TYRION

La nuova corona che il lord suo padre aveva dato al Credo dei Sette Dèi, uno splendore di puro cristallo intarsiato d’oro massiccio, era alta il doppio di quella che la folla inferocita aveva ridotto in pezzi il giorno della sommossa del pane. Ogni volta che l’Alto Sacerdote, il sommo septon, muoveva la testa, lampi arcobaleno rilucevano e fiammeggiavano. Tyrion però continuava a domandarsi come facesse quell’uomo a reggere il peso micidiale che gli gravava sul cranio. E comunque, perfino lui si trovò costretto ad ammettere che Joffrey e Margaery, in piedi l’uno di fianco all’altra tra le due torreggianti statue del Padre e della Madre, formavano una coppia veramente regale.

La sposa era magnifica in seta color avorio e merletti di Myr, le gonne decorate a motivi floreali tracciati con semi di perle. Quale vedova di Renly, avrebbe potuto indossare i colori della Casa Baratheon, oro e nero, ma quel giorno si presentava come una Tyrell, indossando un mantello virginale composto da cento rose di tessuto dorato su velluto verde. Tyrion si domandò se Margaery fosse davvero vergine. “Non che Joffrey riuscirebbe comunque a capire la differenza.”

Il re appariva bello quasi quanto la sua sposa: indossava un farsetto rosa scuro sotto un mantello di velluto color porpora su cui si stagliavano il cervo dei Baratheon e il leone dei Lannister. La corona riposava con naturalezza sui suoi folti riccioli, oro su oro. “Maledetta corona… l’ho salvata per lui.” Sentendosi molto scomodo, Tyrion spostò il peso del corpo da un piede all’altro. Non riusciva a stare fermo. “Troppo vino.” Avrebbe dovuto svuotare la vescica prima di lasciare la Fortezza Rossa. E anche la notte insonne che aveva passato con Shae cominciava a farsi sentire. Ma in quel momento, l’unico, supremo desiderio di Tyrion Lannister era strangolare il suo fottuto nipotino regale.

“So bene che cos’è l’acciaio di Valyria” aveva berciato il bamboccio. Una cosa che i septon del Credo dei Sette Dèi ripetevano fino alla nausea era come il Padre di lassù giudicasse tutti quanti. “Ci crederò solo quando il Padre di lassù farà il favore di scendere quaggiù a spiaccicare Joffrey come una mosca volata via dalla merda.”

Quanto a lui, Tyrion, avrebbe già dovuto capirlo da molto tempo. Jaime non avrebbe mai mandato qualcun altro a uccidere al suo posto. Quanto a Cersei, da parte sua, era troppo astuta per usare un pugnale che poteva essere fatto risalire a lei. Joffrey, invece, da quel piccolo, stupido, arrogante, viscido scarafaggio che era…

Ricordava ancora quella gelida mattina, a Grande Inverno, mentre scendeva i ripidi gradini che dalla biblioteca portavano nel cortile della fortezza. L’allora principe Joffrey Baratheon stava parlando con Sandor Clegane di ammazzare lupi. “Manda un mastino a uccidere un lupo” gli aveva detto. Ma nemmeno Joffrey era così idiota da ordinare al suo Mastino personale di assassinare uno dei figli di Eddard Stark: Clegane sarebbe andato da Cersei. Così, frugando nella masnada di guitti, baldracche e laidi cavalieri di ventura che avevano seguito la carovana reale nel suo viaggio verso nord, Joffrey aveva finito per trovare il tagliagole giusto. “Un fetente pustoloso pronto a rischiare il collo in cambio dei favori del principe e di una manciata di conio.” Tyrion si era chiesto chi avesse avuto l’idea di aspettare che Robert se ne fosse andato da Grande Inverno prima di andare a sgozzare il piccolo Bran. “Joff, è quasi certo. Senza dubbio avrà pensato che fosse il vertice della sagacia.”

La daga del principe, gli sembrava di ricordare, aveva il pomello ìngioiellato e la lama arabescata d’oro. Per lo meno, Joffrey non era stato così cretino da usare quella. Quello che aveva fatto era stato frugare tra le armi di suo padre. Robert Baratheon era stato un uomo di temeraria generosità, pronto a dare al figlio qualsiasi daga avesse voluto… Secondo Tyrion, però, Joffrey si era impadronito dell’arma e basta. Robert era venuto a Grande Inverno con molti cavalieri al seguito, moltissimi servi, un’enorme casa su ruote e un’intera carovana logistica. Servi diligenti dovevano aver fatto sì che le armi del re viaggiassero con il re, nessun dubbio su questo, qualora Robert ne volesse una oppure un’altra.

La lama che Joff aveva scelto era valida e semplice. Niente arabeschi d’oro, niente gioielli nell’impugnatura, niente istoriazioni d’argento nella lama. Re Robert non doveva averla mai portata al fianco, probabilmene si era addirittura dimenticato di averla. Eppure l’acciaio di Valyria era terribilmente affilato… al punto da tranciare pelle, muscoli e ossa in un’unica, rapida falciata. “So bene che cos’è l’acciaio di Valyria.” Ma in realtà non lo sapeva affatto. Altrimenti non sarebbe stato così imbecille da scegliere proprio la daga di Ditocorto.

Quello che continuava a sfuggire a Tyrion era il perché. “Semplice crudeltà?” Cosa di cui suo nipote abbondava. In quel momento, però, più che cercare risposte, Tyrion stava cercando di non vomitare tutto il vino che aveva bevuto a colazione e di non pisciarsi nelle brache, o entrambe le cose. Si agitò di nuovo, sempre più a disagio. Avrebbe dovuto tenere a freno la lingua. “Adesso quel sacco di sterco sa che io so. Il mio caro padre ha ragione da vendere: la mia lingua lunga sarà la mia condanna a morte.”

I sette giuramenti vennero pronunciati, le sette benedizioni invocate, le sette promesse scambiate. Dopo che i canti nuziali furono cantati e la sfida a chi volesse opporsi a quell’unione non fu raccolta, arrivò il momento dello scambio dei mantelli. Di nuovo, Tyrion spostò il peso del corpo da un piede all’altro, cercando di vedere qualcosa nel varco tra il lord suo padre e suo zio Kevan. “Se gli dèi sono giusti, Joff la trasformerà in una guittata.” Fu molto cauto nell’evitare lo sguardo di Sansa, in modo che i suoi occhi non rivelassero l’amarezza che provava. “Avresti anche potuto inginocchiarti, maledetta. Sarebbe stato così fottutamente difficile piegare quelle tue congelate ginocchia da Stark e lasciarmi almeno un po’ di dignità?”

Con tenerezza, Mace Tyrell tolse il mantello virginale dalle spalle della figlia, mentre Joffrey prendeva il mantello da sposa, ancora ripiegato, dalle mani di suo fratello minore Tommen, sciorinandolo con un gesto svolazzante. A tredici anni, il re ragazzino era alto quanto la sua sposa, che di anni ne aveva sedici: Joffrey Baratheon non aveva bisogno di salire sulla schiena di un giullare. Drappeggiò sulle spalle di Margaery il mantello nuziale nei colori porpora e oro e si sporse per affibbiarglielo sotto la gola. A quel punto, la principessa di Alto Giardino passava fluidamente dalla protezione di suo padre a quella di suo marito. “Certo, ma chi la proteggerà da Joffrey?” Tyrion scoccò un’occhiata al Cavaliere di Fiori, in piedi assieme agli altri della Guardia reale. “Farai meglio a tenere la spada ben affilata, ser Loras.”

«Con questo bacio io suggello il mio amore!» dichiarò Joffrey con voce vibrante.

Dopo che Margaery ebbe risposto con la medesima formula, lui l’attirò a sé e la baciò, a lungo e con trasporto. Sfumature arcobaleno danzarono ancora una volta dalla corona di cristallo quando l’Alto Sacerdote dichiarò solennemente che Joffrey della Casa Baratheon e Margaery della Casa Tyrell erano un unico corpo, un unico cuore, un’unica anima.

“Magnifico, anche questa è fatta. Adesso torniamo al fottuto castello in modo da poter fare una bella pisciata.”

Furono ser Loras Tyrell e ser Meryn Trant, cavalieri ordinati della Guardia reale, armatura a scaglie bianche e cappe candide come la neve, ad aprire la processione fuori dal tempio. Poi arrivò il principe Tommen, che prendeva manciate di petali di rosa da un cesto e li spargeva davanti ai piedi del re e della regina. Dietro la coppia reale sfilarono la regina Cersei e lord Tyrell, quindi la madre della sposa, sottobraccio a lord Tywin. La regina di Spine, lady Olenna, anziana e spinosissima madre di Mace Tyrell, trotterellò dietro di loro con una mano sul braccio di ser Kevan Lannister e l’altra stretta attorno al suo bastone. Arryk ed Erryk, i guerrieri gemelli che erano le sue guardie del corpo, la seguivano da vicino, pronti ad afferrarla qualora fosse caduta. Poi fu la volta di ser Garlan Tyrell e della lady sua moglie. Finalmente, arrivò il loro turno.

«Mia signora.» Tyrion offrì il braccio a Sansa. Lei lo accettò con cortesia ma, mentre percorrevano fianco a fianco il corridoio centrale del tempio, a Tyrion non sfuggì la rigidità che la pervadeva. E Sansa non lo guardò mai, nemmeno per un momento.

Tyrion udì le ovazioni all’esterno ben prima di raggiungere la porta. La folla adorava così tanto Margaery da essere addirittura disposta a voler bene di nuovo anche a Joffrey. Non dimenticavano che Margaery era appartenuta a Renly, l’avvenente giovane principe che li aveva amati al punto di risorgere dalla tomba per venire a salvarli dall’assalto di Stannis. E assieme a Margaery, assieme alla memoria di Renly, da Alto Giardino era venuta anche l’abbondanza, una fiumana di vettovaglie dal Sud, in risalita lungo la strada delle Rose. Quegli idioti sembravano non ricordare che era stato proprio Mace Tyrell a bloccare la strada delle Rose, provocando la stramaledetta carestia che per mesi aveva attanagliato Approdo del Re.

Uscirono nella fresca aria dell’autunno. «Cominciavo a temere che non ce ne saremmo mai andati» sbottò Tyrion.

A quel punto, Sansa fu costretta a guardarlo. «Io… sì, mio signore. Come tu dici.» Sembrava rattristata. «Ma è stata una cerimonia talmente bella.»

“Tutto quello che la nostra non è stata.” «È stata lunga, questo è poco ma sicuro. Devo tornare al castello a farmi una bella pisciata.» Tyrion si fregò il naso deturpato. «Come avrei voluto inventarmi una missione per essere lontano dalla città. Ditocorto è stato furbo.»

Joffrey e Margaery, circondati dai cavalieri della Guardia reale, erano in piedi sulla cima della scalinata che dominava la grande piazza di marmo. Ser Addam e le sue cappe dorate controllavano la folla, la statua di re Baelor il Benedetto osservava benevola. Tyrion non ebbe scelta se non mettersi in fila con gli altri per congratularsi con gli sposi. Baciò le dita a Margaery augurandole ogni felicità. Per fortuna la fila era lunga, per cui Tyrion e Sansa non si fermarono troppo a lungo.

La loro carrozza era rimasta al sole, e dietro le tendine faceva molto caldo. Quando si misero in moto, Tyrion si appoggiò a un gomito. Sansa, come all’andata, sedette immobile, intenta a fissarsi le mani. “È bella come la giovane Tyrell.” I suoi capelli erano di un magnifico castano con riflessi ramati, gli occhi dell’azzurro profondo dei Tully. La sofferenza le aveva conferito un’espressione tormentata, vulnerabile, che se possibile rendeva Sansa addirittura più bella. Tyrion avrebbe voluto raggiungerla, voleva fare breccia nell’armatura della sua cortesia, un’armatura tanto perfetta quanto glaciale. Fu questo che lo indusse a parlare? O forse fu la necessità di distogliere l’attenzione dalla propria vescica troppo gonfia?

«Stavo pensando che quando le strade saranno di nuovo sicure, potremmo fare un viaggio fino a Castel Granito.» “Lontano da Joffrey e da mia sorella.” Più ripensava a come Joffrey aveva fatto a pezzi Le vite dei quattro re più si sentiva turbato. “C’era un messaggio in quel gesto, questo è poco ma sicuro.” «Mi farebbe piacere poterti mostrare la Galleria Dorata e la Bocca del Leone, e anche la sala degli Eroi, dove Jaime e io giocavamo da ragazzi. Si sente il rumore delle onde che vengono a infrangersi contro gli scogli alla base della fortezza…»

Sansa sollevò lentamente il viso. Lui sapeva che cosa stava vedendo: le arcate sopracciliari folte e brutali, il crudo mozzicone che era il suo naso, la frastagliata cicatrice rosacea, gli occhi asimmetrici. Gli occhi di lei erano grandi, azzurri. E vuoti. «Io verrò in qualsiasi luogo il lord mio marito desidera che io venga.»

«Avevo sperato di compiacere te, mia signora.»

«A me compiace compiacere il mio signore.»

Le labbra di Tyrion si serrarono. “Che patetico mezzo uomo sei. Avevi davvero pensato che berciare della Bocca del Leone l’avrebbe fatta sorridere? Quando mai sei riuscito a far sorridere una donna se non con l’oro?” «Lasciamo perdere, è stata un’idea sciocca. I Lannister sono gli unici a poter amare la rocca di granito.»

«Sì, mio signore. Come tu dici.»

Da fuori, Tyrion poteva udire la folla scandire il nome di re Joffrey. “Fra tre anni quel ragazzino crudele sarà un uomo adulto, che dominerà a pieno diritto… e quel giorno, tutti i nani con un po’ di buonsenso faranno meglio a tenersi lontano da Approdo del Re.” Forse a Vecchia Città, o perfino nelle città libere. Aveva sempre voluto togliersi lo sfizio di vedere il Titano di Braavos. “Questo, forse, farebbe piacere a Sansa.” Gentilmente, le parlò di Braavos. Incontrò di nuovo quella muraglia di glaciale cortesia, una muraglia inflessibile, invalicabile quanto la Barriera sulla cui sommità lui aveva camminato nel suo viaggio fino all’estremo Nord, tanto tempo prima. Il che lo rese guardingo. Ora come allora.

Rimasero in silenzio per il resto del tragitto. Dopo un po’, Tyrion si scoprì a desiderare che Sansa dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, anche una sola parola. Ma lei non aprì mai bocca. Quando la carrozza si fermò nel cortile della Fortezza Rossa, Tyrion lasciò che fosse uno degli stallieri ad aiutare Sansa a scendere.

«Tra un’ora siamo attesi al banchetto, mia signora. Sarò da te tra breve.» E con questo, se ne andò, rigido sulle gambe.

Dalla parte opposta del cortile arrivò la risata cristallina di Margaery, che Joffrey stava facendo volteggiare giù dalla sella. “Un giorno, quel ragazzo sarà alto e forte come Jaime” pensò “mentre io sarò ancora un nano ai suoi piedi. E allora, Joffrey potrebbe decidere di rendermi ancora più nano…”

Trovò una latrina e con un sospiro di sollievo scaricò il vino del mattino. Ci sono volte in cui una pisciata è gratificante quasi quanto una donna, e questa era una di quelle volte. Se solo avesse potuto scaricarsi con la stessa facilità anche di tutti i suoi dubbi, di tutte le sue colpe.


Podrick Payne lo stava aspettando fuori dalle sue stanze. «Ho preparato un altro farsetto. Non qui. Sul tuo letto. Nella camera da letto.»

«Giusto, è lì infatti che tengo il letto.» Ci sarebbe stata Sansa, intenta a prepararsi per il banchetto. “E anche Shae.” «Pod: altro vino.»

Tyrion riprese a bere seduto sul davanzale della finestra, sempre più cupo nell’ascoltare il caos che saliva dalle cucine. Il sole non era ancora arrivato a lambire la sommità delle mura del castello, ma poteva già sentire l’odore del pane che cuoceva e delle carni che arrostivano. Ben presto, i convitati avrebbero cominciato a riversarsi nella sala del Trono di Spade, in trepida attesa. Sarebbe stata una serata di canti e di magnificenza, studiata non solo per unire Alto Giardino e Castel Granito, ma anche per sbandierare il loro potere e la loro ricchezza, una lezione per chiunque stesse ancora pensando di opporsi al dominio di Joffrey.

Ma dopo la fine che avevano fatto Stannis Baratheon e Robb Stark, chi mai sarebbe stato così folle da contestare quel dominio? Nelle terre dei fiumi si continuava a combattere, ma ormai i nodi scorsoi stavano stringendosi dappertutto. Ser Gregor Clegane, la letale Montagna che cavalca, aveva attraversato il Tridente, conquistando il Guado Rosso. Dopo di che, quasi senza colpo ferire, si era impossessato di Harrenhal. Seagard, la fortezza di lord Jason Mallister sull’oceano, si era arresa a Walder Frey il Nero. Lord Randyll Tarly aveva il controllo di Maidenpool, di Duskendale e della strada del Re. Nell’ovest, ser Daven Lannister si era unito a ser Forley Prester alla Zanna Dorata in vista della marcia su Delta delle Acque. Dalle Torri Gemelle, ser Ryman Frey stava guidando, per unirsi a loro, una forza di duemila lancieri. E lord Paxter Redwyne asseriva che ben presto la sua flotta sarebbe salpata da Arbor, iniziando il lungo viaggio attorno a Dorne e attraverso gli Stretti di Pietra. Destinazione: la Roccia del Drago. I pirati lyseniani di Stannis si sarebbero trovati in inferiorità numerica dieci a uno. Il conflitto che i maestri della Cittadella chiamavano “guerra dei Cinque re” volgeva ormai alla fine. Si diceva che Mace Tyrell stesse lamentandosi con lord Tywin di non avergli lasciato più vittorie.

«Mio signore?» Pod era accanto a Tyrion. «Ritieni di cambiarti? Ho preparato l’abito. È sul tuo letto. Per il banchetto.»

«Quale banchetto?» ribatté acidamente il Folletto.

«Il banchetto nuziale.» Pod, come sempre, non recepì il sarcasmo. «Re Joffrey e lady Margaery. Regina Margaery, voglio dire.»

Tyrion decise che quella sera si sarebbe ubriacato, e molto. «Benissimo, giovane Podrick, e allora prepariamoci a banchettare.»

Quando entrarono nella stanza da letto, Shae stava aiutando Sansa ad acconciarsi i capelli. “Gioia e dolore” pensò Tyrion nel vederle assieme. “Risate e lacrime.” Sansa indossava un abito di satin argento bordato di vaio, con maniche a losanga che scivolavano quasi a sfiorare il pavimento, e foderato di morbido feltro viola. Shae le aveva artisticamente sistemato i capelli in un delicato retino d’argento tempestato di gemme color viola scuro. Tyrion non l’aveva mai vista così radiosa, eppure, su quelle lunghe maniche di satin, scivolava anche tanta, troppa sofferenza.

«Lady Sansa» le disse «sarai la donna più splendida della sala.»

«Il mio signore è troppo gentile.»

«Mia signora» intervenne Shae, speranzosa. «Non potrei venire anch’io, a servire ai tavoli? Ho così tanta voglia di vedere i colombi che volano fuori dalla torta nuziale.»

Sansa la guardò con espressione incerta. «La regina ha già scelto tutta la servitù.»

«E la sala sarà troppo affollata.» Tyrion s’impose d’ingoiare la propria irritazione verso Shae per quella temeraria richiesta. «Comunque ci saranno musicanti in giro per tutto il castello, e nel cortile esterno tavole imbandite con cibo e bevande per tutti.» Esaminò attentamente il suo farsetto nuovo. Era di velluto porpora, con le spalle imbottite e maniche a sbuffo tagliate in modo da mostrare l’interno in satin nero. “Un bel capo. Manca soltanto un bell’uomo che lo indossi.” «Forza, Pod. Aiutami a infilarlo.»

Vestendosi, Tyrion ingollò un’altra coppa di vino. Dopo di che, prese sottobraccio la moglie e la scortò fuori dal Maniero delle cucine.


Confluirono nella corrente di sete, satin e velluti che si dirigeva verso la sala del trono. Alcuni ospiti stavano già entrando, sistemandosi nei posti loro assegnati sulle panche. Altri si attardavano fuori della porta, crogiolandosi nel caldo fuori stagione di quel pomeriggio. Tyrion condusse Sansa in giro per il cortile, espletando le necessarie cortesie.

“Cosa che mia moglie sa fare ottimamente” valutò, osservandola dire al malandato lord Gyles che la sua tosse era migliorata, fare i complimenti a Elinor Tyrell per il suo abito, chiedere a Jalabhar Xho quali fossero le usanze matrimoniali delle isole dell’Estate. Ser Lancel Lannister, cugino di Tyrion, era accompagnato dal padre ser Kevan. Dalla battaglia delle Acque Nere, era la prima volta che Lancel si alzava dal suo letto di malattia. “Quel ragazzo sembra un morto che cammina.” Lancel era magro come un ramo di rovi. I suoi capelli, un tempo del biondo dei Lannister, erano diventati bianchi e aridi. Se non ci fosse stato il padre a sorreggerlo, sarebbe certamente crollato a terra. Eppure, quando Sansa lodò il suo valore in combattimento e gli disse quanto fosse lieta di vederlo recuperare le forze, sia Lancel sia ser Kevan furono al settimo cielo. “Sarebbe stata una perfetta regina e un’ottima moglie per Joffrey, se solamente lui avesse avuto la capacità di amarla.” Ma Tyrion continuava a domandarsi se il suo reale nipote fosse davvero in grado di amare chicchessia.

«Sei davvero splendida, bambina mia.» Lady Olenna Tyrell, la regina di Spine, con indosso un abito in tessuto d’oro che doveva pesare più di lei, trottò accanto a Sansa. «Ma sembra che tu abbia preso un colpo di vento.»

L’anziana donna allungò una mano e mise a posto alcune ciocche ribelli, aggiustando il retino d’argento che tratteneva i capelli di Sansa.

«Sono stata profondamente turbata nell’apprendere delle tue perdite» aggiunse, mentre le sistemava i capelli. «Tuo fratello Robb era un traditore, lo so, ma se continuiamo ad ammazzare giovani cavalieri ai matrimoni con questa frequenza, gli uomini adesso avranno ancora più paura a sposarsi. Ecco fatto, molto meglio.» Lady Olenna sorrise. «Sono lieta di annunciarti che dopodomani partirò per fare ritorno ad Alto Giardino. Ne ho avuto abbastanza di questa città puzzolente, grazie tante. Forse gradiresti accompagnarmi per una breve visita, mentre i nostri uomini vanno a giocare alla guerra? La mia dolce Margaery e tutte le sue adorabili dame mi mancheranno tanto, e la tua compagnia mi sarebbe di così dolce sollievo.»

«Sei molto gentile, mia signora» disse Sansa «ma il mio posto è al fianco del lord mio marito.»

Lady Olenna rivolse a Tyrion un sorriso rugoso, sdentato. «Oh? Perdona questa vecchia sciocca, mio lord. Non era mia intenzione rubarti la tua delicata consorte. Avevo supposto che ti saresti messo a capo di un esercito Lannister da schierare contro qualche sinistro avversario.»

«Un esercito di dragoni d’oro e cervi d’argento. Il maestro del conio deve rimanere a corte, mia lady, a provvedere che tutti questi eserciti siano opportunamente pagati.»

«Poco ma sicuro. Dragoni e cervi, che sagace. E anche i soldini del nano. Ho sentito molto parlare di questi soldini del nano. E non dubito che incassare quelli sia un lavoro molto gravoso.»

Tyrion non raccolse. «Un lavoro che lascio ad altri, mia signora.» In realtà, la famigerata tassa sulle baldracche l’aveva ideata Ditocorto. Ma adesso era Tyrion, quale nuovo maestro del cordo, a scontarne l’infamia. A partire dal soprannome affibbiato alla gabella: il “soldino del nano”.

«Oh, sul serio? E io che pensavo avresti voluto occupartene tu personalmente. Mai e poi mai potremmo permettere che la corona venga privata dei suoi soldini del nano, o sbaglio?»

«Gli dèi ci scampino e liberino.» Anche solo dopo poche battute con la spinosa nobildonna, Tyrion stava cominciando a domandarsi se il compianto lord Luthor Tyrell non fosse caduto intenzionalmente giù da quella scogliera. «Se ora vuoi scusarmi, lady Olenna, è ora che prendiamo posto.»

«Sono d’accordo. Settantasette portate, mi dicono. Non trovi, mio signore, che sia un po’ eccessivo? Da parte mia, dubito che ne assaggerò più di due o tre, ma in fondo tu e io siamo piccoli, non è vero?» La regina di Spine diede un’ultima carezza ai capelli di Sansa e aggiunse: «Be’, forza e coraggio, bambina mia, e cerca di essere più allegra. Allora, dove sono le mie due guardie? Sinistro, Destro, dove siete finiti? Venite ad aiutarmi a salire sulla piattaforma reale».


La sera non sarebbe calata prima di un’altra ora, ma la sala del trono era già una fantasmagoria di luce, con torce che ardevano in ogni nicchia. Gli ospiti erano in piedi attorno ai tavoli mentre gli araldi declamavano il nome dei lord e delle lady che facevano il loro ingresso. Paggi in livrea reale li scortavano lungo l’ampio corridoio centrale. La galleria superiore era piena di musicanti, muniti di tamburi, strumenti a corda e a fiato.

Tyrion strinse ancora di più il braccio di Sansa, percorrendo il corridoio nella sua inevitabile andatura ondeggiante. Si sentiva piantati addosso gli occhi di tutti, appuntati sulla cicatrice recente che lo deturpava, rendendolo ancora più brutto di prima. “Guardate, guardate pure” pensò nel lasciarsi cadere sullo scranno. “E sussurrate tra di voi fino a quando non ne avrete abbastanza, io non ho certo intenzione di nascondermi.” La regina di Spine fu subito dietro di loro, arrancando a piccoli passi cauti. Tyrion si chiese chi di loro apparisse più assurdo, se il nano deforme al braccio della splendida Sansa Stark o la vecchietta rugosa affiancata dai due guerrieri gemelli alti sette piedi.

Joffrey e Margaery entrarono nella sala del Trono di Spade in sella a due purosangue bianchi identici, preceduti dai paggi che spargevano petali di rosa davanti agli zoccoli. Anche il giovane re e la sua regina si erano cambiati per l’occasione. Joffrey portava brache a strisce nere e porpora e un farsetto di tessuto d’oro con maniche di satin nero e borchie di onice. Margaery aveva sostituito l’austero abito indossato per la cerimonia nel Grande Tempio di Baelor con uno più scollato, di sciamito verde pastello, il corpetto allacciato strettamente che le lasciava scoperte le spalle e metà dei piccoli seni. I capelli morbidi come seta le fluivano sulle spalle bianche, ricadendole sulla schiena fino quasi alla vita. Attorno alla fronte la sposa portava una sottile corona d’oro. Il suo sorriso era timido, delicato. “Una fanciulla adorabile” rimuginò Tyrion “e soprattutto un destino ben più gentile di quello che mio nipote si meriterebbe.”

I cavalieri della Guardia reale li scortarono sulla piattaforma, fino ai posti d’onore all’ombra dell’incombente Trono di Spade. Per l’occasione, il contorto scranno d’acciaio era stato drappeggiato di lunghi vessilli di seta nei colori oro dei Baratheon, porpora dei Lannister e verde dei Tyrell. Cersei abbracciò Margaery e la baciò su entrambe le guance. Lord Tywin fece lo stesso, poi toccò a Lancel e a ser Kevan. Joffrey ricevette baci affettuosi dal padre della sposa, lord Mace Tyrell, e dai due fratelli di lei, Loras e Garlan. Nessuno parve avere troppa fretta di baciare Tyrion. Una volta che il re e la regina si furono accomodati, l’Alto Sacerdote si alzò per recitare una preghiera. “Per lo meno non bercia quanto il suo predecessore” cercò di accontentarsi Tyrion.

Lui e Sansa erano seduti a una certa distanza alla destra del re, a fianco di ser Garlan Tyrell e di sua moglie, lady Leonette. Più vicina a Joffrey c’era almeno una dozzina di altri ospiti, cosa che qualcuno più suscettibile di Tyrion avrebbe potuto ritenere offensiva, considerando che fino a qualche tempo prima lui era stato Primo Cavaliere del re. Se tra lui e Joffrey, invece di una dozzina, ci fosse stato un centinaio di ospiti, il Folletto sarebbe stato ancora più contento.

«Che vengano riempite le coppe!» proclamò Joffrey una volta che gli dèi ebbero avuto quello che spettava loro. Il suo coppiere versò un’intera caraffa di rosso di Arbor nel gigantesco calice nuziale d’oro che lord Tyrell gli aveva donato quella mattina. Per sollevarla, il re usò entrambe le mani. «A mia moglie la regina!»

«Margaery!» gridò la sala in risposta. «Margaery! Margaery! Alla regina!»

Mille coppe tintinnarono le une contro le altre, e a quel punto il banchetto di nozze ebbe veramente inizio. Tyrion Lannister bevve con gli altri, svuotando d’un fiato la propria coppa e facendo cenno che gli venisse nuovamente riempita l’istante stesso in cui si rimise seduto.

La prima portata fu una densa zuppa di funghi e lumache al burro, servita in ciotole istoriate. A colazione, Tyrion non aveva pressoché toccato cibo e il vino cominciava già a dargli alla testa, per cui quella zuppa ci voleva proprio. Non ci mise molto a finirla. “E una è fatta, ne mancano solo altre settantasei. Settantasette portate… questo con la città piena di bambini che crepano di fame e di individui pronti a sgozzare qualcuno per una rapa secca. Se la gente di Approdo del Re ci vedesse adesso, forse non amerebbe più tanto i Tyrell.”

Sansa assaggiò una mezza cucchiaiata di zuppa poi spinse la ciotola da parte. «Non è di tuo gradimento, mia signora?» chiese Tyrion.

«C’è molto d’altro in arrivo, mio signore. E io ho un piccolo stomaco.» Sansa si tormentò nervosamente i capelli e lanciò uno sguardo lungo il tavolo, dove Joffrey sedeva accanto alla regina Tyrell.

“Vorrebbe forse trovarsi al posto di Margaery?” Tyrion corrugò la fronte. “Perfino una bambina dovrebbe avere più buonsenso.” Si voltò, cercando di distrarsi, ma ovunque guardasse c’erano donne. Donne belle, raffinate, eleganti. E tutte che appartenevano ad altri uomini. Margaery, naturalmente, che sorrideva con dolcezza nel condividere con Joffrey il vino contenuto nel grande calice d’oro a sette lati. Sua madre lady Alerie, dai capelli spruzzati d’argento ma ancora molto bella, seduta con orgoglio accanto a Mace Tyrell. E poi le tre cugine della giovane regina, piene di vita. La moglie di lord Merryweather, la bellezza della città libera di Myr con i suoi grandi occhi scuri e sensuali. Ellaria Sand tra i dorniani (che Cersei aveva collocato al proprio tavolo, appena sotto la piattaforma reale ma comunque in un posto d’onore, e alla massima distanza possibile dal contingente di Alto Giardino) che stava ridendo per una battuta della Vipera rossa.

E c’era anche un’altra donna, seduta verso l’estremità del terzo tavolo a sinistra… la moglie di uno dei Fossoway, ipotizzò Tyrion, vistosamente incinta. La sua delicata bellezza non era per nulla sminuita dalla gravidanza, né lo era il suo gusto per il cibo e il divertimento del banchetto. Tyrion rimase a osservarla mentre il marito la imboccava dal proprio piatto. Bevevano dalla stessa coppa, si baciavano spesso, inaspettatamente. Quando lo facevano, la mano di lui si posava gentilmente sul ventre gonfio della donna, un gesto di protettiva tenerezza.

Come avrebbe reagito Sansa se in quel momento lui si fosse proteso verso di lei e l’avesse baciata? Questo si domandò Tyrion. “Molto probabilmente scostandosi con ribrezzo.” O forse facendosi coraggio e sopportando quella sofferenza, com’era suo dovere. “La mia cara mogliettina conosce solamente il dovere.” Se le avesse detto che quella notte lui desiderava prendere la sua virtù, Sansa si sarebbe piegata anche a quel dovere, e senza nemmeno versare più lacrime del necessario.

Tyrion chiese altro vino. La sua coppa era stata appena riempita che arrivò la seconda portata, un maiale in crosta, con pinoli e uvetta. Di nuovo, Sansa fece appena un assaggio. Nella sala, gli araldi stavano convocando il primo dei sette cantastorie della serata.

Hamish l’Arpista, dalla barba grigia, annunciò di voler “eseguire per le orecchie degli dèi e degli uomini una canzone mai udita prima in nessuno dei Sette Regni”. Il titolo era: La cavalcata di lord Renly.

Le sue dita scivolarono sulle corde dell’arpa alta, riempiendo la sala del trono di una dolce melodia. «Dal suo trono di scheletri, sul lord assassinato il Signore della Morte lo sguardo abbassò» esordì Hamish. Dopo di che procedette a raccontare come Renly, pentitosi del suo tentativo di usurpare la corona del nipote, aveva sconfitto lo stesso Signore della Morte, tornando poi nella terra dei vivi per difendere il reame contro suo fratello Stannis.

“E per questa guittata, il povero Symon è finito in un pentolone di zuppa” rimuginò Tyrion. Solo che Symon Lingua d’argento, il cantastorie preferito di Shae, aveva visto troppo e quindi preteso troppo. Il Folletto non aveva avuto altra scelta se non mandare Bronn a “occuparsi” di lui.

Verso la fine della canzone, quando lo spettro del valoroso lord Renly volava fino ad Alto Giardino per gettare un ultimo sguardo al viso del suo unico, vero amore, gli occhi della regina Margaery erano umidi di lacrime.

«In tutta la vita, Renly Baratheon non si è mai pentito di niente» disse il Folletto a Sansa «ma se ho ben capito, Hamish ha appena vinto il liuto dorato in palio.»

L’Arpista si esibì anche in parecchie altre celebri canzoni. Una rosa d’oro era per i Tyrell, nessun dubbio, Le piogge di Castamere era un omaggio a lord Tywin. Vergine, madre e anziana deliziò l’Alto Sacerdote, La lady mia sposa fece battere romanticamente il cuore delle ragazzine, e di certo quello di parecchi ragazzi. Tyrion ascoltò con mezzo orecchio, gustando frittelle di grano dolce e tartine calde di avena cotte con un trito di datteri, mele e arance, e assaltando costolette di cinghiale selvatico.

Portate e intrattenimenti, annaffiati da fiumi di vini e birra al malto, continuarono a susseguirsi in una profusione da vertigine. Hamish si ritirò, rimpiazzato da un piccolo, vecchio orso che danzò goffamente al suono dei fiati e dei tamburi mentre gli ospiti alle nozze mangiavano trota al forno in crosta di polvere di mandorle. Ragazzo di luna montò sui trampoli e arrancò tra i tavoli all’inseguimento di Blocco di burro, il giullare grottescamente grasso di lord Tyrell, questo mentre i lord e le lady procedevano con airone arrosto e sformati di formaggio e cipolle. Un gruppo di acrobati della città libera di Pentos eseguì ruote e piroette, tenendo pile di piatti in equilibrio sui piedi nudi, e formando la piramide umana. Imprese accompagnate da granceole in salsa piccante di spezie orientali, sformato di montone stufato in latte di mandorle, con contorno di carote, uva passa e cipolle, tartine di pesce appena uscite dal forno, servite così bollenti da bruciare la punta delle dita.

A quel punto, gli araldi introdussero il secondo cantastorie: Collio Quaynis, dalla città libera di Tyrosh, che aveva la barba vermiglia e parlava con un accento istrionico, come Symon Lingua d’argento aveva preannunciato. Collio cominciò con una sua versione della Danza dei draghi, scritta per essere eseguita da un duetto canoro, uomo e donna. Tyrion riuscì a tollerarla solo aiutandosi con una doppia porzione di pernice al ginepro e miele corroborata da parecchie coppe di vino.

Quella inquietante ballata sulla morte di due amanti colti nel Disastro di Valyria sarebbe piaciuta ben di più se Collio avesse evitato di cantarla in alto valyriano, linguaggio incomprensibile alla maggior parte degli ospiti. In compenso, il cantore li riconquistò con Bessa della sbarra e le sue liriche oscene. Vennero serviti pavoni con ancora il piumaggio, arrostiti interi e riempiti di datteri, questo mentre Collio chiamava un suonatore di tamburo per accompagnamento, faceva un profondo inchino a lord Tywin e si lanciava nelle Piogge di Castamere.

“Se sarò costretto a sentire sette versioni di questo canto scellerato, credo che andrò al Fondo delle Pulci a scusarmi con la brodaglia in cui è finito Symon.” Tyrion si voltò verso sua moglie. «Allora, chi ti è piaciuto di più?»

Sansa lo guardò battendo le palpebre. «Mio signore?»

«I cantastorie. Quale hai preferito?»

«Io… mi dispiace, mio signore. Non stavo ascoltando.»

E non stava nemmeno mangiando. «Sansa, c’è qualcosa che non va?» Tyrion parlò senza riflettere. E un istante dopo si sentì come un idiota. “Tutta la sua famiglia è stata macellata, ha dovuto sposare me e vado a chiederle se c’è qualcosa che non va.”

«No, mio signore.» Sansa guardò altrove, fingendo un interesse poco convinto per Ragazzo di luna, intento a bersagliare ser Dontos di datteri.

Quattro maestri piromanti evocarono belve feroci fatte di fuoco che si avventarono le une contro le altre con artigli di fiamma, mentre i servitori versavano il blandissorio, un misto di brodo di manzo e vino bollito addolcito con miele, in cui galleggiavano mandorle bianche e pezzi di cappone. Viandanti, pifferai, cani ammaestrati e mangiatori di spade arrivarono assieme a piselli al burro, noccioline tritate e petto di cigno marinato in salsa di zafferano con pesche. “No, ancora cigno…” A Tyrion era tornata in mente la malefica cena con la sorella alla vigilia della battaglia delle Acque Nere. Un giocoliere fece vorticare nell’aria una mezza dozzina di asce e spade, mentre ai tavoli venivano portati spiedini di salsiccia al sangue che ancora sfrigolavano; un accostamento che Tyrion trovò decisamente audace, anche se non proprio di ottimo gusto.

Gli araldi diedero fiato alle trombe. «In competizione per il liuto d’oro» annunciò uno di loro «ecco a voi Galyeon di Cuy.»

Galyeon era un uomo grande e grosso, con il torace a botte, una folta barba nera, la testa calva e dotato di una voce tonante che riusciva a raggiungere i quattro angoli della sala del trono. A suonare per lui aveva portato non meno di sei musicanti. «Nobili lord, lady gentili, questa notte vi canterò una sola canzone» annunciò. «Il Cantico delle Acque Nere, che narra come il reame venne salvato.» Cominciò per primo il tamburo, con un ritmo lento e sinistro.

«Attendeva il signore oscuro in alto nella sua torre» iniziò Galyeon «nel suo castello nero come la notte.»

«Nera la sua chioma, e nera la sua anima» intonarono in coro gli altri musicanti.

«Di sete di sangue e invidia egli banchettava, di disprezzo la sua coppa fino all’orlo egli riempiva» cantò Gayleon. «Sui Sette Regni un tempo mio fratello regnava, il signore oscuro disse alla megera sua moglie. Ciò che era suo io prenderò, e tutto mio farò. Il di lui figlio la punta della mia spada sentirà.»

«Giovane valoroso dai capélli d’oro» cantò il coro, accompagnato dall’arpa di legno e dal violino.

«Se mai dovessi essere ancora nominato Primo Cavaliere del re» disse Tyrion, forse a voce troppo alta «la prima cosa che farò sarà impiccare tutti i cantastorie.»

Accanto a lui, lady Leonette si lasciò sfuggire una breve risata, e ser Garlan Tyrell si sporse per dirgli: «Un atto di valore non celebrato non è per questo meno di valore».

«Le sue legioni il signore oscuro a raccolta chiamò, e come corvi attorno a lui si radunarono. Assetate di sangue, sulle sue navi s’imbarcarono…»

«…e il naso del povero Tyrion quindi tagliarono» concluse il Folletto.

Lady Leonette ridacchiò. «Forse, mio signore, anche tu dovresti dedicarti al canto. Le tue rime sono buone quanto quelle di Galyeon.»

«No, mia signora» disse ser Garlan. «Il mio lord di Lannister è fatto per compiere epiche imprese, non per cantarle. Se non fosse stato per la sua grande catena attraverso le Acque Nere e per il suo altofuoco, il nemico avrebbe attraversato il fiume. E se i guerrieri selvaggi di Tyrion non avessero ucciso la maggior parte degli esploratori di Stannis, noi non saremmo mai riusciti a coglierlo di sorpresa.»

Parole per cui Tyrion si sentì assurdamente grato, che lo aiutarono a rilassarsi mentre Galyeon di Cuy andava avanti a cantare versi sul coraggio del re ragazzo e di sua madre, la regina d’oro.

«Lei questo non l’ha mai fatto» osò dire Sansa a una delle strofe.

«Mai credere alle canzoni, mia signora.» Tyrion chiamò un servitore per farsi riempire di nuovo la coppa.

La notte era calata fuori delle alte finestre della sala, eppure Galyeon continuava a cantare. La sua melodia aveva settantasette versi, ma sembrarono mille. “Uno per ciascuno degli ospiti in questa sala.” Tyrion tollerò l’ultima ventina di strofe a forza di vino, l’unica cosa che lo aiutò a sconfiggere il desiderio di tapparsi le orecchie con i funghi trifolati.

Quando il cantastorie finalmente smise, alcuni ospiti erano così ubriachi da garantire ulteriore intrattenimento. Il gran maestro Pycelle crollò addormentato mentre le danzatrici delle isole dell’Estate volteggiavano, arditamente vestite solo di tuniche di vivide piume e seta variopinta. Stavano servendo medaglioni di carne d’alce ripieni di formaggio con venature azzurre, quando uno dei cavalieri di lord Rowan accoltellò un armigero dorniano. Le cappe dorate della Guardia cittadina li trascinarono via entrambi, uno a marcire in cella, l’altro a farsi ricucire da maestro Ballabar.

Tyrion cercò di accantonare l’incidente dedicandosi a una soppressata di maiale speziata con cannella, chiodi di garofano, zucchero e latte di mandorle.

«Fate entrare i giostratori reali!» urlò una voce arrocchita dal troppo vino. Apparteneva a Joffrey, che saltato improvvisamente in piedi si era messo a battere le mani.

“Il caro nipote è addirittura più ubriaco di me” pensò Tyrion. Le cappe dorate aprirono le grandi porte sul fondo del vasto locale. Dal punto in cui era seduto, il Folletto poté vedere solamente le punte di due lance da torneo striate mentre due cavalieri entravano fianco a fianco nella sala del Trono di Spade. Un’ondata di risate li seguì mentre avanzavano lungo il corridoio centrale, avvicinandosi al re. “Devono essere in sella a dei pony” pensò Tyrion. Ipotesi che si dissipò quando i cavalieri furono visibili per intero.

Due nani.

Erano loro a impugnare le lance da torneo. Uno montava un brutto cane grigio, dalle gambe lunghe e dalla mandibola spessa, l’altro cavalcava una colossale scrofa maculata. Grottesche armature di legno dipinto sbatacchiavano e raschiavano mentre i due piccoli cavalieri sobbalzavano sul dorso delle loro cavalcature. I nani caracollarono in avanti, portando scudi più grandi di loro, maneggiando gloriosamente le lance, accompagnati da ventate d’ilarità. Un cavaliere era tutto di colore dorato, con un cervo nero pitturato sullo scudo, l’altro era vestito di grigio e bianco, con l’emblema di un lupo. Le loro cavalcature erano bardate di conseguenza.

Tyrion guardò l’una dopo l’altra le facce sorridenti allineate lungo la piattaforma. Joffrey rosso e senza fiato, Tommen che gridava e saltellava sul suo scranno, Cersei che sorrideva in modo signorile e perfino il sempre glaciale lord Tywin Lannister sembrava vagamente divertito. Tra tutti i presenti al tavolo del più alto lignaggio, Sansa Stark era l’unica a non sorridere. Tyrion l’adorava per questo, ma in realtà gli occhi della ragazza Stark erano appannati, come se nemmeno vedesse i due insensati mezzi-cavalieri arrancare verso di lei.

“I nani non hanno colpa” decise Tyrion. “Quando avranno finito, farò loro i miei complimenti e gli darò una borsa d’argento bella piena. Domattina invece troverò chi ha organizzato questo allegro spettacolino… per elargirgli un diverso tipo di complimenti.”

Quando i nani trattennero le redini di fronte alla piattaforma per salutare il re, il Cavaliere del lupo lasciò cadere lo scudo. Si chinò per raccoglierlo. A quel punto, il Cavaliere del cervo perse il controllo della pesante lancia, che gli rovinò sulla schiena. Il Cavaliere del lupo allora stramazzò giù dalla scrofa, e la sua lancia cadendo colpì il nano sul cranio. Si ritrovarono ammucchiati a terra l’uno sopra l’altro. Si rialzarono e cercarono di rimontare. Tentativo accompagnato da una vasta gamma di grida e di spintoni. Finalmente furono di nuovo in sella, ma si erano scambiati le cavalcature, imbracciavano gli scudi sbagliati e guardavano verso il didietro degli animali.

Ci volle qualche tempo per sistemare le cose, ma finalmente diedero di speroni e raggiunsero le opposte estremità della sala, preparandosi alla tenzone. Con i lord e le lady che ridacchiavano e sghignazzavano, i due mezzi uomini arrivarono a scontrarsi nell’ennesima cacofonia di sbatacchiamenti assortiti. La lancia del Cavaliere del lupo colpì l’elmo del Cavaliere del cervo. Colpì molto duramente: decapitazione netta. Il cranio mozzato roteò attraverso la sala, lanciando zampilli di sangue da tutte le parti. Atterrò con un tonfo viscido in grembo a lord Gyles. Il nano senza testa barcollò tra i tavoli, agitando le braccia. I cani abbaiarono, le donne urlarono, Ragazzo di luna improvvisò un estemporaneo quanto teso spettacolo, rimanendo pericolosamente in equilibrio sui trampoli. Alla fine lord Gyles frugò nell’elmo sfondato… tirandone fuori un rosso cocomero gocciolante. A quel punto la testa del Cavaliere del cervo fece capolino dall’armatura di legno. La sala esplose in una nuova ondata di risate. I due nani attesero che si calmasse prima di cominciare a scambiarsi un vasto campionario d’insulti. Stavano per separarsi, in modo da scontrarsi a una seconda tenzone. Di colpo, il brutto cane dalle zampe troppo lunghe disarcionò il suo cavaliere e zompò a inforcare la scrofa. L’enorme maiale strillò di terrore e gli ospiti di Joffrey strillarono d’ilarità. Soprattutto quando il Cavaliere del cervo saltò addosso al Cavaliere del lupo, gli tirò giù di forza le brache di legno e si mise a pompare freneticamente contro le sue parti basse.

«Mi arrendo, mi arrendo…» ululò il nano che stava sotto. «Buon cavaliere, metti via il tuo gladio.»

«Lo farei, lo farei… se solamente tu la smettessi di agitare il fodero!» ribatté il nano che stava sopra, suscitando altra allegria tra il pubblico.

Mancò poco che Joffrey sprizzasse vino dalle narici, tanto stava sghignazzando. Saltò in piedi ansimando, con il rischio di rovesciare l’enorme calice con due impugnature.

«Il campione» urlò. «Il torneo ha il suo campione!» Nella sala tornò la quiete mentre il re parlava. I due nani si separarono, rimanendo in attesa dei reali ringraziamenti. «Non un vero campione, però» continuò Joff. «Un vero campione sconfigge tutti gli sfidanti.» Il re salì in piedi sul tavolo. Con un sorriso malefico, si voltò verso Tyrion. «Zio! Tu difenderai l’onore del mio regno, non è vero? Monta in sella alla scrofa!»

Le risate si abbatterono sul Folletto come una valanga di pietre. Tyrion Lannister non ricordò di essersi alzato, non ricordò nemmeno di aver scalato lo scranno, ma in qualche modo si ritrovò in piedi sul tavolo. La sala del Trono di Spade era un labirinto sfuocato di facce distorte illuminate dalle torce. Così anche la sua faccia si distorse: nel sogghigno di oltraggio più orrido, più turpe che si fosse mai visto nei Sette Regni.

«Certo che monterò la scrofa, maestà» dichiarò il Folletto. «Ma solo se tu monterai il cane!»

La risata si gelò sulle labbra carnose di Joffrey. «Io?» Il giovane re era confuso. «Non sono mica un nano. Perché dovrei farlo?»

“Ah, Joff, sei finito dritto nella merda.” «Ma è chiaro, sire: sei l’unico uomo qui dentro che sono certo di riuscire a sconfiggere!»

Tyrion non avrebbe potuto pronunciare quelle parole in tono più suadente. E non seppe decidere che cosa fu più magnifico: se il momento di silenzio sconcertato che seguì, la sala del Trono di Spade che esplodeva nuovamente di risate oppure l’espressione di furore cieco sul gnigno del suo nipotino. Il Folletto saltò a terra, soddisfatto. Diede una rapida occhiata alla piattaforma, ser Osmund e ser Meryn stavano aiutando Joffrey a scendere dal tavolo. Notò Cersei lanciargli sguardi omicidi, le rispose soffiandole un bacio.

Fu un sollievo quando i musicanti ripresero a suonare. I due giullari nani condussero il cane e la scrofa fuori dalla sala, gli ospiti tornarono alla soppressata e Tyrion si fece riempire la coppa di vino.

«Mio signore, attento…» lo avvertì ser Garlan Tyrell, che all’improvviso gli tastava un braccio. «Il re.»

Tyrion si girò sullo scranno. Joffrey incombeva su di lui, rosso in faccia, barcollante, vino che traboccava dall’orlo dell’enorme calice d’oro che reggeva con entrambe le mani.

«Maestà…» fu tutto quello che Tyrion riuscì ad articolare.

Il re gli rovesciò l’intero calice sulla testa. Il vino gli rovinò addosso come un fiume in piena, infradiciandogli i capelli, facendogli bruciare gli occhi e avvampare la cicatrice, colandogli lungo le guance, impregnando il velluto del suo farsetto nuovo.

«Allora, nano, che ne dici?» lo derise Joffrey.

Gli occhi di Tyrion erano in fiamme. Si asciugò la faccia con la manica, per cercare di ridare chiarezza al mondo attorno a lui.

«Maestà» udì ser Garlan dire pacatamente «questo è stato un gesto sgradevole da parte tua.»

«No, ser Garlan.» Tyrion non intendeva rendere l’incidente ancora peggiore di quanto già fosse, non qui, non ora, con metà del reame che guardava. «Non accade spesso che un re pensi di onorare un umile suddito mescendo dal calice reale. Peccato che il vino sia stato sprecato.»

«Non l’ho affatto sprecato, nano!» Re Joffrey era troppo privo di buonagrazia per accettare la ritirata che Tyrion gli stava offrendo. «E nemmeno te lo stavo mescendo

La regina Margaery fu improvvisamente a fianco di Joffrey. «Mio dolce sovrano» disse la giovane Tyrell «vieni, torna al tuo posto, un altro cantastorie ti attende.»

«Alaric di Eysen» precisò lady Olenna, appoggiata al bastone. La regina di Spine non prestò al nano fradicio di vino più attenzione di quanta ne mostrasse la nipote. «Spero proprio che ci canti Le piogge di Castamere. È già passata un’ora dall’ultima volta che l’abbiamo sentita, per cui mi sono dimenticata come fa.»

«E c’è anche ser Addam Marbrand che vorrebbe fare un brindisi» aggiunse Margaery. «Maestà, ti prego.»

«Un brindisi, dici? Sono senza vino» rispose Joffrey. «Come faccio a fare un brindisi se non ho vino? Zio Folletto, servimi tu. Visto che non vuoi affrontare il torneo, mi farai da coppiere.»

«Ne sarò grandemente onorato.»

«Non voglio affatto che tu ne sia onorato!» urlò Joffrey. «Mettiti a carponi e raccogli il mio calice, nano.» Tyrion obbedì, stese un braccio per afferrare una delle maniglie, ma Joffrey con un calcio gettò il calice lontano. «Ho detto: “raccoglilo!”. Oppure sei tanto goffo quanto brutto?» Tyrion fu costretto a strisciare sotto il tavolo per recuperare il calice. «Ecco, bravo. Adesso riempilo di vino.» Il Folletto afferrò una caraffa da una delle servette e riempì la grossa coppa per tre quarti. «In ginocchio, nano. È in ginocchio che devi stare.» Inginocchiandosi, Tyrion sollevò il pesante calice, chiedendosi se non stesse per ricevere un secondo bagno. Joffrey invece prese la coppa con una mano sola, bevve a lungo e la posò sul tavolo. «Adesso puoi alzarti, zio nano.»

Nel sollevarsi, Tyrion sentì le gambe attanagliate da crampi, al punto che per poco non crollò di nuovo a terra. Fu costretto ad aggrapparsi a uno scranno. Ser Garlan gli offrì una mano cui reggersi. Joffrey rise. Anche Cersei rise. E anche molti altri. Tyrion non li vide, in compenso li udì.

«Maestà.» Lord Tywin Lannister, la cui voce era impeccabilmente corretta. «Stanno portando la torta nuziale. C’è bisogno della tua spada.»

«La torta?» Joffrey prese per mano la sua regina. «Vieni, mia signora, arriva la torta.»

Gli ospiti si alzarono gridando, applaudendo, brindando gli uni con gli altri, mentre la grande torta nuziale, insieme a una mezza dozzina di cuochi raggianti che spingevano il carrello, avanzava lentamente lungo il corridoio centrale. Una torta di due iarde di diametro, dalla magnifica crosta dorata. Dal suo interno, provenivano un tubare e uno sbattere d’ali.

Tyrion si trascinò sul proprio scranno. Perché la festa fosse proprio perfetta, mancava solo che uno di quei colombi chiusi nella torta gli cacasse in testa. Il vino era filtrato in profondità, imbevendo tutta la stoffa del farsetto. Tyrion cominciava a sentire l’umido appiccicoso sulla pelle. Avrebbe dovuto cambiarsi, ma a nessuno era consentito abbandonare la festa prima della cerimonia di messa a letto degli sposi. Il Folletto valutò che avrebbe avuto luogo tra altre venti o trenta portate.

Re Joffrey e la sua regina si avvicinarono alla torta quando questa fu davanti alla piattaforma. Joffrey snudò la spada di acciaio di Valyria, ma Margaery lo trattenne posandogli una mano sul braccio.

«Lamento di vedova non è fatta per tagliare torte, mio signore.»

«Giusto.» Joffrey alzò la voce. «Ser Ilyn, la tua spada.»

Dall’ombra in fondo alla sala emerse ser Ilyn Payne. “Lo spettro della festa.” Il pensiero attraversò la mente del Folletto osservando il boia reale, alto e tetro, che si faceva avanti. Tyrion non aveva fatto in tempo a conoscere ser Ilyn prima che Aerys il Folle gli facesse mozzare la lingua. “Deve essere stato un uomo diverso, in quei giorni. Ma adesso il silenzio è diventato parte di lui, come quegli occhi vuoti, quella maglia di ferro arrugginito, quella spada lunga che porta di traverso sulla schiena.”

Ser Ilyn s’inchinò al cospetto del re e della regina, portò la mano destra al di sopra della spalla e snudò sei piedi d’acciaio istoriato d’argento e punteggiato di rune. Mise un ginocchio a terra, offrendo a Joffrey la gigantesca lama dalla parte dell’impugnatura. Lampi rosso fuoco balenarono dai rubini a forma di occhi incastonati nell’elsa, un blocco di vetro di drago scolpito nella forma di un teschio sogghignante.

Sansa si agitò sullo scranno. «Che spada è quella?»

A Tyrion continuavano a bruciare gli occhi a causa del vino. Strinse le palpebre e diede un’altra occhiata. La grande spada di ser Ilyn Payne era lunga quanto Ghiaccio, l’antica spada degli Stark, e altrettanto larga, ma la lama era troppo lucida. C’era sempre una sorta di tenebra nell’acciaio di Valyria, una tenebra simile a un’anima offuscata.

Sansa gli afferrò il braccio. «Che cosa ha fatto ser Ilyn della spada che era appartenuta a mio padre?»

Tyrion non riuscì a risponderle. “Avrei dovuto restituire Ghiaccio a Robb Stark.” Ma non lo aveva fatto. Ghiaccio era finita in altre mani, che l’avevano trasformata in qualcosa di molto diverso. Tyrion spostò lo sguardo su suo padre, ma in quel momento lord Tywin Lannister stava guardando il re.

Joffrey e Margaery congiunsero le mani, sollevarono assieme la grande spada delle esecuzioni capitali dei Sette Regni e la calarono sulla torta in un arco argenteo. La crosta andò in frantumi, i colombi volarono in ogni direzione in un turbine di piume bianche, disperdendosi verso le finestre e gli architravi. Dalle panche degli ospiti si levò un ruggito di delizia. Su nella galleria, i musicanti intonarono un’allegra melodia. Joffrey prese la sua sposa tra le braccia e la fece volteggiare temerariamente nella sala.

Un servitore pose davanti a Tyrion una fetta di pasticcio di piccioni fumante, ricoperto di crema al limone. I piccioni erano ben cotti, ma Tyrion non li trovò in alcun modo più appetitosi di quelli che continuavano a svolazzare da tutte le parti. Nemmeno Sansa stava mangiando.

«Sei troppo pallida, mia signora» le disse. «Hai bisogno di una boccata d’aria fresca, e io di un farsetto asciutto.» Si alzò, offrendole la mano. «Andiamo.»

Solo che non riuscirono a battere in ritirata: Joffrey calò su di loro. «Dove credi di scappare, zio nano? Sei il mio coppiere, ricordi?»

«Devo cambiarmi d’abito, maestà. Posso avere tua licenza di assentarmi?»

«No che non puoi. Mi piaci così come sei. Servimi altro vino.»

Il calice d’oro del re si trovava ancora là dove lui lo aveva lasciato. Per arrivarci, Tyrion fu costretto a montare di nuovo in piedi sullo scranno. Joff gli strappò la coppa dalle mani e bevve. Bevve a lungo, molto a lungo. A ogni sorsata, la sua gola si contraeva ritmicamente. Un rivolo rosso cupo gli ruscellò sul mento.

«Mio signore» intervenne Margaery «è meglio se torniamo ai nostri posti. Lord Buckler desidera fare un brindisi in nostro onore.»

«Mio zio nano non ha mangiato il pasticcio di piccioni» disse Joffrey reggendo il calice con una mano sola e affondando l’altra nel piatto di Tyrion. «E non mangiare questo pasticcio porta male…» S’ingozzò di piccione incandescente, scottandosi la bocca. «Visto? È buonissimo.» Joffrey tossì, sputacchiando pezzi di crosta. Questo non gli impedì di cacciarsi in gola dell’altro cibo. «È troppo asciutto, però. Ci vuole qualcosa per mandarlo giù.» Joff ingollò altro vino, ma tossì di nuovo, con più violenza. «Voglio vedere, cof, vederti in sella a quel, cof cof, quella scrofa, zio. Voglio …» Cof cof cof. Un altro accesso di tosse gli mozzò le parole in gola.

Margaery gli lanciò uno sguardo preoccupato. «Maestà?…»

«Non è nien… cof cof… solo il pasticc… cof cof cof…» Joffrey bevve altro vino. Tentò di bere altro vino. Un nuovo colpo di tosse lo piegò in due, costringendolo a vomitare tutto. La sua faccia stava virando al paonazzo. «Io, cof cof, non riesco a… cof cof cof…» Il calice gli sfuggì dalle mani. Scuro liquido rosso dilagò sulla piattaforma.

«Sta soffocando!» balbettò la regina Margaery.

Sua nonna la scostò senza tanti complimenti. «Aiutate quel povero ragazzo!» Pur essendo una donna minuta, la regina di Spine aveva una voce tonante. «Idioti! Che fate lì impalati a guardare? Aiutate il vostro re!»

Ser Garlan spinse Tyrion da parte e cominciò a dare colpi sulla schiena di Joffrey. Ser Osmund Kettleblack squarciò di forza il colletto del re. Dalla gola di Joffrey emerse un lamento orribile, acuto, il lamento di un uomo che sta cercando di risucchiare un intero fiume attraverso una cannula. Di colpo, quel verso atroce s’interruppe. E il silenzio che seguì fu addirittura più atroce.

«Giratelo bocconi!» gridò Mace Tyrell a tutti e a nessuno. «Mettetelo a testa in giù, prendetelo per le caviglie!» Un’altra voce ordinò: «Acqua… dategli dell’acqua!». L’Alto Sacerdote si mise a pregare con voce grave. Il gran maestro Pycelle voleva essere aiutato a raggiungere la sua torre, per poter prendere delle pozioni. Joffrey si afferrò la gola, le sue unghie scavavano solchi sanguinosi nella carne. Sotto la pelle, i muscoli erano duri come la pietra. Il principe Tommen gridava e piangeva.

“Sta morendo.” Tutto attorno regnava il caos eppure, di fronte a quella realtà, c’era una calma assoluta in Tyrion Lannister.

Continuarono a percuotere la schiena di Joffrey, ma la sua faccia diventava sempre più scura. I cani abbaiavano, i bambini piangevano, gli uomini gridavano inutili consigli l’uno all’altro. Metà degli ospiti alle nozze era in piedi, per cercare di vedere meglio. L’altra metà si stava ammassando alle porte, desiderosa solo di andarsene al più presto.

Ser Meryn aprì a forza la bocca del re per infilargli un cucchiaio in gola. Mentre lo faceva, gli occhi del ragazzo in agonia incontrarono quelli di Tyrion. “Ha gli stessi occhi di Jaime.” Solo che Tyrion non aveva mai visto lo Sterminatore di re così spaventato. “Questo ragazzo ha solo tredici anni.” Joffrey stava emettendo suoni secchi, rantolava, cercando di parlare. Gli occhi, due sfere rese bianche dal terrore, parevano sul punto di schizzare fuori dalle orbite. Sollevò una mano… tentando forse di afferrare lo zio o forse di indicare… “Sta implorando il mio perdono, o pensa invece che io possa salvarlo?”

«Nooooo!…» singhiozzò Cersei. «Padre, aiutalo… qualcuno lo aiuti… figlio, figlio caro…»

Tyrion si scoprì a pensare a Robb Stark. “Tutto considerato, il mio matrimonio è stato un trionfo.” Cercò di capire come Sansa stesse reagendo a tutto questo. Ma nella sala tramutata in un crogiolo di confusione non riuscì a individuarla. Poi il suo sguardo cadde sul calice nuziale che giaceva a terra, ignorato, dimenticato. Tyrion andò a raccoglierlo. Sul fondo ristagnava ancora un mezzo pollice di vino rosso scuro. Tyrion ci pensò su per qualche attimo. Poi svuotò il vino sul granito.

Margaery Tyrell piangeva tra le braccia della nonna. «Sii forte, pìccola, sii forte…» poteva solo ripetere la regina di Spine.

La maggior parte dei musicanti si era data alla macchia. Assurdamente, su nella galleria, un solitario flautista era rimasto a intonare una tetra melodia. Verso il fondo della sala del trono, le porte erano ormai prese d’assalto, gli ospiti si calpestavano a vicenda nella foga di andarsene. Le cappe dorate di ser Addam entrarono in azione per ristabilire l’ordine. Quelli che già avevano guadagnato l’uscita si precipitarono nella notte, alcuni piangendo, altri caracollando e vomitando, altri ancora lividi per la paura.

A Tyrion Lannister venne vagamente in mente che forse sarebbe stato saggio anche per lui togliersi di torno.

Poi udì il grido di Cersei.

E seppe che era finita.

“Devo andare via di qui. Adesso.” Ma invece di andarsene, avanzò verso di lei nella sua andatura ondeggiante.

Sua sorella sedeva in una pozza di vino, con il figlio tra le braccia. Il suo abito era strappato e lercio, la faccia pallida come gesso. Un macilento cane nero si accostò ad annusare il cadavere di Joffrey.

«Il ragazzo non è più tra noi, Cersei» disse lord Tywin. Pose una mano guantata sulle spalle della figlia mentre uno degli armigeri scacciava il cane. «Lascialo ora, lascialo andare.»

Cersei parve non averlo udito. Ci vollero due cavalieri della Guardia reale per farle dischiudere le braccia, in modo che il corpo di Joffrey Baratheon, immoto e senza vita, rimanesse a giacere sul pavimento della sala del Trono di Spade.

L’Alto Sacerdote si inginocchiò accanto a lui. «Padre di lassù, giudica con giustizia il nostro buon re Joffrey» declamò, poi procedette a recitare la preghiera dei defunti.

Margaery Tyrell pianse disperata. Tyrion udì sua madre, lady Alerie, che le diceva: «È soffocato, cara. Si è soffocato con i piccioni. Non ha nulla a che vedere con te. È soffocato. Lo abbiamo visto tutti».

«Non si è affatto soffocato.» La voce di Cersei era tagliente come acciaio di Valyria. «Mio figlio è stato avvelenato.» Guardò i cavalieri in bianco immobili a qualche passo da lei. «Guardie reali, fate il vostro dovere.»

«Mia signora?» Ser Loras Tyrell non capiva.

«Arrestate mio fratello Tyrion» comandò Cersei Lannister. «È stato lui, il nano. Lui e quella sua ridicola moglie. Sono stati loro ad assassinare mio figlio. Il vostro re. Prendeteli! Prendeteli tutti e due!»

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