoco. Ma la legna che raccolsero era troppo umida. Per quanto ci provasse, la scintilla della pietra focaia non prese in nessun modo. Alla fine, disgustato, sbatté via tutto con un calcio. «Per i sette inferi del cazzo» ringhiò. «Io lo odio, il fuoco.»

Rimasero seduti su delle pietre bagnate sotto una quercia, ascoltando lo sgocciolare dell’acqua dalle foglie. Consumarono un pasto freddo a base di pane duro, formaggio muffito e salsiccia affumicata. Il Mastino usò la daga per tagliare la carne. Notò che Arya fissava la lama e i suoi occhi si strinsero: «Non pensarci nemmeno».

«Non ci stavo pensando» mentì lei.

Clegane commentò quella risposta con un grugnito, ma le diede comunque una spessa fetta di salsiccia. Arya cominciò a masticarla, senza staccargli lo sguardo di dosso.

«Tua sorella non l’ho mai picchiata» disse il Mastino. «Ma picchierò te, se mi ci costringi. Falla finita di pensare a come ammazzarmi. Non ti servirà proprio a niente.»

Arya non replicò. Si limitò a masticare la salsiccia e a fissarlo freddamente. “Dura come la pietra” pensò.

«Tu almeno mi guardi in faccia. Questo te lo riconosco, ragazzina-lupo. Ti piace, la mia faccia?»

«No. È tutta bruciata e brutta.»

Clegane le offrì un pezzo di formaggio infilzato sulla punta della daga. «Sei una piccola scema. Se anche riuscissi a scappare, che cosa credi di ottenere? Semplicemente verresti presa da qualcuno peggio di me.»

«No» ribatté lei. «Non c’è nessuno peggio di te.»

«Non hai mai conosciuto mio fratello. Gregor una volta uccise un uomo perché russava. Uno dei suoi.» Il Mastino sogghignò, la metà ustionata della sua faccia si tese, distorcendogli la bocca in modo grottesco. Da quel lato non aveva labbra, e gli rimaneva solo un mozzicone d’orecchio.

«Invece lo conosco, tuo fratello.» Forse però la Montagna che cavalca era peggio del Mastino, ora che ci pensava. «Lui e Dunsen e Polliver, e Raff Dolcecuore e Messer Sottile.»

Sandor Clegane apparve sorpreso. «E come ha conosciuto quella genìa la preziosa figlioletta di Ned Stark? Gregor non porta mai a corte i suoi topi di fogna preferiti.»

«Li ho conosciuti in un villaggio.» Arya mangiò il formaggio, allungando una mano per prendere un pezzo di pane. «Sulle rive dell’Occhio degli Dèi, dove loro mi catturarono insieme a Gendry e Frittella. Avevano preso anche Lommy Maniverdi, ma lui aveva una gamba ferita, così Raff Dolcecuore lo ha ucciso.»

La bocca del Mastino si distorse di nuovo. «Catturata? Mio fratello ti ha catturata?» Si mise a ridere, una risata acida, a metà tra un ruggito e un ringhio. «Gregor non ha mai saputo chi aveva per le mani, giusto? No, non può averlo saputo, diversamente ti avrebbe trascinata ad Approdo del Re, con te che urlavi e scalciavi, immagino. Per poi scaricarti tra le braccia di Cersei. Ah, che magnifica fottitura. Non mancherò di dirglielo… prima di tagliargli la gola.»

Non era la prima volta che Arya lo sentiva parlare di assassinare la Montagna. «Ma lui è tuo fratello» disse dubbiosamente.

«Non hai mai desiderato uccidere un fratello?» Clegane rise di nuovo. «O una sorella, magari?» Dovette notare qualcosa nell’espressione di lei e si protese in avanti. «Sansa. Lei, vero? La piccola lupa vuole divorare l’uccellino.»

«No» rispose Arya in un sibilo. «Io voglio uccidere te.»

«Perché ho tagliato in due quel tuo amichetto? Ne ho tagliati in due anche molti altri, te lo garantisco. Tu pensi che questo mi renda una sorta di mostro. Bene, forse è così, ma ho anche salvato la vita di tua sorella. È stato il giorno in cui la folla inferocita l’ha trascinata giù da cavallo. Mi sono aperto la strada tra loro a colpi di spada e l’ho riportata alla Fortezza Rossa, se no anche lei avrebbe ricevuto lo stesso regaletto che hanno fatto a Lollys Stokeworth. E tua sorella ha cantato per me. Tu questo non lo sapevi, non è così? Tua sorella mi ha cantato una piccola, dolce canzone.»

«Stai mentendo» ribatté Arya senza esitare.

«Tu non sai neppure metà di quello che credi di sapere, ragazzina-lupo. Il fiume delle Rapide Nere? Per i sette inferi, ma dove credi che siamo? Dove credi che stiamo andando?»

La delusione nella voce di lui la fece esitare. «Ad Approdo del Re» rispose. «Mi stai riportando da Joffrey e dalla regina.» Ma era la risposta sbagliata, Arya se ne rese conto all’improvviso. Lo aveva già capito dal modo in cui il Mastino le aveva posto le ultime due domande. Ma lei doveva dire qualcosa, qualsiasi cosa.

«Stupida, cieca ragazzina-lupo.» La sua voce era aspra, dura come una raspa di ferro. «In culo Joffrey, in culo la regina, in culo anche quel contorto mostriciattolo di suo fratello. Io ho chiuso con la città, chiuso con la Guardia reale, chiuso con i Lannister. Che cosa c’entra un mastino con i leoni, questo ti chiedo?» Clegane afferrò l’otre, bevve una lunga sorsata. Poi si passò il dorso della mano sulle labbra e tese l’otre ad Arya. «Quel fiume era il Tridente, ragazzina, non le Rapide Nere. Cerca di vederti una mappa in testa, se ci riesci. Domattina dovremmo raggiungere la strada del Re. E dopo viaggeremo più in fretta, arriveremo dritti alle Torri Gemelle. E sarò io a riconsegnarti a tua madre. Io. Non il nobile lord della Folgore, e nemmeno quel fraudolento prete fiammeggiante, quel mostro.» L’espressione sul viso di Arya lo fece sogghignare. «Credi davvero che i tuoi amichetti fuorilegge siano i soli a sentire l’odore del riscatto? Dondarrion si è preso il mio oro, così io mi sono preso te. Vali il doppio di quanto loro mi hanno portato via, dico io. Forse addirittura di più, se ti vendessi ai Lannister. Ma questo non lo farò. Perfino un cane si stanca di essere preso a calci. Se questo tuo Giovane lupo ha il buonsenso che gli dèi hanno dato a un rospo, mi farà nobile e mi implorerà di mettermi al suo servizio. Perché, anche se lui ancora non lo sa, ha bisogno di me. Forse potrei addirittura uccidere Gregor per lui. E questo gli piacerebbe parecchio.»

«Mio fratello non ti prenderà mai al suo servizio» sibilò Arya. «Non tu.»

«In quel caso, intascherò tutto l’oro che posso portare, gli riderò in faccia e me ne andrò al galoppo. Se non mi vuole, darebbe prova di saggezza uccidendomi. Ma non lo farà. C’è troppo di suo padre in lui, da quanto ho sentito. Per me va bene, in un modo o nell’altro, vinco io. E vinci anche tu, ragazzina-lupo. Per cui falla finita di berciare e di digrignare i denti, ne ho la nausea. Tieni la bocca chiusa, fa’ come ti dico e magari riusciremo addirittura ad arrivare in tempo per lo strafottuto matrimonio di tuo fratello il re del Nord.»

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