SANSA

Da qualche parte nella città, molto lontano, cominciò a suonare una campana.

Sansa Stark aveva la sensazione di vivere in un sogno. «Joffrey è morto» disse agli alberi del parco degli dèi, come se dirlo potesse risvegliarla.

Joffrey non era ancora morto quando lei aveva lasciato la sala del trono. In ginocchio, si stava scavando solchi sanguinolenti sul collo, strappandosi via la pelle nel tentativo di respirare. Uno spettacolo raccapricciante. Sansa si era girata ed era corsa via, piangendo. Anche lady Tanda stava fuggendo. “Il tuo cuore è delicato, mia signora” aveva detto a Sansa. “Non tutte le fanciulle piangerebbero per l’uomo che prima le mette da parte e poi le dà in sposa a un nano.”

“Cuore delicato. Il mio cuore è delicato.” Una ventata di isteria cercò di eromperle dalle viscere. Sansa riuscì a ricacciarla giù. Le campane suonavano, lente e lugubri. Un rintocco dopo l’altro. Avevano suonato nello stesso modo anche per re Robert. Joffrey era morto, morto, morto. E allora perché piangeva, quando invece avrebbe avuto voglia di mettersi a ballare? Che fossero lacrime di gioia?

Trovò i vestiti là dove li aveva nascosti, due notti prima. Senza servette ad aiutarla, impiegò più del solito ad aprire le stringhe del corpetto. Le sue mani erano stranamente goffe, anche se lei non si sentiva spaventata quanto forse avrebbe dovuto essere. “Gli dèi sono crudeli a portarselo via ancora così giovane e avvenente, alla sua festa di nozze” aveva aggiunto lady Tanda.

“No, gli dèi sono giusti” pensò Sansa. Anche Robb era morto a una festa di nozze. Era per Robb che piangeva. Per lui e per Margaery. Povera Margaery, due volte sposa e due volte vedova. Sansa fece uscire un braccio dalla manica, abbassò l’abito e ne sgusciò fuori. Lo appallottolò in un fagotto informe e lo infilò nel cavo di una quercia, quindi estrasse gli abiti che vi aveva nascosto. “Abiti caldi” le aveva raccomandato ser Dontos “e scuri.” Sansa non possedeva indumenti neri, per cui aveva scelto un vestito di spessa lana marrone. Il corpetto però era decorato con perle d’acqua dolce. “Il mantello le nasconderà.” Era un mantello color verde foresta, con un ampio cappuccio. Infilò il vestito dalla testa e sopra indossò il mantello, lasciando per il momento il cappuccio abbassato. C’erano anche le scarpe, semplici e robuste, con il tacco basso e la punta squadrata. “Gli dèi hanno ascoltato le mie preghiere” pensò. Si sentiva talmente inerte, talmente fuori dal mondo. “La mia pelle è diventata porcellana, avorio, acciaio.” Sollevò le mani rigidamente, goffamente, come se non si fosse mai sciolta i capelli in vita sua. Per un istante desiderò che Shae fosse lì con lei ad aiutarla.

Alla fine, riuscì a togliere il retino. I lunghi capelli ramati le fluirono sulle spalle e lungo la schiena. L’intrico di filo d’argento le rimase attorcigliato alle dita, con il raffinato metallo che scintillava debolmente e le pietre che apparivano nere ai raggi della luna. “Ametiste nere di Asshai delle Ombre.” Ne mancava una. Sansa sollevò il retino per vedere meglio. Rimaneva una piccola occhiaia scura nel punto in cui era stata incastonata l’ametista.

Un terrore improvviso si impadronì di lei. Il cuore le martellò contro il costato, costringendola a trattenere il respiro. “Perché ho così tanta paura? È solamente un’ametista, un’ametista nera di Asshai delle Ombre, niente di più. Forse la montatura era già compromessa, si è allentata e l’ametista è caduta. Adesso chissà dove sarà nella sala del trono, oppure nel cortile, a meno che…”

Ser Dontos le aveva detto che quel retino da capelli era magico, che l’avrebbe portata a casa. Le aveva anche detto di indossarlo alla festa di nozze di Joffrey. Il filo d’argento teso premette contro le sue nocche. Il pollice di Sansa si spostò avanti e indietro sul vuoto lasciato dalla pietra. Cercò di fermare quel gesto ossessivo, ma era come se le dita avessero cessato di appartenerle. “Che genere di magia?” Il re era morto. Quel re crudele che, mille anni prima, era stato il suo principe galante. Ma se Dontos aveva mentito in merito al retino da capelli, forse aveva mentito anche su tutto il resto. “E se lui non venisse? Se non esistesse nessuna nave, nessuna barca sul fiume, nessuna fuga?” A quel punto, che cosa ne sarebbe stato di lei?

Udì un debole fruscio di foglie. Infilò il retino in fondo a una delle tasche del mantello. «Chi c’è?» disse disperata. «Chi va là?» Il parco degli dèi era pieno di pozze di tenebra. Le campane di Approdo del Re continuavano a suonare, accompagnando re Joffrey Baratheon, primo e ultimo del suo nome, alla tomba.

«Sono io.» Uscì dagli alberi barcollando, ubriaco fradicio. Le afferrò un braccio per rimanere in posizione eretta. «Dolce Jonquil, eccomi a te. Il tuo Florian è venuto, non temere.»

Sansa si ritrasse al suo tocco. «Mi avevi detto d’indossare il retino. Il retino d’argento con… che genere di pietre sono quelle?»

«Ametiste, mia signora. Ametiste nere di Asshai delle Ombre.»

«No che non sono ametiste. O invece sì? Lo sono? Tu mi hai mentito.»

«Ametiste nere. C’era magia in esse.»

«C’era delitto in esse!»

«Piano, mia signora, parla piano. Nessun delitto. Si è strozzato con il pasticcio di piccioni» berciò Dontos. «Oh, che ottimo, gustoso pasticcio. Argento e pietre, era tutto lì, argento, pietre e magia.»

Le campane continuavano a suonare. Il vento soffiava. Un suono simile al risucchio rantolante che lui aveva emesso alla fine, cercando di respirare. «Sei stato tu! Hai preso una delle ametiste dal retino e…»

«Zitta, piccola, zitta. Decreterai la morte di tutti e due parlando così. Io non ho fatto nulla. Vieni, adesso dobbiamo andare, ti staranno cercando. Tuo marito è stato arrestato.»

«Tyrion?» chiese Sansa stupita.

«Hai forse un altro marito? Il Folletto, sì, la regina pensa che sia lui il colpevole.» Dontos le afferrò una mano e attirò Sansa a sé. «Da questa parte, ora dobbiamo proprio andare, e anche in fretta, ma non avere paura.»

Sansa lo seguì senza opporre resistenza. “Non ho mai potuto sopportare le donne che piangono” le aveva detto Joffrey una volta. Ma adesso, l’unica donna a piangere era sua madre. Nelle storie della vecchia Nan, gli elfi potevano creare magie per tramutare i desideri in realtà. “Ho davvero desiderato di vederlo morto?” si chiese Sansa, ma poi ricordò di essere troppo grande per credere ancora agli elfi.

«E Tyrion lo avrebbe avvelenato?» disse a voce alta.

Suo marito, il nano Lannister, odiava Joffrey, questo lei lo sapeva, ma poteva veramente averlo ucciso? “Che sapesse del retino per capelli, delle ametiste nere? Ha dato a Joffrey del vino.” Ma com’era possibile far soffocare qualcuno mettendogli un’ametista nel vino? “Se è stato Tyrion, penseranno che anch’io facevo parte del piano.” Questa idea fece nuovamente sorgere in lei la paura. E come potevano non pensarlo? Tyrion e lei erano marito e moglie. Joffrey aveva assassinato suo padre, l’aveva oltraggiata deridendo la morte di suo fratello. “Un unico corpo, un unico cuore, un’unica anima.”

«Ora mi raccomando, piccola mia» disse Dontos. «Una volta fuori del parco degli dèi, non dobbiamo fare alcun rumore. Solleva il cappuccio e nascondi il viso.»

Sansa annuì e fece come le era stato detto. Dontos era così ubriaco che più volte lei fu costretta a farlo appoggiare al proprio braccio per evitare che cadesse. Le campane adesso suonavano da un capo all’altro della città, sempre più numerose a unirsi al peana di morte. Sansa tenne la testa chinata, rimanendo molto vicina a Dontos. Mentre scendevano la grande scala ricurva lui crollò in ginocchio e vomitò. “Mio povero Florian…” Sansa gli ripulì la bocca con l’ampia manica. “Vestiti di scuro” l’aveva avvertita Dontos. Eppure, sotto il mantello marrone con cappuccio, il cavaliere ubriacone diventato giullare indossava la sua vecchia tunica, rossa a strisce rosa orizzontali con il blasone nero istoriato di tre corone dorate, l’emblema della Casa Hollard.

«Dontos, perché porti quella tunica? Joffrey aveva ordinato di metterti a morte se ti avesse sorpreso a vestire di nuovo come un cavaliere. Lui…» Qualsiasi cosa Joffrey avesse decretato ormai non aveva più alcun senso.

«Volevo essere di nuovo un cavaliere. Almeno in questo.» Dontos si trascinò in piedi e le prese il braccio. «Vieni. E silenzio, basta domande.»

Discesero tutta la scalinata e superarono un piccolo cortile. Ser Dontos aprì una pesante porta e accese un lume. Erano all’interno di una lunga galleria. Contro le pareti si allineavano armature vuote, scure e polverose, gli elmi ornati con filari di scaglie che scendevano sul dorso delle corazze. Mentre passavano davanti alle armature, la luce del lume proiettò grandi ombre distorte. “I cavalieri vuoti diventano draghi” pensò Sansa.

Un’altra scala li condusse a una porta di quercia rinforzata con fasce di ferro. «Sii forte ora, mia Jonquil, quasi ci siamo.» Dontos sollevò la sbarra e aprì la porta. Sansa sentì il vento freddo sul viso. Superò mura spesse dodici piedi… e si trovò all’esterno della Fortezza Rossa, sull’orlo della voragine. Sotto di lei scorreva il fiume, sopra di lei incombeva il cielo, entrambi neri come la pece.

«Dobbiamo scendere verso la scogliera» disse ser Dontos. «Sulla riva, ci attende un uomo per portarci a remi fino alla nave.»

«Cadrò…» Bran era caduto, e lui adorava scalare.

«No, invece. C’è una scala segreta, scavata nella roccia. Qui, mia signora, l’hai trovata?» Dontos si mise in ginocchio accanto a lei e la fece sporgere oltre l’orlo della scogliera, guidando le sue dita fino a che Sansa non trovò l’appiglio tagliato nella parete del baratro. «Solido quasi quanto i pioli di ferro.»

Ma era comunque una lunga, lunga discesa fino alla riva. «Non ce la farò.»

«Devi farcela.»

«Non c’è un’altra strada?»

«La strada è questa. Non è poi così difficile per una ragazza giovane e robusta come te. Reggiti forte, non guardare mai in basso e sarai giù in breve tempo.» Gli occhi di lui scintillavano. «Il tuo povero Florian è grasso, vecchio e ubriaco, sono io quello che dovrebbe avere paura. Cadevo da cavallo, ricordi? È così che ci siamo conosciuti, tu e io. Ero ubriaco e sono caduto da cavallo e Joffrey voleva la mia testa cialtrona, ma tu mi hai salvato. Mi hai salvato, dolce piccola mia.»

“Sta piangendo” si accorse Sansa. «Adesso sei tu a salvare me.»

«Solo se scendi. Altrimenti avrò ucciso entrambi.»

“È stato lui.” Sansa non aveva più alcun dubbio. “È lui che ha ucciso Joffrey.” E ora lei doveva scendere, per Dontos oltre che per se stessa. «Vai prima tu, cavaliere.» Perché se lui fosse caduto, Sansa non voleva che la travolgesse, trascinando anche lei nella voragine.

«Come desideri, mia signora.» Le diede un bacio umido poi, goffamente, allungò le gambe oltre il bordo, scalciando nel vuoto fino a quando con il piede non ebbe trovato uno degli appoggi nella roccia. «Lascia che vada giù per un po’, poi vienimi dietro. Scenderai, vero? Me lo devi giurare.»

«Scenderò» promise Sansa.

Ser Dontos scomparve nel buio. Sansa poté udirlo ansimare e soffiare mentre cominciava la discesa. Ascoltò il suono delle campane, contando ogni rintocco. Al decimo si spinse a sua volta, cautamente, oltre l’orlo del baratro, cercando un punto d’appoggio con la punta del piede. Le mura della Fortezza Rossa torreggiavano sopra di lei e, per un momento, Sansa Stark non desiderò altro che risalire e correre di nuovo su fino alle sue stanze calde nel Maniero delle cucine. “Sii forte” disse a se stessa. “Sii forte, come la lady di una canzone cavalieresca.”

Non osò guardare in basso. Tenne gli occhi fissi sulla roccia della scogliera, assicurandosi di avere l’appoggio successivo prima di abbandonare quello su cui si trovava. La pietra era liscia, fredda. Più volte Sansa sentì le dita che scivolavano, e gli spazi tra gli appigli non erano regolari come lei avrebbe voluto. Nella città, le campane non cessavano di suonare. A metà strada, sentì le braccia che le tremavano. E capì che stava per cadere. “Un altro passo” ripeté a se stessa “un altro passo.” Doveva continuare a muoversi. Se si fosse fermata, non sarebbe più stata in grado di riprendere. Sarebbe venuta l’alba, e la luce del giorno l’avrebbe trovata aggrappata alla roccia, paralizzata dal terrore. “Un altro passo, un altro passo ancora.”

Il terreno la colse alla sprovvista. Sansa incespicò e cadde, il cuore le impazziva di nuovo nel petto. Rotolò sulla schiena, ritrovandosi a guardare in alto, il baratro visto al contrario, e le sue dita si aggrapparono al terreno. “Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta senza cadere. Sono riuscita a scendere e adesso torno a casa.”

Ser Dontos l’aiutò a rimettersi in piedi. «Da questa parte. E zitta, adesso, mi raccomando.»

Il cavaliere divenuto giullare si incamminò nell’oscurità che si stendeva sotto la scogliera, un’oscurità densa, nera. Fortunatamente, non dovettero andare lontano. Una cinquantina di iarde più a valle, parzialmente celato dai resti di una grande galea incagliata e bruciata, c’era un uomo in attesa a bordo di una piccola imbarcazione.

Con il fiato grosso, Dontos lo apostrofò: «Oswell?».

«Niente nomi» rispose l’uomo, ingobbito sui remi, un uomo anziano, alto, dinoccolato, con lunghi capelli bianchi e un lungo naso aquilino, gli occhi tenuti in ombra dal cappuccio. «Salite a bordo, e fate in fretta» mugugnò. «Dobbiamo andare via da qui.»

Una volta che entrambi furono nello scafo, l’uomo con il cappuccio fece scivolare i remi in acqua e si mise a vogare verso il centro del canale. Dietro di loro, le campane di Approdo del Re stavano ancora annunciando la morte del giovane sovrano. Quel grande fiume scuro, il fiume delle Rapide Nere, era tutto per loro.

Lenti, precisi, ritmici colpi di remo li portarono nel senso della corrente, scivolando sopra galee affondate, oltre alberature spezzate, scafi bruciati, vele squarciate. Gli scalmi erano stati rivestiti di stoffa, per cui l’imbarcazione procedeva quasi senza far rumore. La nebbia fluttuava sulle acque. Sansa notò ergersi sulla sponda le malandate fortificazioni di una delle torri dell’argano ideate dal Folletto. Ma la grande catena che aveva portato al disastro la flotta di Stannis Baratheon era stata abbassata. La piccola barca superò senza ostacoli il punto in cui migliaia di uomini erano bruciati nell’altofuoco. La riva si allontanò, la nebbia si fece più densa, il suono delle campane a morto cominciò ad affievolirsi. Alla fine, anche le luci di Approdo del Re svanirono, perdute nelle tenebre alle loro spalle. Erano al largo del golfo delle Acque Nere. Il mondo si contrasse: nient’altro che acque oscure, banchi di foschia e il remare del loro silenzioso nocchiero.

«Quanto manca?» chiese Sansa.

«Non si parla.» Il nocchiero era vecchio, ma molto più forte di quanto non apparisse, e la sua voce aveva un tono imperioso. C’era qualcosa di stranamente familiare nel suo volto, per quanto Sansa non riuscisse a individuare che cosa.

«Non manca molto.» Ser Dontos le prese una mano tra le sue e l’accarezzò gentilmente. «Il tuo amico è vicino, e ti aspetta.»

«Non si parla!» sibilò il nocchiero. «Sull’acqua, i suoni volano.»

Intimidita, Sansa si morse il labbro, rannicchiandosi in silenzio. Il resto fu solo vogare, vogare, vogare.


Il cielo a oriente cominciò a tingersi dei primi chiarori dell’alba. Oltre le tenebre, Sansa finalmente individuò una forma spettrale. Una galea mercantile, con le vele abbassate, in lento movimento, spinta da una singola fila di remi. A poco a poco, la polena apparve dalle brume, un tritone con in capo una corona dorata, intento a soffiare in un corno ricavato da una grande conchiglia. Sansa udì una voce lanciare un avvertimento. La galea cominciò a virare, lentamente.

La barca a remi si accostò allo scafo. Una scala di corda venne gettata fuoribordo. Il nocchiero smise di remare, aiutando Sansa ad alzarsi. «Forza, figliola, sei arrivata. Ti tengo io.»

Sansa lo ringraziò per la sua cortesia, ma l’unica risposta che ottenne fu un grugnito. Salire la scala di corda si rivelò molto più facile di quanto non fosse stato scendere lungo la scogliera. Oswell il nocchiero salì subito dietro di lei, mentre ser Dontos restava nella barca a remi.

Due marinai erano pronti sulla murata per aiutarla a raggiungere la tolda. Sansa stava tremando.

«La fanciulla ha freddo» disse qualcuno, che si tolse il mantello e glielo pose sulle spalle. «Ecco, va meglio così, mia signora? Ora rasserenati, il peggio è passato.»

Quella voce… lei conosceva quella voce. “Ma è andato nella valle di Arryn.” Accanto a lui, con la torcia in pugno, c’era ser Lothor Brune, uno dei guerrieri che Sansa ricordava di aver visto gareggiare nel Grande Torneo del Primo Cavaliere.

«Lord Petyr» chiamò Dontos dalla barca. «Devo rientrare, prima che pensino di mettersi a cercare anche me.»

Petyr Baelish, Ditocorto, appoggiò una mano sul parapetto. «Ma prima vorrai il tuo compenso. Diecimila dragoni d’oro, se non erro.»

«Diecimila.» Dontos si fregò la bocca con il dorso della mano. «Come promesso, mio lord.»

«Come promesso, certo. Ser Lothor, procedi.»

Lothor Brune abbassò la torcia. Tre uomini apparvero sul castello di prora. Tre uomini armati di balestra. Puntarono le armi, tirarono. Il primo dardo centrò Dontos in pieno petto mentre lui ancora guardava in alto, la punta perforò il simbolo araldico che aveva sulla tunica. Gli altri due gli affondarono nella gola e nel ventre. Accadde tutto con tale rapidità che né Dontos né Sansa ebbero il tempo di fiatare. Ricompensato il valoroso ser Dontos, Lothor Brune gettò la torcia sul cadavere. La galea si distaccò, lasciandosi dietro la piccola barca tramutata in una pira fiammeggiante.

«Tu lo hai… ucciso.» Sansa si aggrappò alla murata, si sporse in avanti e vomitò nelle Acque Nere. Che fosse sfuggita ai Lannister per finire nelle grinfie di qualcuno addirittura peggiore?

«Mia signora» sussurrò Ditocorto «il tuo dolore è del tutto sprecato per un individuo di quella risma. Era un infame, amico di nessuno.»

«Mi ha salvato.»

«Ti ha venduto» corresse Petyr Baelish. «Dietro la promessa di diecimila dragoni d’oro. La tua scomparsa li indurrà a sospettare di te per la morte di Joffrey. Le cappe dorate ti daranno la caccia e l’eunuco allenterà i cordoni della borsa. Quanto a Dontos… be’, lo hai sentito, no? Ti ha venduto in cambio di oro. E una volta che se li fosse bevuti tutti, quei diecimila dragoni, ti avrebbe venduto una seconda volta. Una borsa di conio compra il silenzio di un uomo per un po’. Un dardo di balestra compra quel silenzio per sempre.» Ditocorto fece un sorriso triste. «Tutto quello che Dontos ha fatto, lo ha fatto dietro mio ordine. Non ho osato avvicinarmi a te apertamente. Quando ho scoperto che al torneo di Joffrey gli avevi salvato la vita, mi sono reso conto che Dontos sarebbe stato la pedina perfetta.»

Sansa continuava a provare un forte senso di nausea. «Diceva di essere il mio Florian.»

«Sansa, rammenti ciò che ti dissi il giorno in cui tuo padre sedette sul Trono di Spade?»

Un ricordo che riaffiorò in lei con estrema chiarezza. «Mi dicesti che la vita non è una canzone cavalieresca. E che un giorno lo avrei imparato, e con dolore, a mie spese.» I suoi occhi si riempirono di lacrime. Ma Sansa non sarebbe stata in grado di dire se piangeva per ser Dontos Hollard, per Joffrey Baratheon, per Tyrion Lannister oppure per se stessa. «Menzogne? Tutte menzogne, senza fine, da tutti quanti, su qualsiasi cosa?»

«Da quasi tutti quanti. A parte te e me, naturalmente.» Lord Baelish sorrise di nuovo. «Vieni nel parco degli dèi stanotte, se vuoi tornare a casa.»

«Quella missiva… fosti tu a mandarmela?»

«Doveva essere il parco degli dèi. Nessun altro luogo della Fortezza Rossa è al riparo dagli uccellini dell’eunuco… dai topi dell’eunuco, come li chiamo io. Nel parco degli dèi, al posto dei muri, ci sono gli alberi. Al posto del soffitto, c’è il cielo. Radici, terra e roccia al posto del pavimento. I ratti non hanno dove strisciare. Perché i ratti devono strisciare, e devono nascondersi, se non vogliono che gli uomini li infilzino con le loro spade.» Lord Petyr la prese sottobraccio. «Lascia che ti accompagni nella tua cabina, Sansa. Hai avuto una giornata lunga e difficile, lo so. Devi essere stanca.»

Dietro di loro, la piccola barca a remi era ormai solo un vortice di fiamme e fumo, perduto nell’immensità del mare all’alba.

«Molto stanca» ammise Sansa. Anche perché adesso non c’era ritorno, l’unica direzione era avanti.

«Parlami del banchetto» le disse Petyr mentre l’accompagnava sottocoperta. «La regina si era impegnata così tanto nel prepararlo. I cantastorie, gli acrobati, l’orso danzante… il tuo piccolo marito ha apprezzato i miei guitti nani?»

«I tuoi guitti nani?»

«Li ho fatti venire apposta da Braavos, tenendoli nascosti in un bordello fino alle nozze reali. A un costo superato solamente dalla complessità dell’impresa stessa. È straordinariamente difficile nascondere un nano, e Joffrey… puoi portare un re alla fonte, certo, ma per re Joffrey I è stato necessario che qualcun altro facesse il bagno in quella stessa fonte prima che lui si decidesse a bere. Quando gli ho detto della mia sorpresa la sua maestà ha risposto: “Per quale motivo dovrei avere dei brutti nani al mio banchetto? Io odio i nani”. Allora sono stato costretto a sussurrargli all’orecchio: “Non tanto quanto li odierà tuo zio il Folletto”.»

Il ponte sussultò sotto i loro piedi. Sansa ebbe come l’impressione che il mondo fosse ancora più squilibrato. «Pensano che Tyrion abbia avvelenato Joffrey. Ser Dontos diceva che lo hanno arrestato.»

Ditocorto sorrise. «La vedovanza ti si addice, Sansa.»

A quelle parole le balzò il cuore in gola. Non avrebbe mai più condiviso un letto, un talamo, con Tyrion Lannister. Ed era quello che lei voleva… non era forse vero?

La cabina era angusta e con il soffitto basso, ma sulla cuccetta era stato messo un materasso di piume, con l’aggiunta di spesse pellicce, in modo da renderla più confortevole.

«Non è granché, lo so» disse lord Baelish «ma non dovrebbe essere nemmeno troppo spiacevole.» Indicò una cassapanca di legno di cedro sistemata sotto l’oblò. «Là dentro troverai indumenti puliti. Vestiti, biancheria, calze calde, un mantello. Solo lana e lino, temo. Inappropriati per una fanciulla della tua bellezza, ma ti terranno linda e al caldo fino a quando non troveremo qualcosa di più raffinato.»

“Tutto questo lui lo ha fatto preparare per me.” «Mio lord, io… io non capisco… Joffrey ti ha dato Harrenhal, ti ha nominato lord protettore del Tridente… Perché…»

«Perché avrei desiderato vederlo morto?» Ditocorto alzò le spalle. «Nessuna ragione in particolare. Inoltre, ora io mi trovo mille miglia lontano dalla valle di Arryn. Bisogna sempre tenere i propri avversari in uno stato di confusione. Se non riescono a capire chi sei o che cosa vuoi, non saranno nemmeno in grado di prevedere la tua prossima mossa. A volte, il modo migliore per disorientarli è compiere mosse che non hanno alcuno scopo, che addirittura sembrano andare contro di te. Ricordalo, Sansa, nel momento in cui deciderai di partecipare al gioco.»

«Quale gioco?»

«L’unico gioco che esiste. Il gioco del trono.» Le scostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Sei abbastanza grande da sapere che tua madre e io eravamo più che semplici amici. C’è stato un tempo in cui Catelyn era l’unica cosa che desiderassi al mondo. Osai sognare la nostra vita insieme, immaginare come sarebbero stati i figli che lei mi avrebbe dato… Ma Catelyn era una figlia di Delta delle Acque, e di Hoster Tully. “Famiglia, dovere, onore” sono le parole sacre dei Tully: ciò significava che non avrei mai potuto avere la sua mano. Eppure Catelyn mi diede qualcosa di ancora più splendido, un dono che una donna può concedere un’unica volta nella vita. Come potevo voltare le spalle a sua figlia? In un mondo diverso, migliore, tu avresti potuto essere mia figlia, non di Eddard Stark. La mia leale, amorevole figlia… Allontana Joffrey dalla tua mente, tesoro, e anche Dontos, Tyrion, allontanali tutti. Nessuno di loro ti darà più noia. Mai più. Adesso sei al sicuro. Niente altro ha importanza. Sei al sicuro con me. E stai tornando a casa.»

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